Si avvicina il giorno dell’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca. I dati economici si fanno sempre più inquietanti. Pullulano le interpretazioni e le illazioni di quelle che saranno le mosse del Presidente Usa. E’ evidente che, ancora una volta, la strategia della ripresa dalla recessione mondiale più grave degli ultimi 75 anni verrà segnata da ciò che si deciderà a Washington. In grande fibrillazione gli obamiani nostrani – ossia tutti coloro che, a torto o ragione, dicono di avere fatto , e di fare, il tifo per il nuovo inquilino di 1600 Pennsylvania Ave., N.W. e di essere certi che dal suo cappello tirerà fuori una ricetta miracolosa per gli Stati Uniti e per gli altri. Hanno taciuto quando hanno appreso che, in attesa di varcare i cancelli della Casa Bianca, Obama ha preso alloggio nell’albergo preferito da Silvio Berlusconi (che ne è ospite abituale). Hanno fatto fitta di non accorgersi che il Presidente e la First Lady hanno iscritto la prole ad una scuola quackera, Sidwell Friends, dove si aborre tutto ciò che abbia a che fare con il metodo Montessori e si inviano gli insegnanti in stage a Eton (la scuola dei rampolli della Casa Regnante in Gran Bretagna – non proprio un modello di tecniche pedagogiche permissive). Hanno anche ignorato che Obama ha presentato le prime linee del suo programma non in Università qualsiasi ma in quella George Mason University, in Virgina, ma a 20 minuti d’auto della Casa Bianca che negli Usa ha preso il ruolo della University of Chicago come roccaforte del liberismo, ed in particolare dei liberisti considerati “conservartives”, un segnale importante e la mano tesa all’opposizione (dopo mesi di una campagna elettorale molto ideologizzata).
Non hanno potuto, però, evitare di passare sotto silenzio la notizia secondo cui Obama ed il suo “team” economica progettano una drastica riduzione della pressione fiscale – per rilanciare l’economia, “affamando la bestia” – e non un vasto programma di spesa pubblica alla FDR (Franklin Delano Roosevelt). Alcuni hanno pure riscoperto, pateticamente, “l’equivalenza ricardiana” (un teorema che s’insegna agli studenti del primo anno) secondo cui in certe condizioni indebitamento e tasse si equivalgono. L’informazione – hanno aggiunto- viene dal “blog” del Nobel Paul Krugman; sarebbe una “seconda scelta” poiché Obama insiste per un programma bipartisan ed è consapevole che i repubblicani (e molti “democratici”) non amano le strette di mano (anche bene intenzionate) di Pantalone.
In primo luogo, mettiamo le cose in chiaro. Diamo a Krugman ciò che di Krugman. L’articolo, apparso su un centinaio di quotidiani (americani e non solo) la mattina del 6 gennaio, è soprattutto un attacco a suoi “confratelli” come Robert Lucas e Ben Bernake che negli ultimi anni hanno espresso l’opinione che ormai i macro-economisti sono così bravi che eviteranno “sempre e comunque” le recessioni. Nella seconda parte dell’articolo, Krugman tratta della scelta di politica economica tra aumento della spesa pubblica (per investimenti) o riduzioni delle tasse. Krugman cita gli umori del Congresso, ma (è un Premio Nobel) solleva un quesito meno banale: una strategia basata sull’incremento della spesa “pone sui politici (Obama – n.d.r) l’onere di provare i benefici ne giustificano i costi”. E’ un onere pesante anche negli Stati Uniti dove nel primo mandato di Ronald Reagan è stata approvata una legge (mai modificata da allora) che impone una rigorosa analisi costi benefici a tutti i programmi federali di spesa pubblica. Non molto tempo fa due economisti “liberal”, Robert Hahn e Patrick Dudley, hanno pubblicato sulla “Review of Enviromental Economic and Policy” una rassegna di 74 casi di valutazione ex ante ed ex post di misure di spesa approvate delle Amministrazioni Reagan, Bush padre e Clinton; non solamente la qualità è molto eterogenea ma 70% delle 74 analisi non hanno informazioni “quantitative credibili” sui benefici netti. Lo sanno sia il Congressional Budget Office (CBO, la struttura tecnica di analisi economica al servizio del Parlamento) che i singoli Deputati e Senatori. Lo sa soprattutto Larry Summers (vero braccio destro di Obama su questi temi) che teme di non avere risposte.
Summers sa anche che un altro Premio Nobel (Douglas C. North) ha smontato la fama di FDR e del “New Deal” come veicoli per uscire dalla Grande Depressione; i libri di North (uno solo, peraltro teorico, tradotto in italiano e probabilmente non letto dagli obamiani nostrani) dimostrano il vero motore era stato il riarmo a ragione della situazione internazionale mondiale che stava portando alla Seconda Guerra Mondiale. Senza l’analisi sofisticata che meritò a North il Nobel, alla fine degli Anni 60, quando avevo 26 anni ed ero appena entrato in Banca Mondiale, me lo aveva detto (tra un brandy & soda e l’altro), uno degli artifici del New Deal , l’allora Settantenne, David E. Lilienthal , che era stato Presidente della Tennessee Valley Authority dal 1941 al 1946 (dopo esserne stato uno dei creatori nel 1932). Allora, Lilienthal era Presidente di R & D (Resource and Development), una delle maggiori società di consulenza economica.
Peraltro, anche perché da decenni non si verificano recessioni così profondee cosi estese , mancano studi empirici sugli effetti dei programmi d’investimento pubblico per uscire da trappole analoghe all’attuale. Ne ho trovato uno pubblicato sul numero di dicembre 2008 della “Japanese Economic Review” (quindi, freschissimo). Riguarda il Sol Levante per oltre un decennio alle prese con recessione e stagnazione nonostante una politica monetaria espansionista, un debito pubblico in aumento ed il disavanzo di bilancio pure. Ne sono autori Christopher Annala, Raymond Batina e James Feehan, docenti in atenei sulla Costa del Pacifico degli Usa (e verosimilmente frequenti visitatori del Giappone). L’analisi è significativa perché riguarda un lungo periodo (1970-1998) ed utilizza la strumentazione econometrica dinamica più avanzata (VAR/ECM in gergo). Individua differenze di rilievo tra gli effetti degli investimenti pubblici sull’occupazione (significanti nei settori finanziario, assicurativo, immobiliare, manifatturiero e servizi utili), sull’attivazione di investimenti privati (finanza, assicurazione, immobiliare, agricoltura , trasporti, commercio e servizi) e sulla produzione (minerario, finanziario, assicurativo, commercio e manifatturiero). Sono indicazioni interessanti per una società a rapido invecchiamento ed un’economia matura come quella italiana. Gli obaniami nostrani farebbero bene a studiare (meglio se alla George Mason University). Invece che a fraintendere quel che scrive quel simpatico arrogantone di Paul Krugman.
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