sabato 3 gennaio 2009

NON ASPETTIAMOCI MOLTO DI BUONO DALL'ANNO DEL BUE, Libero 3 gennaio

Secondo il calendario lunare cinese, il 2009 è l’”anno del bue”; per gli astrologhi (ovviamente cinesi) il segno denota “pazienza e coraggio”- per coincidenza – e non solo, dice chi s’intende dei movimenti delle stelle e delle loro ripercussioni su mercati finanziarie ed economia – era un “anno del bue” pure il 1985 – quello in cui i cinque “Grandi” dell’epoca conclusero l’accordo del Plaza per il riassetto pilotato dei tassi di cambio e dell’economie reali nelle maggiori aree della comunità internazionale. A voler essere precisi (ed in linea con il calendario lunare), l’”anno del bue” – meno lento di un toro ma più veloce di un orso – non inizia che alla mezzanotte del 26 gennaio – i preparativi iniziano il 21 gennaio con una serie di celebrazioni per dire addio all’”anno del topo”, il 2008.
L’”anno del topo” è stato quello in cui è esplosa la crisi finanziaria (da alcuni di noi annunciata da tempo) e la recessione dell’economia reale ha mostrato tutti i suoi segni. Cosa ha in serbo l’”anno del bue”? Lasciamo agli esperti d’astrologia confuciana, le previsioni che a loro competono (e che riguardano principalmente l’immenso Paese asiatico). Soffermiamoci sull’Ue, la cui Presidenza di turno è dal primo gennaio croce e delizia della Repubblica Cèca. Wolfgang Münchau, uno dei più attenti columnist europei, ha sottolineato , su “The Financial Times” del 29 dicembre, che dalla scorsa estate, l’Ue e la stessa, più piccola, area dell’euro, non sono stati in grado, nonostante l’iper-Presidente Nicolas Sarkozy (la Francia era titolare del turno di presidenza dell’Ue), di coordinare le loro risposte di fronte alla crisi finanziaria ed economica (ed al suo aggravarsi) . Ci sono state risposte “nazionali” (che paiono più o meno efficaci) e la Commissione Europea ha cercato di impacchettarle in carta argentata e d’infiochettarle per dare loro la sembianza di una “risposta europea”. Quel che è più grave – Münchau non lo dice o perché non se ne è accorto oppure per un senso di “caritas” nei confronti del Vecchio Continente – è il silenzio dell’Ue a fronte di quella ripresa del protezionismo pochi giorni dopo la conclusione di quel G20 tenuto a Washington a metà novembre in cui i Capi di Stato e di Governo si erano solennemente impegnati a portare a buon fine il negoziato multilaterale sugli scambi che va sotto il nome di Doha development agenda (Dda). La Russia ha aumentato i dazi sulle auto d’importazione – misure analoghe (nei confronti di questo o quel prodotto) sono state varate da India, Indonesia, Brasile ed Argentina. Non potevano certo replicare gli Usa: il Presidente uscente, G.W. Bush, si è trovato costretto dal Congresso a varare un programma d’aiuti finanziari all’industria metalmeccanica con effetti equivalenti a quelli di un aumento dei dazi; il Presidente entrante, Baraci Obama, è stato eletto in base ad un programma protezionista che prevede, addirittura, il “De Profundis” per il Nafta –l’area di libero scambio che da oltre tre lustri si sia affermando nel Nord America. Aveva ancor meno la volontà di fare sentire la propria voce (a favore della libertà dei commerci) quella Cina che in materia di protezione del proprio mercato e di aggressione di quelli altrui per una che fa (di scorrettezze, ove non di illegalità belle e buone), ne pensa almeno cento.
Per un’Ue frammentata e non coordinata, l’”anno del bue” rischia di essere “un anno in subappalto”. Spieghiamoci: un anno in cui non verrà considerata neanche un socio di seconda classe nel riassetto dell’economia e della finanza mondiale, ma un mero comprimario a cui subappaltare alcune funzioni di importanza secondaria. Per l’Italia questa insidia è specialmente pericolosa perché nell’”anno del bue” siamo titolari dalla Presidenza del G-8.
In effetti, nell’”anno del bue” una delle due partite-chiave si gioca tra Usa e Cina: riguarda il riassetto dei cambi (come nell’altro “anno del bue”, quel 1985 dell’accordo del Plaza). Nel 1995 – ricordiamolo- la Cina ha svalutato lo yuan e lo ha agganciato al dollaro Usa al cambio di 8,3 yuan per dollaro tramite un meccanismo di “hard peg” (“aggancio duro” , sostenuto da barriere di ogni sorta). Ha mantenuto il cambio a 8,3 durante la crisi asiatica del 1996-98. Per anni, ciò conveniva un po’ a tutti: la sottovalutazione della divisa cinese corrispondeva all’alto tasso di risparmio in Cina rispetto al risparmio negativo negli Usa, i capitali cinesi tornavano sul mercato americano (e venivano in gran misura collocati in buoni del Tesoro), l’import di merci dall’Estremo Oriente frenava le tensioni inflazionistiche in Nord America. Al tempo stesso , le riserve di dollari controllate dai cinesi aumentavano da 200 a 2000 miliardi nell’arco di appena sette anni. Lo squilibrio, sempre maggiore, è stata una determinante del contagio della crisi finanziaria da Wall Street al resto del mondo. Non che gli Usa (ed il resto del mondo) non se fossero accorti, ancora prima che il detonatore della crisi facesse sentire tutto il suo fragore. Nel 2005, sotto continue pressioni e minacce Usa, la Cina ha rivalutato lo yaun . Ma appena del 2% (sic!). Un nuovo “accordo del Plaza” sarebbe necessario. La Cina è restia: ricorda che dopo l’accordo del 1985 (che portò alla rivalutazione dello yen), il Giappone ebbe un decennio senza crescita. Il rallentamento colpisce anche il nuovo Impero di Mezzo (si prevede una decelerazione del 25% del tasso di aumento del pil – dal 9,5% nel 2008 al 7,5% nel 2009 – concentrata, però, in aree industriali urbane dove fabbriche stanno chiudendo e sono da settimane in corso disordini). Senza un riassetto valutario, però, è difficile prevedere (a breve) una ripresa dell’economia internazionale. La “pazienza e coraggio” dell’”anno del bue” potrebbe favorirlo (nonostante gli infausti aùguri) Un’Ue , priva di una politica coordinata di rilancio, rischia di essere, nell’ipotesi migliore, una comparsa.
L’altra partita chiave è la riduzione della leva finanziaria : negli Usa, in Gran Bretagna ed anche altrove famiglie e banche iper-indebitate devono rimettere a posto i loro conti. Ciò comporta – non facciamo illusioni – un aumento dei risparmi ed una riduzione delle spese – non proprio una risposta espansionista. L’aggiustamento vuole anche dire una riduzione della valorizzazione della proprietà immobiliare (che negli Usa ed in Gran Bretagna può essere mediamente del 40%; in Italia di un più contenuto 10-15%). La riduzione della leva finanziaria vuole anche dire porre in ordine il settore dell’intermediazione, evitando quella regolazione minuziosa (di cui parlano anime pie e barracuda-esperti) , che potrebbe dare il colpo di grazia ad un settore finanziario già debole. In questo campo, l’Ue potrebbe, se volesse, essere un socio primario della comunità internazionale con una politica di rilancio che non riguardi unicamente l’infrastruttura ma permetta anche un aumento controllato dell’inflazione per oliare la ripresa. Avranno i Governi Ue “la pazienza ed il coraggio” per realizzarla con un coordinamento effettivo?
Buon “anno del bue” a tutti.

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