Il rallentamento a Pechino con impatto
(forse) limitato sull’economia europea
Nell’inquadratura finale de «La Cina è vicina», film di Marco
Bellocchio del 1967, uno dei protagonisti, Camillo, aizza una muta di cani e
gatti contro il fratello, l’ipertrasformista Vittorio, alle prese con il primo
comizio elettorale.
È un po’ quello sta accadendo alla Cina.oggi. Corteggiata
nell’ultimo quarto di secolo (dopo le più o meno veritiere quattro
modernizzazionie di Deng Xiaoping), in seguito alle mini-svalutazioni e
all’altalena alla Borsa di Shanghai, ora viene guardata con timore. Il New York
Times del 28 agosto ha scritto, tacitianamente e lapidariamente: «Da speranza è
diventata incertezza ». Non è, però, il caso di sguinzagliare cani e gatti con
la voglia matta di mordere e graffiare Pechino.
Andiamo agli aspetti macro-economici. Quando la Cina cresceva
oltre il 10% faceva da traino non solo al bacino asiatico, ma all’intera
economia mondiale, con particolare effetto sull’Africa e sull’America Latina
(in Europa incideva principalmente sulle macchine utensili e sul lusso). I dati
ufficiali affermano che nel 2015 l’aumento del Pil sarà del 7%, più
verosimilmente del 5%. Una brusca frenata. Da situare in un contesto, però, in
cui il Pil dell’Unione Europea è quasi il doppio di quello cinese e in termini
di Pil pro-capite il Celeste Impero è ottantaseiesimo su scala mondiale
(abbastanza in fondo alla classifica). In parallelo quasi con la riduzione
della crescita cinese, c’è stato un forte aumento (ben superiore alla
aspettative) di quella americana. Nel complesso, a livello mondiale, i
contraccolpi saranno meno acuti di quanto viene frettolosamente scritto in
questi giorni.
Ci saranno scossoni in alcune aree e settori. In Europa, come
si è detto, l’industria tedesca delle macchine utensili (come la Trumpf) e
quella italiana del lusso (nonché quella francese dei vini pregiati) devono
correre alla ricerca di nuovi mercati in condizioni di notevole incertezza
perché il mercato russo è alle prese con sanzioni (e con una flessione ancora
più forte di quella della Cina). Più complessa la situazione di quei settori in
cui la Cina ha operato (spesso tramite joint venture con aziende europee o
americane di lunga esperienza) per l’estrazione o la raffinazione di materie
prime. È il caso della BHP Billitton che opera da anni con partner cinesi nello
sfruttamento di ferro in Australia, rame in Cile e oli minerali nei Caraibi (
Trinidad). Si trova, quasi da un giorno all’altro, senza il maggior cliente e
(quasi) senza il socio di riferimento. Ci sono numerosi casi analoghi: mega
imprese come la brasiliana Vale e la giapponese Simitomo in Giappone (che
stanno svendendo miniere acquistate in vista degli affari con una sempre più
prospera). Manca ancora una mappatura precisa. La Cina è, comunque, (quasi) più
lontana.
Giuseppe Pennisi
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