Per Maastricht questo sarà il più complicato dei tanti «tagliandi»
GIUSEPPE PENNISI
A22 anni dalla sua firma ed a tre lustri della entrata in vigore dell’unione monetaria, il Trattato di Maastricht ha fatto, usando il gergo automobilistico, numerosi 'tagliandi', ossia delle verifiche per vedere se funzionasse bene o si dovesse fare qualche operazione di manutenzione (come cambiare la frizione o la cinghia di trasmissione).
Il 'tagliando' più complicato fu il primo, quando nel 2003 Francia e Germania superarono il 'fatidico' «tetto» del 3% del Pil all’indebitamento netto delle pubbliche amministrazione. Quel tagliando portò al Protocollo interpretativo del 2005 per 'ammorbidire' in vario modo il «tetto». Da quando è iniziata nel 2008 la crisi finanziaria, da un lato molti Governi della zona euro sono intervenuti a sostegno delle loro banche, dall’altro la Bce ha adottato politiche monetarie anche con strumenti non convenzionali. Da allora, c’è stato un 'tagliando' dopo l’altro. I principali sono il Fiscal Compact, un’interpretazione opposta a quella del Protocollo del 2005, e la creazione di nuove istituzioni di regolazione.
L’unione bancaria è il 'tagliando' più difficile. Da un lato, è arduo sostenere che sia in linea con il Trattato di Maastricht e che possa essere adottata senza una ratifica parlamentare (ed un referendum negli Stati dove ciò è richiesto). Da un altro, i suoi scogli tecnici non sono indifferenti. Per questo motivo, alla fine delle lunghe notti di Bruxelles non sorge sempre il sole.
L’unione bancaria ha tre pilastri: un sistema di vigilanza uniforme incentrato sulla Bce, un metodo 'europeo' per i fallimenti di banche, una garanzia uniforme per i depositi in conto corrente. Sul primo pilastro si è giunti ad un accordo: la Bce ha varato un programma straordinario di assunzioni e sta costruendo una nuova torre. Il terzo punto è stato accantonato in attesa di un’intesa sul secondo. Ora l’osso duro è come trattare i fallimenti bancari e giungere ad un accordo prima di Natale. La bozza di compromesso preparata dalla Commissione Europea, (pur se 'secretata', circola nei Ministeri economici) consiste di ben 166 pagine a stampa fitta.
I nodi essenziali sono tre: a chi dare la responsabilità di decidere sulla procedura da adottare in caso di fallimenti bancari; se creare un fondo specifico (a tutela del risparmio); in che misura amministratori, manager e grandi investitori debbano essere chiamati a coprire parte delle perdite con i loro patrimoni personali.
Sul primo e sul terzo punto, buon senso vorrebbe dire affidare il compito ad un organo puramente tecnico come la Commissione, distante dalla politica e quindi dai Governi – nel Consiglio della Bce siedono governatori di banche centrali nazionali, soggetti, in molti Stati della zona euro, alle direttive del ministro del Tesoro pro-tempore – e considerare 'responsabili' amministratori, manager e grandi investitori prima di rivolgersi ai contribuenti. Più complicato è giungere ad un giudizio sulla necessità creazione o meno di un nuovo fondo oppure di una 'rete' di accordi tra banche centrali che non funzionò male ai tempi degli accordi monetari europei (1978-1999).
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