Senza la sveglia delle grandi opere il Pil resterà in letargo
31 - 08 - 2015Giuseppe Pennisi
La settimana scorsa è stata
caratterizzata dal timore che la frenata della Cina avrebbe avuto effetti
deleteri sull’Europa. In effetti, il rallentamento è brusco: da una crescita
del 10% l’anno ad una del 7% (molto più verosimilmente del 5% poiché i dati
della contabilità nazionale cinese vanno presi con le molle).
Occorre, però, metterla in un
contesto: il Pil cinese è la metà di quello dell’Unione Europea ed il Pil
pro-capite l’ottantaseiesimo delle classifiche delle Nazioni Unite (quindi, tra
i Paesi a basso reddito). La frenata è la prova di forti tensioni politiche,
economiche e sociali all’interno del Celeste Impero, avrà implicazioni di non poco
momento sul bacino del Pacifico, e sui Paesi esportatori di ferro, rame e
petrolio. In Europa, colpirà chi vende alla Cina macchine utensili (Germania),
lusso (Francia), vini pregiati (Francia).
Evitiamo, però, di cadere nella
stessa trappola in cui siamo finiti a causa della Grecia: farsi distrarre dai
problemi più gravi dell’Europa, in primo luogo quello della crescita e
dell’occupazione. Nel fine settimana scorso, all’ultima tornata delle stime del
“gruppo del consensus” (venti istituti di analisi previsionale, tutti privati,
nessuno italiano) ha dipinto un quadro preoccupante: un tasso di crescita che
nel 2015 arriverà al massimo all1,4% per l’eurozona (0,6% per l’Italia, come
quello stimato per la Grecia); un tasso di disoccupazione dell’11% per l’eurozona
(12,7% per l’Italia).
Il varo a fine settembre della Legge
di Stabilità dovrebbe essere l’occasione per focalizzare su questi temi.
Soprattutto per gli investimenti in infrastrutture che creano, nel breve
periodo, occupazione tramite l’utilizzazione di capacità produttiva non
impiegata e, soprattutto, nel lungo periodo incidono sulla produttività.
Inutile gingillarsi, come ha fatto
recentemente un quotidiano, con titoli a sei colonne “Dal Piano Juncker due
miliardi all’Italia”. Di miliardi, e di procedure più efficaci, ce ne vogliono
molto di più. In un Paese industrializzato ad economia di mercato, la spesa per
assicurare manutenzione e graduale ammodernamento del parco infrastrutture
dovrebbe essere pari al 3,5% del Pil, livello toccato dall’Italia alla fine
degli anni Ottanta. Tra il 1992 ed il 1997 (secondo analisi della Banca
d’Italia) è giunto a circa l’1,8% a ragione delle politiche di riduzione della
spesa per raggiungere gli obiettivi del Trattato di Maastricht.
Dall’inizio della crisi finanziaria
del 2008 ha subito una contrazione ulteriore del 39%. Se le strade e le
autostrade sono ingolfate, se i treni ritardano, se siamo ai primordi della
banda larga, tutto ciò incide negativamente sulla produttività.
Non siamo i soli in Europa: in
Germania un terzo dei ponti ferroviari ha più di cento anni (sono stati
costruiti per spostare eserciti nella prima guerra mondiale), negli Stati Uniti
un ponte ha in media 42 anni; eppure negli stessi Stati Uniti si stima che ogni
anni 100 miliardi di dollari sono sprecati in perdite di tempo a ragione di
ingorghi stradali, aeroportuali e simili. Il B20 (il braccio operativo del G20)
stima nei venti Paesi del gruppo occorrono spese tra 15 ed i 20 trilioni di
euro per ammodernare le infrastrutture.
A fronte di queste cifre
impressionanti, pare che al Ministero delle Infrastrutture nuove
riorganizzazioni e nuove procedure stiano paralizzando la già esistente “calma
piatta”; con il risultato che i pochi spiccioli di cui si dispone non vengono
spesi. In questo quadro di “distrazione” da uno dei problemi centrali del
Paese, la Scuola Nazionale di Amministrazione (SNA) ha sospeso ormai da circa
otto anni i corsi sull’allestimento e valutazione delle infrastrutture.
Il letargo continua e si aggrava.
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