La musica (specialmente quella per la scena teatrale) è, spesso, intrinsecamente connessa alle vicende politiche e sociali del mondo in cui è nata. Verdi e Wagner – è noto- sono , al tempo stesso, testimoni e protagonisti dei movimenti d’unità nazionale che hanno caratterizzato l’Ottocento tedesco ed italiano. Più sottili i rapporti tra musica e quegli aspetti della società civile che hanno un ruolo relativamente modesto nelle storiografie politiche più consuete. Ad esempio, le opere di Pier Francesco Cavalli e gli ultimi lavori del suo “maestro” Claudio Monteverdi ci mostrano – da quando sono disponibili edizioni critiche sgrossate dalle interpolazioni ottocentesche ed anche novecentesche – una Venezia lasciva, lussuriosa e libidinosa proprio nell’epoca della Controriforma e dell’Inquisizione: una società, soprattutto, in cui (ad onta delle norme e della storiografia ufficiale) l’eros era strettamente legato alla politica, un vero e proprio strumento per salire nella scala del potere. Ancora meno chiari (ai non addetti ai lavori) i nessi tra musica e politica religiosa (se con questo termine s’intende il confronto tra varie scuole di pensiero nell’ambito della medesima Fede): alcuni anni fa, un saggio monumentale, e magistrale, di Lidia Bramani ha esaminato in dettaglio i messaggi che dai lavori di Wolfgang Amedeus Mozart partivano in direzione di varie correnti del complesso mondo della “massoneria” cristiana, anzi cattolica, che alla fine del Settecento si contendeva, in Austria e in Baviera differenti letture della visione dell’universo, e del potere politico. Ancora più sottili le chiavi che un’edizione critica di una partitura rara offre per meglio comprendere divisioni tra correnti, mediazioni, tensioni e crisi in una società in cui religione e politica erano due facce della stessa medaglia (nello Stato Pontificio nella seconda metà del Settecento, quando l’illuminismo entrava nella cultura alta, la borghesia sfidava l’aristocrazia, la Controriforma perdeva terreno, avanzavano nuovi modi d’interpretare il dovere dell’evangelizzazione e la supremazia della Chiesa – i gesuiti - , si appannavano le vecchie maniere).
A fine 2008, è stata presentata da un editore non piccolo ma piccolissimo (ed i cui meriti sono inversamente proporzionali alle dimensioni), le MOS edizioni (www.petrometastasio.com), l’edizione critica dell’azione sacra di Pietro Metastasio “ Betulia Liberata” quale messa in musica da Pasquale Anfossi nel 1783 per conto dell’Oratorio dei Filippini a Roma (oggi conosciuto come Oratorio Borromini). Di Anfossi è rimasto relativamente poco, pur se dall’epistolario di Mozart (che lo considerava “molto cognito”) si apprende che il salisburghese lo apprezzasse tant da includerlo tra i suoi maestri. Il lavoro di Metastasio (basato sulla vicenda biblica di Giuditta ed Oloferne) era già stato messo in musica da musicisti oggi molto più conosciuti dell’Anfossi (ad esempio, da Nicolò Jommelli e da Benedetto Leoni). L’interesse dell’edizione critica (curata, con pazienza certosina, da Giovanni Pelliccia) è non soltanto nella riscoperta di un compositore di grande rilievo della “scuola napoletana” del Settecento ma nel significato politico del lavoro. E’ stato commissionato dalla Chiesa di Santa Maria in Navicella (oggi conosciuta con il nome di Chiesa Nuova a Corso Vittorio Emanuele II a Roma), presidio centrale della Congregazione dei Filippini , dove venne eseguita (con ben circa 16 repliche l’anno) dal 1781 al 1794 (quando la rivoluzione francese ed i primi sentori di quelle che sarebbero state le guerre napoleoniche travolsero la politica romana).
Il successo si deve solamente alla raffinatezza del testo metastasiano dell’”azione sacra” ed alla bellezza della scrittura orchestrale e vocale dell’Anfossi? Un saggio di Mario Valente, l’unico vero studioso di Metastasio oggi in Italia, pubblicato con l’edizione critica della partitura, rivela che dietro le note c’è molto di più.
Il testo metastasiano venne, infatti, riveduto e corretto per inserire la “Betulia Liberata” in una Roma in cui i conflitti per la successione asburgica alla corona d’Austria avevano accentuato le tensioni all’interno della Città Eterna tra i “giansenisti” da un lato (i Filippini non lo furono mai in senso integrale, ma ne furono collaterali) e gli ortodossi dall’altro; tra il primato teologico-politico del magistero della Chiesa romana, da una parte, e il clero della periferia, l’aristocrazia e la borghesia, quest’ultima emergente in tutta Europa, quindi anche nel Lazio e nel resto del dominio temporale del Papa Re, dall’altra.
La Chiesa –come scrive Mario Valente – si pose come grande mediatrice tra interessi contrapposti sia nel proprio Regno temporale sia tra le case regnanti d’Europa. Per riaffermare il primato anche politico della Chiesa, l’oratorio musicato da Anfossi per i Filippini termina con un’aria di Giuditta a Maria “donna forte” e invincibile”: un messaggio neppure troppo cifrato sia nei confronti delle case reali europee sul ruolo che Roma era convinta di dovere esercitare nella successione asburgica, sia nei riguardi dell’aristocrazia, della borghesia e dello stesso clero di periferia.
Tale aria, si badi bene, non c’è né nel testo originale metastasiano né nelle versioni messe in musica da calibri importanti quali Jommelli e Leoni. Il messaggio è tanto più forte poiché nella vicenda biblica, ovviamente, non c’è e non ci può essere traccia della Vergine. Siamo in un quadro storico in cui solamente pochi anni prima era stata sciolta la Compagnia di Gesù e ne erano stato confiscati i beni in quanto il Papato vedeva con preoccupazione il crescente potere della congregazione. I “filippini” della Chiesa in Santa Maria in Navicella – fondati dal quel San Filippo Neri che si poneva come “il prete dei poveri” e dotati di un programma teologico e religioso molto lineare e quindi molto chiaro – conducevano anche un’attività politica influente (e molto incisiva) di quanto non abbiamo messo in luce recenti sceneggiati televisivi. Erano un’anomalia nella Controriforma poiché organizzati in piccole comunità, con un alto grado di democrazia interna, nonché aperti al vento nuovo dell’illuminismo
(da qui non solamente il collateralismo con il giansenismo e, quel che più conta, una “Betulia Liberata” in cui Giuditta coniuga Fede e Ragione. Un lavoro , quindi modernissimo (l’enclica “Fides et Ratio” di Papa Paolo Giovanni II ha appena compiuto dieci anni). Oloferne e la sua masnada, inoltre, possono venire identificati come il mondo islamico, privo tanto di Fede quanto di Ragione (quando venne commissionata la messa in musica dell’”azione sacra” a Anfossi ricorreva il centenario dell’assedio di Vienna ed il bicentenario della battaglia di Lepanto- due “eventi”, si direbbe oggi, che non potevano essere ignorati all’Oratorio dei Filippini). L’edizione critica della partitura, dunque, non soltanto apre una finestra su un periodo politico- culturale poco studiato della vita di Roma (e non solo) ma ha anche riscontri immediati con la nostra attualità. Un auspicio: un teatro italiano (ad esempio, il Nazionale di Roma o il Teatro degli Atti della sempre più innovatrice Sagra Malestiana a Rimini) la rappresenti prima che se ne approprino Berlino, Francoforte o Zurigo e fornirne, come è là consueto, una lettura troppo attuale, ossia eccessivamente cronachistica e con una pletora di nudi (che i filippini non avrebbero affatto apprezzato).
Lidia Bramani Mozart Massone e Rivoluzionario Milano, Bruno Mondadori 2005 pp.466 € 30
Giovanni Pelliccia (a cura di) Betulia Liberata di Pietro Metastasio e Pasquale Anfossi, Prefazione di Friederich Lippman, Introduzione di Mario Valente, MOS Edizioni 2008 pp CI , 232 € 50
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