Come rifare l’Unione europea
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L'analisi di
Giuseppe Pennisi presentata al convegno "Trattati di Roma: la nostra idea
di Europa. Rinegoziare su tutto" organizzato da Direzione Italia, il
movimento politico fondato da Raffaele Fitto
In questi
giorni, si celebrano i sessanta anni dalla firma dei Trattati di Roma e
dell’inizio di un percorso che sino a tempi recenti ha assicurato non solo pace
ma anche prosperità al continente vecchio.
Quando
vennero firmati i Trattati avevo quindici anni e con i miei compagni di scuola
vivevo un’epoca di grandi speranza: dei Trattati vedevamo principalmente la
dimensione liberale e liberista, ossia l’apertura dei mercati e le libertà di
circolazione di persone e cose e di stabilità delle aziende. Non immaginavamo
che il piccolo nucleo di sei Stati dell’Europa in fase di integrazione sarebbe
cresciuto sino a diventarne ventisette (ventotto se si conta anche la Gran
Bretagna ora in via di uscita). Vedevamo commerci ed economie più liberi
affinché ciascuno di noi fosse più libero. Sognavamo l’Europa federale di
Colorni, Hirschmann. Rossi e Spinelli del Manifesto di Ventotene. Soltanto
un anno più tardi (nel luglio 1958) con il varo della politica agricola comune,
l’Europa a sei perse parte dell’afflato liberale e diventò sempre più
interventista e sempre più complessa; nel primo libro che scrissi (L’Europa
ed il sud del mondo, Il Mulino, 1968) lo sottolineavo con l’auspicio che si
sarebbe presto tornati a concezione liberal-liberista dell’integrazione
europea. Invece in modo quasi strisciante, ha prevalso un approccio dirigista,
anche a ragione del “metodo Monnet” di passi “irreversibili” verso un’Europa
sempre più integrata; di questi passi il principale, e più controverso, è stata
l’unione monetaria che ora lega i diciannove Stati dell’Unione europea.
Non è certo
questa la sede per narrare la strada fatta, i successi ottenuti, le difficoltà
e le problematiche dell’Unione. Alla vigilia delle celebrazioni, però, occorre
chiedersi se l’aver abbandonato l’afflato liberal-liberista del 1957 di un
“federalismo competitivo”(Angelo Maria Petroni, Roberto Caporale, Il
federalismo possibile: un progetto liberale per l’Europa, Rubettino, 2000)
non abbia avuto costi molto elevati e non sia stata una delle determinanti del
rallentamento della crescita che ha caratterizzato in varia misura l’Unione e
la sua economia negli ultimi dieci anni.
In un
processo di “federalismo competitivo”, i vari Stati che lo compongono,
competono tra loro (nel senso etimologico di cum petere, cercare insieme) per
trovare le soluzioni migliori per un’Unione, una confederazione o una
federazione più moderna e più giusta. Tra i molti che lo avevano invocato,
occorre ricordare, Frank Vibert, della London School of Economics
(nonché allora presidente dell’European Policy Forum) e il suo Europe Simple
Europe Strong: The Future of European Governance (Polity, 2001), un libro
lungimirante, che purtroppo non hai mai trovato un editore pronto a farlo
tradurre in italiano e distribuire nel nostro Paese. Il libro preconizza
un’Unione che secondo l’ultimo libro di Vibert (The Rise of Unelected
Democracy and the New Separation of Powers Cambridge University Press 2007)
aspira a forme di democrazia non elettiva.
La
direttrice per il percorso da seguire dopo le celebrazioni di rito è stata già
segnata nel Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Unione, riuniti a
Bruxelles il 9 e 10 marzo. In quell’occasione, hanno tirato fuori dal cappello
un’idea già anticipata dalla riunione dei “grandi” (Germania, Francia, Italia e
Spagna, ora che la Gran Bretagna è sulla via uscita) tenuta a Versailles pochi
giorni prima. L’idea è quella “dell’Europa a più velocità”. Non è una cattiva
idea ma non brilla neanche per originalità e innovazione. Dubito che sia quella
che potrà rilanciare il progetto europeo. Dato che da alcuni decenni l’Unione
marcia a più velocità; le varie “cooperazioni rafforzate” (dall’accordo di
Schengen al Trattato di Maastricht) altro non sono che intese per viaggiare a
passi differenti verso l’obiettivo comune dell’integrazione europea.
È una
proposta realistica, ma è già in atto. E non semplice da coniugare con le
pulsioni federalistiche che si pensava avrebbe dovuto essere il tema conduttore
delle celebrazioni del 25 marzo e avrebbero dovuto anche fornire il contesto
per risolvere temi e problemi scottanti sul tappeto (migrazioni,
diseguaglianze, prosecuzione o meno di politiche monetarie non convenzionali).
Neanche con quelli a medio e lungo termine (del ruolo dell’Unione in un
mondo globalizzato in cui il suo partner tradizionale, gli Stati Uniti, che
molto si è speso nei primi anni del suo cammino, sembra allontanarsi da un
continente che mostra segni di senescenza).
Sono anni in
cui l’Unione è una cornice di regole di base all’interno della quale si creano
gruppi più piccoli con regole specifiche e più dettagliate; tali gruppi
dovrebbero essere più omogenei e dotati di più chiare finalità puntuali. Delle
varie “cooperazioni rafforzate” la più importante, e la più complessa, è
l’unione monetaria, una “cooperazione rafforzata” in cui forse si è fatto un
passo più lungo della gamba e ora si è alle prese con nodi di difficile
soluzione. È anche quella più problematica perché è nata nell’urgenza delle
conseguenze del crollo del Muro di Berlino e della preoccupazione,
principalmente francese, della tenuta dell’accordo del Louvre franco-tedesco
sui cambi (una cooperazione “rafforzatissima” all’interno della “cooperazione
rafforzata” unione monetaria). È stata quindi istituita prima che ce ne
fossero i presupposti per andare verso un’area valutaria ottimale.
Sono
tensioni non solo contingenti e di breve periodo (come quelle sul mantenimento
o meno del Quantitave Easing a fronte di un ritorno dell’inflazione e
della possibile ripresa della crescita) ma anche strutturali. Ad esempio, nello
studio quantitativo (di cui non si parla in Italia anche perché
disponibile unicamente in versione preliminare su supporto magnetico) di Markus
Ahlborn e Marcus Wortmann, della Georg-August Unversitaat di Gottigen Output
Gap Similarities in Europe: detecting country groups (Somiglianze
nell’output gap in Europa: individuare gruppi di Paesi analoghi), la
sincronizzazione dei cicli diventa il metro, uguale per tutti, per stimare
l’output gap (il differenziale tra Pil potenziale ed effettivo). Applicando la
metodologia statistica a 27 Paesi (i 28 dell’Unione meno Cipro, Malta e Lussemburgo,
più Norvegia e Svizzera) e utilizzando i dati trimestrali del Pil dal
primo trimestre 1996 al quarto trimestre 2015, lo studio identifica un gruppo
centrale (core) di ciclo economico europeo, ossia di Paesi che si muovono alla
stesso passo e che quindi costituiscono un’area omogenea.
Questi sono
i Paesi strettamente collegati alla Germania come Danimarca, Svezia, Svizzera e
il Regno Unito, il Benelux, nonché la Repubblica Ceca, la Polonia e l’Ungheria
(tre Stati che secondo l’analisi sarebbero pronti ad adottare l’euro). Il core
avrebbe alcuni dei presupposti di un’area valutaria ottimale e potrebbe
costituire un’unione monetaria, anche se alcuni dei suoi Stati non fanno parte
dell’Unione. Secondo questa analisi, nel periodo 1996-2007, l’Italia era prossima
al core, ma se ne è distaccata in misura significativa successivamente. Se non
effettuerà riforme economiche drastiche, se ne distanzierà ancora di più.
Aumentando le proprie difficoltà in materia sia di debito e finanza pubblica
sia nel sociale (occupazione, diseguaglianze), proprio in una fase in cui
l’unione monetaria è diventata il parafulmine di tutto il malcontento nei
confronti dell’Unione, delle istituzioni e delle sue regole generali di base.
Per questa
ragione avrei trovato più sensato tirare fuori dal cappello del Consiglio
europeo idee su come raddrizzare la più importante delle “cooperazioni
rafforzate”, l’unione monetaria, senza che nessuno dei partecipanti si faccia
troppo male.
Oppure
andare verso un disegno più vasto. Quale quello delineato da Roberto
Caporale nel suo recente libro Exeunt: la Brexit e la fine dell’Europa (Rubettino,
2017): un’Europa in cui la sovrapposizione di aree di azione collettiva
realizza un impianto adattivo con istituzioni centrali forti nel loro ruolo
primario di assicurare il rispetto dei principi e delle norme che realizzano
uno spazio di mercato libero e aperto.
Per
raddrizzare l’unione monetaria, è utile ricordare che nell’ambito dell’Unione,
sta operando un gruppo di lavoro sulla revisione del Fiscal Compact. Secondo le
voci che corrono nei principali ministeri delle capitali di maggior peso, e
ovviamente, a Bruxelles, l’idea di base sarebbe quella di rendere il Fiscal
compact più flessibile, ma anche d’incorporarlo nel Trattato di Maastricht.
È un’ottima occasione
sia per rivedere i parametri di Maastricht (non perché definiti stupidi da Romano
Prodi, ma perché non hanno retto alla prova di circa un quarto di secolo di
esperienza) sia per riformare la basi stesse dell’unione monetaria. Non è detto
che l’unione monetaria sia, nella forma attuale, “irreversibile”, come ripete
il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi. Nei secoli ci
sono state unioni monetare che si sono dissolte quando le divergenze
dell’andamento delle economie reali dei suoi Stati membri ne hanno fatto
crollare i tessuti connettivi di base. Dopo la Seconda guerra mondiale, una
quindicina di unioni monetarie si sono dissolte, di queste una si è
ricostituita (dopo trent’anni dalla dissoluzione) e una sola (quella
dell’Unione Europea) è stata creata. Il nodo centrale non è se l’unione
monetaria europea sarà “irreversibile” ed “eterna” o meno (nulla di umano lo è)
ma come farla reggere o in caso di scioglimento evitare traumi troppo forti,
ossia di farsi inutilmente male.
A mio avviso,
occorre mettere in atto un sistema monetario simile a quello di Bretton Woods.
Si può fare senza tornare alle vecchie monete nazionale: su ciascun euro è
indicata la banca centrale nazionale che lo ha emesso e, quindi, sotto il
profilo tecnico non è difficile tornare a un accordo sui cambi (quale quello
colloquialmente chiamato Sme) utilizzando come “parità centrali” quelle
adottate nell’istituzione dell’euro. Perché ciò non sia l’anticamera della
dissoluzione dell’euro, però, sono necessari altri due elementi: trasformare la
Banca centrale europea in un’istituzione simile al Fondo monetario
internazionale che monitori non questo o quel parametro, ma le politiche degli
Stati membri e intervenga in modo fattivo, e finanziario, per shock di breve
periodo e un’espansione del ruolo della Banca europea degli investimenti nel
suo supporto agli Stati meno sviluppati.
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L'analisi di
Giuseppe Pennisi presentata al convegno "Trattati di Roma: la nostra idea
di Europa. Rinegoziare su tutto" organizzato da Direzione Italia, il
movimento politico fondato da Raffaele Fitto
In questi
giorni, si celebrano i sessanta anni dalla firma dei Trattati di Roma e
dell’inizio di un percorso che sino a tempi recenti ha assicurato non solo pace
ma anche prosperità al continente vecchio.
Quando
vennero firmati i Trattati avevo quindici anni e con i miei compagni di scuola
vivevo un’epoca di grandi speranza: dei Trattati vedevamo principalmente la
dimensione liberale e liberista, ossia l’apertura dei mercati e le libertà di
circolazione di persone e cose e di stabilità delle aziende. Non immaginavamo
che il piccolo nucleo di sei Stati dell’Europa in fase di integrazione sarebbe
cresciuto sino a diventarne ventisette (ventotto se si conta anche la Gran
Bretagna ora in via di uscita). Vedevamo commerci ed economie più liberi
affinché ciascuno di noi fosse più libero. Sognavamo l’Europa federale di
Colorni, Hirschmann. Rossi e Spinelli del Manifesto di Ventotene. Soltanto
un anno più tardi (nel luglio 1958) con il varo della politica agricola comune,
l’Europa a sei perse parte dell’afflato liberale e diventò sempre più
interventista e sempre più complessa; nel primo libro che scrissi (L’Europa
ed il sud del mondo, Il Mulino, 1968) lo sottolineavo con l’auspicio che si
sarebbe presto tornati a concezione liberal-liberista dell’integrazione
europea. Invece in modo quasi strisciante, ha prevalso un approccio dirigista,
anche a ragione del “metodo Monnet” di passi “irreversibili” verso un’Europa
sempre più integrata; di questi passi il principale, e più controverso, è stata
l’unione monetaria che ora lega i diciannove Stati dell’Unione europea.
Non è certo
questa la sede per narrare la strada fatta, i successi ottenuti, le difficoltà
e le problematiche dell’Unione. Alla vigilia delle celebrazioni, però, occorre
chiedersi se l’aver abbandonato l’afflato liberal-liberista del 1957 di un
“federalismo competitivo”(Angelo Maria Petroni, Roberto Caporale, Il
federalismo possibile: un progetto liberale per l’Europa, Rubettino, 2000)
non abbia avuto costi molto elevati e non sia stata una delle determinanti del
rallentamento della crescita che ha caratterizzato in varia misura l’Unione e
la sua economia negli ultimi dieci anni.
In un
processo di “federalismo competitivo”, i vari Stati che lo compongono,
competono tra loro (nel senso etimologico di cum petere, cercare insieme) per
trovare le soluzioni migliori per un’Unione, una confederazione o una
federazione più moderna e più giusta. Tra i molti che lo avevano invocato,
occorre ricordare, Frank Vibert, della London School of Economics
(nonché allora presidente dell’European Policy Forum) e il suo Europe Simple
Europe Strong: The Future of European Governance (Polity, 2001), un libro
lungimirante, che purtroppo non hai mai trovato un editore pronto a farlo
tradurre in italiano e distribuire nel nostro Paese. Il libro preconizza
un’Unione che secondo l’ultimo libro di Vibert (The Rise of Unelected
Democracy and the New Separation of Powers Cambridge University Press 2007)
aspira a forme di democrazia non elettiva.
La
direttrice per il percorso da seguire dopo le celebrazioni di rito è stata già
segnata nel Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Unione, riuniti a
Bruxelles il 9 e 10 marzo. In quell’occasione, hanno tirato fuori dal cappello
un’idea già anticipata dalla riunione dei “grandi” (Germania, Francia, Italia e
Spagna, ora che la Gran Bretagna è sulla via uscita) tenuta a Versailles pochi
giorni prima. L’idea è quella “dell’Europa a più velocità”. Non è una cattiva
idea ma non brilla neanche per originalità e innovazione. Dubito che sia quella
che potrà rilanciare il progetto europeo. Dato che da alcuni decenni l’Unione
marcia a più velocità; le varie “cooperazioni rafforzate” (dall’accordo di
Schengen al Trattato di Maastricht) altro non sono che intese per viaggiare a
passi differenti verso l’obiettivo comune dell’integrazione europea.
È una
proposta realistica, ma è già in atto. E non semplice da coniugare con le
pulsioni federalistiche che si pensava avrebbe dovuto essere il tema conduttore
delle celebrazioni del 25 marzo e avrebbero dovuto anche fornire il contesto
per risolvere temi e problemi scottanti sul tappeto (migrazioni,
diseguaglianze, prosecuzione o meno di politiche monetarie non convenzionali).
Neanche con quelli a medio e lungo termine (del ruolo dell’Unione in un
mondo globalizzato in cui il suo partner tradizionale, gli Stati Uniti, che
molto si è speso nei primi anni del suo cammino, sembra allontanarsi da un
continente che mostra segni di senescenza).
Sono anni in
cui l’Unione è una cornice di regole di base all’interno della quale si creano
gruppi più piccoli con regole specifiche e più dettagliate; tali gruppi
dovrebbero essere più omogenei e dotati di più chiare finalità puntuali. Delle
varie “cooperazioni rafforzate” la più importante, e la più complessa, è
l’unione monetaria, una “cooperazione rafforzata” in cui forse si è fatto un
passo più lungo della gamba e ora si è alle prese con nodi di difficile
soluzione. È anche quella più problematica perché è nata nell’urgenza delle
conseguenze del crollo del Muro di Berlino e della preoccupazione,
principalmente francese, della tenuta dell’accordo del Louvre franco-tedesco
sui cambi (una cooperazione “rafforzatissima” all’interno della “cooperazione
rafforzata” unione monetaria). È stata quindi istituita prima che ce ne
fossero i presupposti per andare verso un’area valutaria ottimale.
Sono
tensioni non solo contingenti e di breve periodo (come quelle sul mantenimento
o meno del Quantitave Easing a fronte di un ritorno dell’inflazione e
della possibile ripresa della crescita) ma anche strutturali. Ad esempio, nello
studio quantitativo (di cui non si parla in Italia anche perché
disponibile unicamente in versione preliminare su supporto magnetico) di Markus
Ahlborn e Marcus Wortmann, della Georg-August Unversitaat di Gottigen Output
Gap Similarities in Europe: detecting country groups (Somiglianze
nell’output gap in Europa: individuare gruppi di Paesi analoghi), la
sincronizzazione dei cicli diventa il metro, uguale per tutti, per stimare
l’output gap (il differenziale tra Pil potenziale ed effettivo). Applicando la
metodologia statistica a 27 Paesi (i 28 dell’Unione meno Cipro, Malta e Lussemburgo,
più Norvegia e Svizzera) e utilizzando i dati trimestrali del Pil dal
primo trimestre 1996 al quarto trimestre 2015, lo studio identifica un gruppo
centrale (core) di ciclo economico europeo, ossia di Paesi che si muovono alla
stesso passo e che quindi costituiscono un’area omogenea.
Questi sono
i Paesi strettamente collegati alla Germania come Danimarca, Svezia, Svizzera e
il Regno Unito, il Benelux, nonché la Repubblica Ceca, la Polonia e l’Ungheria
(tre Stati che secondo l’analisi sarebbero pronti ad adottare l’euro). Il core
avrebbe alcuni dei presupposti di un’area valutaria ottimale e potrebbe
costituire un’unione monetaria, anche se alcuni dei suoi Stati non fanno parte
dell’Unione. Secondo questa analisi, nel periodo 1996-2007, l’Italia era prossima
al core, ma se ne è distaccata in misura significativa successivamente. Se non
effettuerà riforme economiche drastiche, se ne distanzierà ancora di più.
Aumentando le proprie difficoltà in materia sia di debito e finanza pubblica
sia nel sociale (occupazione, diseguaglianze), proprio in una fase in cui
l’unione monetaria è diventata il parafulmine di tutto il malcontento nei
confronti dell’Unione, delle istituzioni e delle sue regole generali di base.
Per questa
ragione avrei trovato più sensato tirare fuori dal cappello del Consiglio
europeo idee su come raddrizzare la più importante delle “cooperazioni
rafforzate”, l’unione monetaria, senza che nessuno dei partecipanti si faccia
troppo male.
Oppure
andare verso un disegno più vasto. Quale quello delineato da Roberto
Caporale nel suo recente libro Exeunt: la Brexit e la fine dell’Europa (Rubettino,
2017): un’Europa in cui la sovrapposizione di aree di azione collettiva
realizza un impianto adattivo con istituzioni centrali forti nel loro ruolo
primario di assicurare il rispetto dei principi e delle norme che realizzano
uno spazio di mercato libero e aperto.
Per
raddrizzare l’unione monetaria, è utile ricordare che nell’ambito dell’Unione,
sta operando un gruppo di lavoro sulla revisione del Fiscal Compact. Secondo le
voci che corrono nei principali ministeri delle capitali di maggior peso, e
ovviamente, a Bruxelles, l’idea di base sarebbe quella di rendere il Fiscal
compact più flessibile, ma anche d’incorporarlo nel Trattato di Maastricht.
È un’ottima occasione
sia per rivedere i parametri di Maastricht (non perché definiti stupidi da Romano
Prodi, ma perché non hanno retto alla prova di circa un quarto di secolo di
esperienza) sia per riformare la basi stesse dell’unione monetaria. Non è detto
che l’unione monetaria sia, nella forma attuale, “irreversibile”, come ripete
il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi. Nei secoli ci
sono state unioni monetare che si sono dissolte quando le divergenze
dell’andamento delle economie reali dei suoi Stati membri ne hanno fatto
crollare i tessuti connettivi di base. Dopo la Seconda guerra mondiale, una
quindicina di unioni monetarie si sono dissolte, di queste una si è
ricostituita (dopo trent’anni dalla dissoluzione) e una sola (quella
dell’Unione Europea) è stata creata. Il nodo centrale non è se l’unione
monetaria europea sarà “irreversibile” ed “eterna” o meno (nulla di umano lo è)
ma come farla reggere o in caso di scioglimento evitare traumi troppo forti,
ossia di farsi inutilmente male.
A mio avviso,
occorre mettere in atto un sistema monetario simile a quello di Bretton Woods.
Si può fare senza tornare alle vecchie monete nazionale: su ciascun euro è
indicata la banca centrale nazionale che lo ha emesso e, quindi, sotto il
profilo tecnico non è difficile tornare a un accordo sui cambi (quale quello
colloquialmente chiamato Sme) utilizzando come “parità centrali” quelle
adottate nell’istituzione dell’euro. Perché ciò non sia l’anticamera della
dissoluzione dell’euro, però, sono necessari altri due elementi: trasformare la
Banca centrale europea in un’istituzione simile al Fondo monetario
internazionale che monitori non questo o quel parametro, ma le politiche degli
Stati membri e intervenga in modo fattivo, e finanziario, per shock di breve
periodo e un’espansione del ruolo della Banca europea degli investimenti nel
suo supporto agli Stati meno sviluppati.
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