Come procede la manutenzione
delle infrastrutture in Italia
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Il commento
dell'economista Giuseppe Pennisi
È inquietante
l’orientamento verso l’errore umano delle indagini del crollo del ponte sulla
A14 a Camerano, in Provincia di Ancona – con la morte di due coniugi e il
ferimento di tre operai. Sembra quasi la ricerca di un capro espiatorio per
distogliere l’attenzione da quello che è un serio problema politico: la
disattenzione nei confronti delle infrastrutture, e soprattutto della loro
manutenzione, negli ultimi anni.
È fuorviante
l’accento messo nei giorni scorsi su un passaggio dell’ultimo Rapporto Ocse
secondo cui l’Italia investirebbe quasi o più della Germania. I dati si
riferiscono infatti alla formazione totale di capitale fisso, ossia agli
investimenti complessivi e meno che meno all’investimento in infrastruttura.
In effetti,
i dati Eurostat suggeriscono che da oltre un decennio la spesa pubblica in
conto capitale in Germania (Lānder inclusi) si aggira sul 5% del Pil mentre in
Italia è crollata dal 3,5% del Pil negli anni Ottanta, al 2,5% alla fine degli
anni Novanta, e a meno dell’1% negli ultimi anni. E i tentativi di “project
financing”, con l’apporto di investitori privati, hanno riguardato in modo
puntiforme unicamente alcuni rami (quali i beni culturali). Il dibattito è
stato, tuttavia, unicamente tra esperti della materia e pare non abbia sfiorato
governo e Parlamento.
La
letteratura è abbondante: tutti gli scritti propongono un aumento
dell’investimento pubblico, una semplificazione delle procedure, una
regolazione più efficace e più efficiente. Fondamentale in materia un lavoro di
sei anni fa della Banca europea per gli investimenti (Wagenwoort, R. De
Nicola C., Kappeler A. (2011) Infrastructure Finance in Europe.
Composition, evolution, crisis impact, European investment bank Papers
Vol.15, n.1), l’unico a mia memoria che analizzasse in dettaglio anche le
tematiche tra nuova formazione di capitale fisso sociale e della sua
manutenzione.
L’Italia fa
parte del Long term investment club che organizza ogni anno a Roma una
conferenza mondiale sul tema. Se si guarda solo alle iniziative “interne”,
fondazioni come Fastigi sono molto attive nell’animare la discussione. Non
sembra, però, che ci siano stati effetti concreti sui processi decisionali
della politica.
Negli anni
Cinquanta sono state realizzate numerose grandi opere (tecnicamente
all’avanguardia) perché c’era una volontà politica che si fondava su un ampio
consenso (governo, Parlamento, imprese e cittadini). Allo stesso modo per
l’opinione pubblica la costruzione di una nuova opera e la sua manutenzione
erano, per definizione, un’opportunità. Oggi tale percezione non è scontata.
Soprattutto allora c’era l’esigenza di costruire l’infrastruttura primaria per
lo sviluppo del Paese, un’occasione anche per creare consenso.
A partire
dalla fine degli anni Novanta, invece, il fabbisogno principale è stato per il
completamento, l’ammodernamento e la manutenzione del parco infrastrutture
esistente, una tematica molto più complessa sotto il profilo tecnico, molto più
difficile da valutare sotto quello economico e finanziario e molto meno attraente
ai fini della costruzione e della gestione del consenso.
Inoltre, il
completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutturale hanno dovuto
misurarsi con le nuove esigenze in campo ambientale e le pertinenti normative.
Ciò ha cambiato il già complesso del ciclo di progetto, le sue regole di
governance e il modello normativo di riferimento.
Circa
venticinque anni fa, l’allora direttore del Congressional budget office
(Ufficio parlamentare di bilancio) degli Stati Uniti, Alice Rivkin,
aveva sottolineato che in un’economia avanzata e matura le spese per
infrastrutture fisiche differiscono in misura significativa da quelle che
caratterizzano Paesi o regioni in via di sviluppo: nei Paesi maturi riguardano
non tanto la creazione di nuove infrastrutture fisiche, quanto l’ammodernamento
e la manutenzione tanto ordinaria quanto straordinaria di quelle esistenti. Ciò
comporta non pochi problemi sia sotto il problema dell’analisi economica che
sotto quello politico-amministrativo.
A mio avviso
è sul secondo aspetto che poco ci si sofferma, nonostante sia al cuore del
declino del parco infrastrutturale italiano. Nonché di tragedie come quella
sulla A14 di questi giorni. I ritardi nel miglioramento delle infrastrutture
(anche quando i finanziamenti sono disponibili) sono in gran misura dovuti a
una normativa complessa (difficile comprendere perché per le ferrovie in
concessione non siano obbligatori sistemi di controllo tecnologicamente moderni
in uso sul resto della rete nazionale), ma soprattutto aggrovigliata,
parcellizzata e dove lo Stato non esercita quella funzione di supremazia (nel
risolvere dispute locali) che ha sempre avuto sin dai tempi dello Statuto
Albertino e che ha mantenuto anche nell’infelice riforma del titolo V della
Costituzione effettuata nel 2001.
Viene
affermato che la riforma della Costituzione proposta dal governo Renzi, e
bocciato dal referendum del 4 dicembre, modificando il Titolo V della
Costituzione ribadirebbe la supremazia dello Stato. In effetti, il principio di
supremazia non è stato affievolito nella riforma del 2001. Semplicemente non è
stato applicato principalmente per evitare di mettersi in dibattiti (spesso a
carattere locale) che fanno perdere consensi quale che sia la parte per cui ci
si schiera.
Per
un’analisi completa e dettagliata di queste problematiche rinvio al saggio (di
450 pagine a stampa fitta) di Ercole Incalza Programmare e/è
pianificare. Una lunga storia critica (Marsilio, 2016), in cui si sviscera
come e perché nell’attuale contesto Italia sia molto difficile programmare,
pianificare opere pubbliche (con un accento speciale al settore dei trasporti):
il nodo è “l’incapacità di governo economico sull’evoluzione dell’offerta di
infrastrutture e dei servizi del Paese”.
11/03/2017
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