Negli ultimi mesi – lo sappiamo- i contribuenti degli Usa e di numerosi Paesi europei si sono accollati l’onere d’interventi a favore di banche in serie difficoltà , e le cui attività finanziarie non potevano essere seriamente valutate a ragione della difficoltà d’imputare una valorizzazione a titoli più o meno tossici nei loro portafogli. E’ un costo che i contribuenti paiono disposti a pagare perché i “loro” sistemi bancari riprendano, passata la sbornia, a funzionarie con un buon grado d’efficienza ed a tutelare il risparmio. Ora un gruppo di nove istituti dell’Ue si è rivolto alla Commissione Europea ed alla Banca centrale europea (Bce) perché il supporto Ue venga esteso non solo a banche degli Stati comunitari, inclusi ovviamente i neocomunitari, ma anche a possibili futuri Stati membri dell’Unione come la Serbia e l’Ucraini . Dei nove istituti, due sono italiani, Intesa San Paolo e Unicredit, gli altri austriaci (Raiffersen International, che ha organizzato l’operazione, e Erste Bank), francesi (Société Générale), belgi (Kbc), tedeschi (Swedbank) e greci (Efg Eurobank). Sorprendentemente, il Presidente della Bce Jean-Claude Trichet (ingegnere minerario anche lui, nonché della stessa classe, “promotion”, di Jacques Attali) si è mostrato favorevole ed ha fatto comprendere che la Bce potrebbe esercitare funzioni di vigilanza (ove la richiesta venisse accolta). L’argomento di base presentato a favore degli aiuti non è economico ma politico: “Abbiamo combattuto 50 anni per tirare questi Paesi fuori dal comunismo – dice Herbert Stepic di Raiffersen International – e non possiamo lasciare i sistemi bancari solo nel momento del bisogno”.
Noi, di Libero Mercato, abbiamo tutta la simpatia possibile nei confronti di Paesi che escono dalla tragedia umana, politica, sociale ed economica del comunismo. Non siamo liberal-liberisti dogmatici ma dobbiamo chiederci se tali interventi centreranno il bersaglio. Ci aiutano alcuni studi recenti che riguardano principalmente contesti in cui le regole e le istituzioni sono più solidi che nelle aree in transizione dal piano al mercato. Un lavoro, ancora in corso di pubblicazione di Oren Levintal dell’Università Ebraica di Gerusalemme ( si può chiederlo, a mio nome, all’autore oren.levintal@mail.huji.ac.il) esamina gli effetti “reali” degli shock bancari nei Paesi Ocse. Mediamente durano due anni ed incidono specialmente su attività e comparti che dipendono da finanziamenti esteri. Nei 30 Paesi Ocse una riduzione di un punto percentuale in rendimenti sulle attività bancarie rallentano di 0,30 percentuali il pil per (lo si è detto) circa 24 mesi. Quindi, facciamo attenzione; unicamente se Serbia ed Ucraina (e soci) avessero vasti comparti dipendenti da finanziamenti internazionali, gli shocks avrebbero effetti sulle loro economie reali. Naturalmente, interventi da parte dei contribuenti Ue rappresenterebbero un supporto ai crediti di banche Ue (le nove citate? Il dubbio non può non sorgere) nei confronti d’istituti di Paesi in transizione: più che pubblico o sociale, l’interesse sarebbe di chi si è esposto molto all’Est e nei Balcani.
Pure in questi casi, gli aiuti aiutano (perdonate l’allitterazione)? Un’analisi freschissima del Fondo monetario ("The Use of Blanket Guarantees in Banking Crises", IMF Working Paper No. 08/250 ) di Luc Laeven e Fabian Valencia passa in rassegna 42 episodi di crisi bancarie in cui sono state utilizzate “garanzie pubbliche” (o del Tesoro o della Banca centrale, a seconda dei Paesi). Le conclusioni significative sono tre : a) le “garanzie” aggiungono un costo sostanziale alle ristrutturazioni (spesso necessarie) degli istituti; b) hanno esiti positivi sul mercato interno in quanto fermano o frenano la corsa agli sportelli per ritirare depositi; c) tuttavia “gli obblighi nei confronti dell’estero” non reagiscono alle “garanzie”. Quindi, i nove istituti (se la richiesta li concerne da presso) non nutrano eccessive illusioni; stanno lavorando per il Re di Prussia poiché se gli interventi arrivassero, se ne avvantaggerebbero altri. Ancora più duro un altro lavoro del Fondo monetario (Working Paper n. 08/93) i cui contenuti possono interessare gli uffici studi delle banche più che i nostri lettori, i quali, però, possono essere solleticati dal lavoro di Anatoly Peresetsky e Alexander Karminsky (i nomi russi non traggano in inganno; lavorano ambedue a New York ed il lavoro è il BOFIT Discussion Paper n. 17/2008) in cui si sviscera come Moody’s classifica i titoli bancari. C’è un po’ da mettersi le mani nei capelli poiché il metodo appare così sempliciotto che un operatore informato potrebbe arrivare alle medesime conclusioni dell’agenzia meramente in base a quanto legge sui giornali e sul web.
Infine, diamo un’occhiata agli esiti (sino ad ora) della generosità dei contribuenti Usa ed Ue nei confronti di banche nei guai? E’ prematuro fare riferimento ad analisi tecniche professionali o scientifiche. Indicativi, però, i titoli dei giornali e le relative inchieste: il 19 gennaio il “New York Times” pubblicava un’ampia indagine su come gli aiuti siano andati a rimpinguare il capitale degli istituti senza, però, rendere più facile la morsa creditizia. Lamentele analoghe sulla stampa europea del 20 e 21 gennaio.
Una pausa di riflessione può essere utile a tutti.
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