Job Act alla Renzi fra teoria e realtà
I piani di Renzi sul lavoro, le mosse di Letta, le contromosse di
Camusso e l'utile ultimo saggio di Giuliano Cazzola analizzati dall'economista
Giuseppe Pennisi
In principio era il Job Act di Matteo Renzi.
Poi, nel giro di pochi giorni, sono arrivati anche gli altri. Una scossa al
dibattito politico sul tema del mercato del lavoro che ha costretto molti
attori ad un’inaspettata accelerazione.
LETTA E CAMUSSO VERSUS RENZI
Prima fra tutti, quella del premier Enrico Letta
che starebbe orchestrando proposte alternative a quelle del sindaco di Firenze
e segretario del PD. Si muove anche la Cgil,
che sta lavorando ad un proprio Job Act con proposte per
il Governo. Susanna
Camusso ha annunciato che il primo passo, dopo l’Epifania, sarà
un faccia a faccia con Marianna
Madia e Filippo
Taddei, i due membri della segreteria che stanno lavorando a
tempo pieno sul dossier. Quanto annunciato (peraltro in modo ancora nebuloso)
da Matteo Renzi ricalca modelli di altri Paesi europei di “contratto unico” a
tempo indeterminato in cui però si acquistano gradualmente alcune tutele (quali
la “giusta causa” per il licenziamento individuale per determinanti non economiche).
LE PRIME REAZIONI ALLO JOB ACT ALLA RENZI
La frenata principale, però, è arrivata alla vigilia di Natale dal
ministro del Lavoro Enrico
Giovannini: “Noi abbiamo incentivato la trasformazione di
contratti a termine a contratti a tempo indeterminato. Il contratto unico non
può essere la sola strada ma può essere un aiuto”. Secondo Giovannini quella di
Renzi è una “proposta non nuova: riuscire a rendere più stabile il lavoro è una
delle esigenze che tutti abbiamo”. Inoltre, secondo l’ex presidente dell’Istat
“senza ripresa è difficile creare lavoro, ma cambiare semplicemente le regole
non è che crea necessariamente nuovo lavoro” e “pensare ad un ammortizzatore
generalizzato per tutti ha un costo molto elevato”. “Dobbiamo vederla la
proposta che farà Renzi e il suo team perché ce ne sono varie di versioni. Per
esempio – ha aggiunto – c’è chi dice facciamo questa eliminazione dell’articolo
18 solo per i primi 3 anni in cui l’impresa capirà se la persona è valida o
meno e poi lo trasforma in tempo indeterminato. Altri invece nel passato hanno
detto “no, l’impresa deve avere libertà di licenziamento in cambio di
un’indennità per tutta la vita lavorativa della persona. C’è un po’ di
confusione e speriamo che a gennaio queste proposte diventino molto più concrete”
ha concluso. In un’intervista al “Corriere della Sera”, Angelino Alfano,
Vice Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno, ha detto, nel merito
delle misure avanzate da Renzi, “Siamo pronti a discuterne ma senza una ripresa
più forte di questi mesi è difficile creare lavoro. C’è un po’ di confusione e
speriamo che a gennaio queste proposte diventino molto più concrete”.
L’UTILITA’ DI UN LIBRO
E’ in questo contesto che è utile leggere il saggio Giovani al Lavoro-Proposte
Semplici per un Problema Complesso di Giuliano Cazzola,
Angelo
Pasquarella e Alessandra
Servidori. Non è un libro “tecnico” di diritto del lavoro, di
sociologia del lavoro o di economia del lavoro. E’, al tempo stesso, un reportage sui
milioni di giovani che ricercano lavoro, di quelli che riescono a trovarlo (in
Italia od all’estero), di quelli che finiscono nel lago immenso dei NEET (che
non studiano e non lavoro, soprattutto perché scoraggiate), delle burocrazie
dell’amministrazione del lavoro. Come altri lavori di Cazzola (e dei suoi
associati) è un libro che si legge bene e da cui si impara molto. E’ – quel che
più conta – un libro denso di positivo ottimismo su un tema che potrebbe
indurre alla più nera disperazione. Non se ne deduce una proposta unica o
compiuta (come quelle su cui stanno lavorando varie parti politiche e sociali).
Non è neppure un baedeker su come aggirarsi meglio nei meandri delle norme e
delle amministrazioni. Eppure leggendo il saggio (e gli utili riquadri che
descrivono storie ed esperienze personali) si ricavano idee su cosa possono
fare la politica, le amministrazioni e soprattutto i diretti interessati in
un’Italia in cui la disoccupazione giovanile di massa pare diventata
strutturale.
DISOCCUPAZIONE IERI E OGGI
Una ventina di anni fa, ho trattato il tema della disoccupazione
giovanile in un saggio; allora, però, il fenomeno “strutturale” riguardava
essenzialmente il Sud e le Isole mentre nel Centro-Nord la leggera recessione
dell’ultimo scorcio degli Anni Ottanta aveva avuto ricadute “congiunturali” sui
giovani. Anche allora, però, le così dette “politiche attive del lavoro”
sembravano fare cilecca e, infatti, la proposta da quell’ormai datatissimo
lavoro riguardava le politiche industriali e l’amministrazione del lavoro (non
migliorata da allora, secondo gli autori del libro, ma aggravata
dall’accavallarsi di agenzie ed enti in cerca di una chiara missione).
TRE ASPETTI DA APPROFONDIRE
Nel dibattito attuale il libro di Giuliano Cazzola, Angelo Pasquarella
ed Alessandra
Servidori può essere utile nell’individuare provvedimenti
(soprattutto amministrativi) puntiformi tali da alleviare la situazione.
Ci sono, però, tre aspetti su cui occorre approfondire l’analisi:
- Il primo è che, come ricorda spesso Enrico Giovannini,
è che l’occupazione si crea con le politiche economiche (di crescita) non con
le politiche del lavoro. In Italia, Paese trasformatore con poche aree ad alta
produttività agricola e con servizi (specialmente nel finanziario-assicurativo)
arretrati piuttosto che maturi, l’occupazione dipende da oltre cento anni
dall’industria: dato che la produzione industriale si è contratta dal 22% al
15% del valore aggiunto, è questo il tassello su cui insistere.
- Il secondo è che occorre capire come migliorare la qualità delle
nostre risorse umane. I “miracoli economici” degli anni Cinquanta e
Sessanta stimolarono analisi a carattere strutturale sia da parte di economisti
di cultura occidentale liberale (come Kindleberger) sia da parte di economisti,
anche americani ed europei ma prevalentemente dell’Europa centrale ed
orientale, di estrazione e cultura marxista (come Carnoy e Jánossy). Pur
senza poter leggere l’uno il lavoro dell’altro, e partendo da schemi teorici
contrastanti, Kindleberger e Jánossy studiarono a fondo il “caso Italia” e
giungessero a conclusioni simili. Vale la pena riprendere oggi in mano il loro
lavoro: i nostri giovani sono sempre più sfavoriti nella competizione mondiale
a ragione di vetusti sistemi d’istruzione e formazione a tutti i livelli.
- Il terzo punto riguarda la tecnologia. Da un lato, negli
Novanta, Europa, Nord America e Australia-Nuova Zelanda hanno perso il
monopolio del progresso tecnologico che aveva consentito per due secoli tassi
di sviluppo molto più rapidi del resto del mondo (che restava in un’economia di
sussistenza). Da un altro lato, dagli Anni Settanta il progresso tecnologico
(anche la telematica) comporta grandi benefici individuali (ed anche aziendali)
ma basse esternalità ed interdipendenze per la collettività nel suo complesso
(se raffrontato con i mutamenti tecnologici precedenti). Ciò spiega il crollo
degli incrementi della produttività totale dei fattori nei Paesi avanzati (ed
il tracollo in Italia anche a ragione di quanto riassunto nel capoverso
precedente). Se non cambia il passo in questo campo, i Job Acts rischiano
di diventare mero “thinkering“ (giocherellare al margine senza
davvero incidere).
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