Oeconomicus
Di
Giuseppe Pennisi
Presidente
della commissione informazione del Cnel e del comitato scientifico del Centro
studi impresa lavoro
La
guerra commerciale è già iniziata
Nel
numero precedente di questa rivista, abbiamo sottolineato come si stesse
entrando in una pericolosa fase di deglobalizzazione. Pericolosa non solo in
quanto commercio e movimenti di capitali, di aziende e di persone hanno sempre
voluto dire un mondo più libero per tutti. Ma anche perché le precedenti fasi
di deglobalizzazione, da fine Ottocento, hanno sempre portato a conflitti,
anche armati e di grandi dimensioni. Questa volta gli occhi sono puntati sugli
Stati Uniti, che furono il motore sia della prima fase della globalizzazione
(1870-1910), sia della seconda (dalla fine della Seconda guerra mondiale ai
giorni nostri); e lo furono grazie al commercio internazionale e alle
migrazioni, facilitate dal progresso tecnico nel settore dell’energia e dei
trasporti. Questa volta, invece, gli Stati Uniti minacciano di essere i protagonisti
della deglobalizzazione, proprio partendo dal commercio. Non tanto per le
promesse e le concessioni elettorali fatte dal presidente Usa durante la
campagna presidenziale, quando il blocco sociale dell’elettorato americano è
cambiato. Seguo queste tematiche da circa cinquant’anni (ossia da quando ero in
università e a Villa Le Bocage a Ginevra si negoziava quello che sarebbe stato
il Kennedy round of multilateral trade negotations). Se, per semplificare,
dividiamo gli Stati Uniti in due blocchi elettorali, senza dubbio il Partito
democratico rappresentava quello meno aperto alla liberazione degli scambi
internazionali. Al contrario, il Gop repubblicano è sempre stato marcatamente
più favorevole all’apertura al commercio mondiale. Ci sono state ragioni storiche:
i proprietari e gli operai al nord votavano per i democratici, ma chiedevano in
cambio protezione per i propri prodotti, mentre il sud (sino a metà Ottocento e
quindi alla Guerra di secessione) vivevano di esportazioni di derrate e,
quindi, di libertà degli scambi. Nei decenni, la composizione geografica e
sociologica degli Stati Uniti è mutata. Oggi il Gop ha forti insediamenti in un
nord in declino industriale; di converso, in estrema sintesi, il sud ha perso
interesse per la libertà degli scambi mentre, essendo altamente tecnologico,
uno dei suoi maggiori obiettivi è la tutela della proprietà intellettuale. Si
pensava che le dichiarazioni di Trump in materia di commercio elettorale
servissero principalmente a raccattare voti. Invece, le prime promesse fatte in
materia di politica commerciale sono state mantenute dal giorno del suo
ingresso alla Casa Bianca; con un decreto presidenziale ha fatto uscire gli Usa
dalla Trans-Pacific partnership (Tpp), vasto accordo commerciale e sugli
investimenti, la cui ratifica da parte degli altri partner non era, peraltro,
sicura. Con l’uscita degli Stati Uniti, muore anche il Transatlantic trade and
investment partnership (Ttip), peraltro ancora in fase di non facile
trattativa. Nei trent’anni, però, anche le vie del commercio internazionale
sono profondamente mutate. Nella catena del valore, ad esempio, tre Paesi sono
strettamente legati: Usa, Cina e Messico. In un settore come quello
metalmeccanico, ad esempio, gli elementi di base vengono fabbricati in Cina e da
lì raggiungono gli Usa, dove vengono trasformati in componenti d’auto per
l’assemblaggio finale in Messico. Questi stretti nessi nella catena del valore
fanno sì che la guerre commerciali di oggi e domani saranno meno violente di
quelle del XIX e XX secolo. Probabilmente, però, saranno più rumorose.
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