I robot devono pagare le imposte?
I robot devono pagare le imposte? Non è stata solo una boutade quella di Bill Gates il fondatore di Microsoft, l’uomo più ricco del mondo. «Oggi se un essere umano guadagna 50 mila dollari all’anno, lavorando in una fabbrica, deve pagare le imposte. Se un robot svolge gli stessi compiti, dovrebbe essere tassato allo stesso livello». Messa così può sembrare quasi una provocazione ma, intervenendo alla Conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera, Gates si è proiettato nel futuro ormai prossimo: «Non ritengo che le aziende che producono robot si arrabbierebbero se fosse imposta una tassa. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale può generare profitti con risparmi sul costo del lavoro». Il miliardario americano sembra prospettare una doppia imposizione. Dovrebbero pagare un prelievo extra sia le aziende che costruiscono i robot sia le imprese che li installano per sostituire la manodopera di uomini e donne.Solo negli Stati Uniti circa otto milioni di posti potrebbero essere bruciati dall’automazione. In Gran Bretagna, secondo alcune stime, sarebbero addirittura 15 milioni. Le previsioni, però, oscillano. Uno studio di McKinsey giunge alla conclusione che, se si considera «l’attuale tecnologia», solo il 5 per cento delle occupazioni attuali verrebbe cancellato dai robot. Ma il ragionamento, naturalmente, deve tenere conto dei progressi tumultuosi e allora la soglia di sostituzione tra uomo e macchina può salire fino al 45 per cento. Il dibattito è in pieno sviluppo su piani diversi. Da quello filosofico con la tesi del trionfo finale della tecnica (sostenuta da Emanuele Severino) alle implicazioni etiche fino a quelle tributarie.
Sul tema esiste già una letteratura sterminata. Ecco un elenco dei testi scaricati più frequentemente:
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Jennifer
Bird-Pollan (Kentucky), Utilitarianism and Wealth Transfer Taxation, 69
Ark. L. Rev. 695 (2016)
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Marco
Bonomo (Insper Institute of Education and Research), Joao De Mello (Pontifical
Catholic University of Rio de Janeiro), and Lira Mota (Columbia Business
School), Short-Selling Restrictions and Returns: A Natural Experiment
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Leopoldo
Fergusson (Universidad de los Andes), Carlos Molina (Universidad de los Andes),
and Juan Feipe Riaño (University of British Columbia), I Evade Taxes, and
So What? A New Database and Evidence from Colombia
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Jeremiah
Harris (Kent State) and William O’Brien (University of Illinois at
Chicago), The Effect of the U.S. Worldwide Taxation Policy on Domestic
Mergers and Acquisitions
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Jost
Heckemeyer (Leibniz Universität Hannover) and Pia Olligs (University of
Cologne), ‘Home Sweet Home’ versus International Tax Planning: Where Do
Multinational Firms Hold Their U.S. Trademarks?
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Daniel
Hemel (Chicago), Pooling and Unpooling in the Uber Economy, 2017 U.
Chi. Legal Forum (forthcoming)
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David
Kamin (NYU) and Brad Setser (Council on Foreign Relations), House Plan’s
Bad Math: Over-Estimates of Revenue from a Border Adjustment, Tax Notes
(forthcoming 2017)
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Jacqueline
Lainez (University of the District of Columbia), Holding U.S. Corporations
Accountable: The Convergence of U.S. International Tax Policy and International
Human Rights
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Wayne
L. Nesbitt, Edmund Outslay, and Anh Persson (Michigan State), The Relation
Between Tax Risk and Firm Value: Evidence from the Luxembourg Tax Leaks
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Adam
J. Olson (Cincinnati), Consequences of Executive Focus on Support
Activities: Evidence from Executive Influence on Firm Tax Strategy
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Dhruv
Sanghavi (Maastricht University), BEPS Hybrid Entities Proposal: A
Slippery Slope, Especially for Developing Countries, 85 Tax Notes Int’l 357
(Jan. 23, 2017)
·
Richard
Schmalbeck (Duke), Jay A. Soled (Rutgers), and Kathleen DeLaney Thomas (North
Carolina), Advocating A Carryover Tax Basis Regime, Notre Dame L.
Rev. (forthcoming)
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Samer
E. Semann (Purdue), Tax Avoidance, Income Diversion, and Shareholder
Value: Evidence from a Quasi-Natural Experiment
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Anindya
Sen (University of Waterloo), Smokes, Smugglers and Lost Tax Revenues: How
Governments Should Respond, C.D. Howe Inst., Commentary No. 471 (Feb. 2017)
·
Antony
Ting (University of Sydney), Base Erosion by Intra-Group Debt and BEPS
Project Action 4’s Best Practice Approach – A Case Study of Chevron, 2017
British Tax Rev. no. 1, at 80
A mio avviso, il testo più utile, più conciso e più direttamente mirato al
tema resta il paper di Ryan Abbot e di Bret N. Bogenschneider (ambedue
della University of Surrey) messo sulla rete il 24 marzo. Per averlo, basta scrivere
a drryanabbot@gmail.com In sintesi, il papero sottolinea che le
tecnologie oggi esistenti possono automatizzare gran parte delle funzioni del
lavoro. Il loro costo decresce mentre quello del lavoro umano aumenta. Questa
determinante – unitamente con il progresso tecnico in materia di informatica,
intelligenza artificiale e robotica – induce a prevedere che ci saranno perdite
significative di posti di lavoro e un aumento dell’ineguaglianza dei redditi.
Coloro che hanno responsabilità politiche stanno dibattendo come
trattare questi temi. Gran parte delle proposte riguardano gli investimenti in
formazione o nella spesa sociale per attutire le conseguenze dell’automazione.
L’importanza della politica tributaria è stata sottovalutata, affermano Abbot e
Bogenschneider. A loro parere i sistemi tributari incentivano
l’automazione anche quando non è socialmente efficiente. Infatti, gran parte
del gettito proviene dall’imposta sul reddito, un’imposta che i robot non
pagano a ragione di sistemi tributari che tassano il lavoro piuttosto che il
capitale. I robot sono, quindi, pessimi contribuenti. Secondo Abbot e
Bogenschneider occorre cambiare rotta. Il sistema tributario deve essere
almeno neutrale tra lavoro e capitale, ossia tra lavoro dei robot e degli
esseri umani. Ciò può essere realizzato abolendo le deduzioni o detrazioni
tributarie per l’automazione oppure creando un’imposta sull’automazione oppure
ancora aumentando le imposte sulle persone giuridiche o meglio ancora una
combinazione di queste proposte.Per affascinanti che siano queste proposte hanno il profumo di luddismo, un movimento di protesta operaia sviluppatosi all’inizio del diciannovesimo secolo in Gran Bretagna e caratterizzato dal sabotaggio della produzione industriale. Macchinari come il telaio meccanico, introdotti durante la rivoluzione industriale, erano infatti considerati una minaccia dai lavoratori salariati perché causa dei bassi stipendi e della disoccupazione. Il nome del movimento deriva da Ned Ludd, un giovane forse mai esistito realmente che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio in segno di protesta. Ludd divenne simbolo della distruzione delle macchine industriali e si trasformò nell’immaginario collettivo in una figura mitica: il Generale Ludd, il protettore e vendicatore di tutti i lavoratori salariati oppressi dai padroni e sconvolti dalla rivoluzione industriale.
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