mercoledì 21 gennaio 2009

UN'"AIDA" INTIMISTA APRE LA STAGIONE LIRICA ROMANA, Il Velino 21 gennaio

Il vostro “chroniqueur”, melomane errante dall’età della pubertà (o giù di lì), ha avuto modo di assistere ad una rappresentazione al Teatro dell’Opera del Cairo nel lontano gennaio 1969, in occasione del centenario dell’apertura dell’edificio – un grazioso teatro all’italiana di 7-800 posti con tre ordini di palchi e barcacce, distrutto da un incendio all’inizio degli Anni ’70. Per avere un’idea un teatro come il Nuovo di Spoleto od il Valle di Roma. Il Teatro dell’Opera del Cairo – si sa- non era stato inaugurato dall’opera commissionata, in seguito ad una gara internazionale, per la bisogna (per l’appunto, “Aida” di Giuseppe Verdi, commissionata in seguito ad una gara a cui erano stati invitati anche Gounod e Wagner) ma con un “Rigoletto”, organizzato da quelle che allora si chiamavano “compagnie di giro”: La guerra franco-prussiana aveva reso impossibile il trasporto, via mare, di scene e costumi di “Aida” (confezionati a Parigi). La prima impressione che dava il teatro era il suo carattere intimo (ed un’acustica magnifica, ai livelli di quel prodigio che è il Massimo Bellini di Catania). Lo stesso palcoscenico era poco profondo e con un boccascena di dimensioni tutt’altro che grande; se sulla scena le masse (coro e comparse) potevano essere una cinquantina, il golfo mistico poteva ospitare 50-60 orchestrali al massimo. Nel gennaio 1969 non si rappresentava “Aida”, ma un allestimento di un teatro minore russo di un’opera poco nota del repertorio tedesco portata in tournée in “Paesi amici” (si era in piena guerra fredda e l’Egitto – pardon, la Repubblica Araba Unita era chiaramente schierata).
Una visita, anche una sola, al teatro che la ha commissionata rende immediatamente evidente che l’”Aida” (quale pensata da Verdi) era molto differente da quella della vulgata dei magniloquenti allestimenti correnti. Lo chiarisce la lettura della partitura: un esempio, non si richiedono quattro (od addirittura sei) arpe, ma due (di cui una in scena, in modo da potere essere suonate da una sola arpista). “Aida” è, in effetti, un’opera intimista (anche se le scene a due o tre personaggi sono incastonate in momenti corali ed un grande concertato chiude il secondo atto) . E’ la prima delle tre opere “perfette” di Verdi, che non aveva ancora assistito al “Lohengrin”, ma aveva già superato il melodramma e si era posto su un sentiero non molto differente dal musikdrama wagneriano: flusso orchestrale ininterrotto nelle sette scene (pur se ancora divise in “numeri”), equilibrio mirabile tra golfo mistico e voci, integrazione completa dei ballabili nelle singole scene, impiego del declamato, ed utilizzazione di motivi conduttori in forma non mnemonica ma sintattica (si pensi alle “riprese” del notturno d’archi ascoltato inizialmente nel preludio e ripetuto, con varie modificazioni, in più momenti dell’opera). Ad un esame attento, la partitura è densa di inquietudini e presagi novecenteschi – non quelli che sarebbero stati sviluppati in Germania ma quelli che avrebbe coltivato “La Giovane Scuola”, pur in aperta polemica con la poetica verdiana-
Tra il 2001 ed il 2004, la Fondazione Toscanini ha portato in giro in Italia ed all’estero un’”Aida” quasi come la avrebbe voluta Verdi; il “quasi” è d’obbligo a motivo di alcuni tagli ai ballabili (per ragioni di economia e di trasportabilità). L’allestimento nasceva da un’idea geniale di quel diavolaccio di Franco Zeffirelli (autore di regia e scene; i bei costumi sono di Anna Anni). Scene dipinte di un Egitto vagamente art déco, una recitazione accuratissima da parte di un cast giovane (se ne alternano tre) scelto tramite una selezione internazionale, cinquanta brillanti (e giovani) orchestrali, danze ridotte al minimo (ma con Carla Fracci nel ruolo di sacerdotessa). Non era un “Aida” iconografica: puntava sul dramma d’amore e gelosia (con un Amneris principessina capricciosa ed impudente) più sul contesto politico-spettacolare. Questa lettura faceva sì che si comprenda ciascuna parola (anzi ciascuna intonazione) di un libretto meno banale di quanto presentato nella vulgata su Verdi.
E’ utile ricordare l’”Aida” “intimista di Zeffirelli proprio per sottolinearne le differenze rispetto all’”Aida” “intimista” con le regia, le scene e le luci di Robert Wilson, i costumi di Jacques Reynaud e la coreografia di Johah Bokaer con il quale la sera del 20 gennaio è stata inaugurata la stagione 2009 del Teatro dell’Opera di Roma. Una stagione molto attesa in quanto dovrebbe rappresentare una vera e propria svolta del teatro lirico della capitale e farlo tornare al primato di un tempo: un cartellone basato su collaborazioni internazionali (e con tre “prime” mondiali), grande enfasi sul “teatro di regia”, nuovi titoli coniugati con titoli antichi in vesti innovativa.
In un teatro spesso incolore ove non addormentato, la sera della “prima” ci sono state vivaci polemiche. Ben vengano: l’opera, come qualsiasi espressione artistica, vive e si alimenta di dibattito ed anche di polemiche, se necessario, prossime allo scontro (sempre che si resti in un ambito civile).
E’ un’”Aida” “intimista” che si giustappone a quella di Zefferilli (di cui probabilmente Wilson non ha visto neanche un DvD). Stilizzato e moderno Bob Wilson tanto quanto prezioso e liberty Zeffirelli. L’Egitto è appena accennato da alcuni elementi scenici. La visione è bidimensionale, non tridimensionale (onon ci sono, quindi, giochi di prospettive ed cui interpreti e masse ) guardano il pubblico. La recitazione è ispirata ai geroglifici egiziani ed al teatro “Nô” giapponese. I giochi di luci esprimono stati d’animo, in linea con la musica. Lo spettacolo è a Roma sino al 30 gennaio (si può anche vedere al Covent Garden di Londra e a La Monnaie di Bruxelles che lo co-producono). di 700 spettatori) ma soprattutto altamente stilizzata e molto moderna.
Uno spettacolo il cui grande rigore stride con la direzione musicale di Daniele Oren (osannato dal pubblico romano, specialmente da quello più tradizionalista). Oren è ormai un routinier di “Aida” in grandi spazi come l’Arena di Verona: affretta i tempi, utilizza la bacchetta ed il braccio con forza, guarda al melodramma non ai presagi novecenteschi. Un maestro concertatore come Kazushi Ono (alla guida de La Monnaie) o Zubin Mehta avrebbe integrato la direzione musicale meglio con gli eleganti giochi visivi di Robert Wilson.
La cinese Hui He ha trionfato nel ruolo della protagonista (ottenendo l’applauso anche di chi contestava Wilson): ha un timbro chiarissimo, vasta estensione, perfetta dizione. Salvatore Licita, star del Metropolitan, torna a Roma dopo dieci anni; una sbavatura in “Celeste Aida” lo ha costretto a scivolare da un “do”acuto in un falsetto ma ha tenuto benissimo il terzo atto (terrificante per i tenori- fu fatale a Alagna alla Scala). Giovanna Casolla è ormai un mezzo-soprano; volume, a volte, eccessivo Ambrogio Maestri mantiene un’alta qualità. Carlo Colombara è un capo dei sacerdoti di livello.
In breve, uno spettacolo da consigliare e che indica un nuovo corso che potrà non piacere a tutti ma intende svegliare il teatro della capitale e riportarlo ai fasti di un tempo.

Nessun commento: