Lo sapete perché l’Eurozona non cresce come il resto del mondo?
03 - 08 - 2015Giuseppe
Pennisi
Se l’unione monetaria è in controtendenza rispetto al
resto del mondo non è il caso di chiedersi se i meccanismi del Trattato di
Maastricht, e dei successivi accordi intergovernativi come il Fiscal Compact,
non vadano, alla prova dei fatti, profondamente rivisitati?
Al dibattito sul futuro dell’Eurozona, e della stessa
Unione Europea (molto intenso in questi giorni) manca un tassello: il perché
l’UE va in controtendenza rispetto al resto del mondo non solo e non tanto in
termini di crescita (da 15 anni l’Europa ristagna in un’economia internazionale
che cresce) ma soprattutto in termini di divergenza incrementale tra i Paesi e
le sub-aree economiche che ne fanno parte.
L’ultimo rapporto mensile della Banca centrale europea
(Bce), diramato giovedì 30 luglio, è a riguardo eloquente: le differenze tra
Pil pro-capite tra Paese e sub-aree calcolate in euro sono aumentate da quando
nel 1999 è stata introdotta la moneta unica. La Spagna ed il Portogallo,
considerati “a basso reddito” alla nascita dell’euro, lo sono ancora di più
rispetto al reddito medio dell’Eurozona. Note a tutti le vicende della Grecia.
Meno noto – e il Governo dovrebbe rifletterci – che l’Italia classificata nel
1999 tra i Paesi ‘a alto reddito medio’ (rispetto alla media UE) è ora nella
classe di quelli “a basso reddito medio”, una vera svolta di cui non credo si
debba essere orgogliosi.
L’integrazione economica internazionale, ed a maggior
ragione quella regionale come l’UE e l’Eurozona, è una leva non solo per uscire
dalla povertà assoluta (la Banca mondiale ed il Fmi affermano che negli ultimi
20 anni ha tirato fuori dalla miseria due milioni di persone, principalmente in
Asia ed in America Latina) ma anche per ridurre le differenze all’interno dei
singoli Paesi. Questa è la conclusione di un’analisi empirica su 60 Paesi (per
i quali esistono dati dettagliati sulla distribuzione dei redditi) condotta da
quattro economisti, Lei Zhou (MacroSys, LLC), Basudeb Biswas, (Utah State
University), Tyler Bowles (Utah State University) e Peter J. Saunders (Central
Washington University) e pubblicata alcuni anni fa sul Global Economy Journal.
Lo studio rappresenta una
pietra miliare su un tema che ha diviso economisti per decenni. I quattro
autori ricordano, in premessa che, sotto il profilo teorico, si può sostenere
con argomentazioni parimenti cogenti che la globalizzazione aumenta sia la
convergenza sia la divergenza tanto tra Paesi quanto all’interno dei singoli
Paesi. Due Premi Nobel dell’Economia,Gunnard Myrdal e Paul Krugman hanno
sposato la seconda tesi sulla base di teoremi ineccepibili sotto il profilo
della logica matematica.
Studi precedenti, quali quelli effettuati dalle
Nazioni Unite nell’ambito del rapporto annuale sullo sviluppo umano e quelli di
A.T. Kerney tra il 2000 ed il 2004, venivano criticati in quanto non
sufficientemente “robusti” sotto il profilo tecnico-statistico: gli indici di
globalizzazione e di distribuzione del reddito erano piuttosto grezzi, il
campione di Paesi limitato, l’arco di tempo contenuto.
Il lavoro di Zhou, Biswas,
Bowles e Saunders ha il pregio di coprire Paesi, sia ad alto reddito sia
emergenti sia poveri, per un arco di 50 anni e di utilizzare sia un “indice di
globalizzazione” molto ricco sia un “indice di distribuzione del reddito” (il
“coefficiente di Gini”, dal nome dello statistico italiano Corrado Gini)
applicato in tutto il mondo.
Il saggio è stato scritto per lettori provetti in
statistica applicata. Scorrendo le tabelle è interessante vedere come man mano
dagli Anni Cinquanta al 1999 l’indice di globalizzazione applicato all’Italia
aumenta, così diminuiscono le differenze di reddito tra le varie fasce di
famiglie. Lo stesso fenomeno si osserva per tutti gli altri Paesi censiti,
dall’Argentina al Pakistan. Ciò vuol dire che le tendenze protezionistiche in
atto possono fare danno in materia non soltanto di crescita ma anche di equità.
L’analisi riguarda differenze di reddito tra famiglie
non tra territori. Uno studio dell’UE a 15 alla fine degli Anni Novanta
dimostrava che l’integrazione europea aveva sino ad allora trainato verso la
convergenza di maggior benessere tutte le aree in ritardo con l’eccezione del
nostro Sud e della Sicilia. Da allora la situazione è cambiata. La spiegazione
risiede nelle migrazioni dal Mezzogiorno e nei trasferimenti alle famiglie
sotto forma principalmente di pensioni e di rimesse da congiunti che lavorano
altrove. Quindi sarebbe un errore stare con le braccia conserte in attesa che
l’integrazione economica traini il Sud e la Sicilia.
Da queste analisi emerge un
dubbio a cui danno voce economisti giovani e molto differenti –
dall’australiano Steven Keen della University of Western Sidney al russo Vladimir
Popov, preside di economia aziendale alla Nuova Scuola Economica di Mosca: se
la globalizzazione conviene sotto il profilo della crescita e dell’equità,
perché accanirsi tanto nei confronti di uno dei suoi risultati (gli squilibri
finanziari mondiali, specialmente tra Usa e Asia) che più ha fatto da motore a
tirare mezzo miliardi persone fuori dalla povertà ed a ridurre le differenze
dei redditi?
Viene, però, anche un dubbio più profondo: se l’unione
monetaria è in controtendenza rispetto al resto del mondo non è il caso di
chiedersi se i meccanismi del Trattato di Maastricht, e dei successivi accordi
intergovernativi come il Fiscal Compact, non vadano, alla prova dei fatti,
profondamente rivisitati?
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