Fiscal
compact, ecco costi e benefici del referendum
Dopo il giornalista e scrittore Stefano Cingolani,
anche l'economista Giuseppe Pennisi commenta la proposta del professor Gustavo
Piga per un referendum sul Fiscal Compact lanciata su Formiche.net e che sarà
illustrata il 10 gennaio. Pennisi spiega che...
Su Formiche.net,
Gustavo Piga ha aperto
un dibattito sul Fiscal Compact proponendo un referendum.
Accantoniamo per il momento i complessi aspetti giuridici: il nostro
ordinamento prevede unicamente referendum abrogativi; si tratterebbe di
abrogare la legge costituzionale del 20 aprile 2012 sul pareggio di bilancio e
la legge ordinaria rinforzata di attuazione della norma costituzionale.
Accantoniamo pure le difficoltà organizzative pratiche della raccolta delle
firme; gli ultimi tentativi referendari non sono andati a buon fine e toccavano
temi molto più vicini, e soprattutto molto più eloquenti, per la grande
maggioranza degli italiani (di cui solo una sparuta minoranza sa cosa si
intende per Fiscal Compact).
DI COSA SI TRATTA
Cerchiamo, invece, di spiegare di cosa di tratta e di individuare i costi ed i benefici per la collettività. In primo luogo, il Fiscal Compact è un accordo intergovernativo che stabilisce tempi e tracciati specifici perché gli Stati firmatari raggiungano (e mantengano) il pareggio di bilancio e riducano il debito pubblico al 60% del Pil. Secondo l’ultimo Consiglio UE verrebbe rafforzato da “contratti” individuali di ciascun Stato (con tutti gli altri) sulle modalità puntuali. Già il Trattato di Maastricht prevedeva, oltre vent’anni fa, pareggio di bilancio ed un tetto del 60% al rapporto tra debito pubblico e Pil. Nella primavera 2005 è stato “interpretato” a larghe maglie, con un “protocollo intergovernativo” reso necessario dal fatto che due dei maggiori azionisti dell’Eurozona (Francia e Germania) avevano travalicato il tetto del 3% del Pil come limite all’indebitamento delle pubbliche amministrazioni. La crisi in atto dal 2007-2008 ha dilatato spesa e debito pubblico in quasi tutti gli Stati dell’Eurozona per salvataggi bancari e industriali, ammortizzatori sociali e tentativi di rilanciare l’economia. In questo contesto, il Fiscal Compact si presenta un tentativo di serrare i freni. Tutti gli Stati dell’Eurozona hanno aderito ma non tutti gli Stati dell’Unione Europea (UE).
Cerchiamo, invece, di spiegare di cosa di tratta e di individuare i costi ed i benefici per la collettività. In primo luogo, il Fiscal Compact è un accordo intergovernativo che stabilisce tempi e tracciati specifici perché gli Stati firmatari raggiungano (e mantengano) il pareggio di bilancio e riducano il debito pubblico al 60% del Pil. Secondo l’ultimo Consiglio UE verrebbe rafforzato da “contratti” individuali di ciascun Stato (con tutti gli altri) sulle modalità puntuali. Già il Trattato di Maastricht prevedeva, oltre vent’anni fa, pareggio di bilancio ed un tetto del 60% al rapporto tra debito pubblico e Pil. Nella primavera 2005 è stato “interpretato” a larghe maglie, con un “protocollo intergovernativo” reso necessario dal fatto che due dei maggiori azionisti dell’Eurozona (Francia e Germania) avevano travalicato il tetto del 3% del Pil come limite all’indebitamento delle pubbliche amministrazioni. La crisi in atto dal 2007-2008 ha dilatato spesa e debito pubblico in quasi tutti gli Stati dell’Eurozona per salvataggi bancari e industriali, ammortizzatori sociali e tentativi di rilanciare l’economia. In questo contesto, il Fiscal Compact si presenta un tentativo di serrare i freni. Tutti gli Stati dell’Eurozona hanno aderito ma non tutti gli Stati dell’Unione Europea (UE).
UNA SPIRALE PERICOLOSA
Se applicato alla lettera (e il “contratto” individuale dell’Italia specificherà in effetti la strategia di finanza pubblica per i prossimi vent’anni), il Fiscal Compact non potrà non avere implicazioni deflazionistiche e comportare, ogni anno, tagli alla spesa ed aumenti delle entrate per complessivi 50 miliardi di euro circa. Nel tentativo di ridurre lo stock di debito pubblico, si ridurrebbe ulteriormente il Pil aumentando quindi il rapporto tra stock e debito. È una spirale da film dell’orrore.
Se applicato alla lettera (e il “contratto” individuale dell’Italia specificherà in effetti la strategia di finanza pubblica per i prossimi vent’anni), il Fiscal Compact non potrà non avere implicazioni deflazionistiche e comportare, ogni anno, tagli alla spesa ed aumenti delle entrate per complessivi 50 miliardi di euro circa. Nel tentativo di ridurre lo stock di debito pubblico, si ridurrebbe ulteriormente il Pil aumentando quindi il rapporto tra stock e debito. È una spirale da film dell’orrore.
L’ERRORE DELL’ITALIA
Occorre chiedersi perché l’Italia ha firmato il Fiscal Compact. Chi ha partecipato al negoziato sostiene che l’allora Presidente del Consiglio e Ministro dell’Economia Mario Monti ed il Ministro per gli Affari europei Enzo Moavero pensavano ad uno “scambio politico”: ottenere la golden rule (ossia l’esenzione dal computo del disavanzo e del debito) per l’investimento pubblico. Non ebbero nulla non tanto perché la Germania o altri Stati “nordici” eressero una barriera ma per l’opposizione netta dei loro ex-colleghi della Commissione Europea (CE) i quali sostenevano che manca una definizione univoca di cosa è una spesa in conto capitale per investimenti. Non ne furono lieti ma non mostrarono neanche eccessivo disappunto da porre il pugno sul tavolo. Anzi, pare che la filosofia fosse: beggars cannot be choosy, chi mendica non può essere selettivo.
Occorre chiedersi perché l’Italia ha firmato il Fiscal Compact. Chi ha partecipato al negoziato sostiene che l’allora Presidente del Consiglio e Ministro dell’Economia Mario Monti ed il Ministro per gli Affari europei Enzo Moavero pensavano ad uno “scambio politico”: ottenere la golden rule (ossia l’esenzione dal computo del disavanzo e del debito) per l’investimento pubblico. Non ebbero nulla non tanto perché la Germania o altri Stati “nordici” eressero una barriera ma per l’opposizione netta dei loro ex-colleghi della Commissione Europea (CE) i quali sostenevano che manca una definizione univoca di cosa è una spesa in conto capitale per investimenti. Non ne furono lieti ma non mostrarono neanche eccessivo disappunto da porre il pugno sul tavolo. Anzi, pare che la filosofia fosse: beggars cannot be choosy, chi mendica non può essere selettivo.
COSA FARE OGGI
Il problema è cosa fare adesso. Dopo il Consiglio Europeo del 19-20 dicembre un referendum può comportare il rischio di un attacco dei mercati internazionali all’Italia poiché, come ricordato su Formiche.net del 21 dicembre l’intesa sull’Unione bancaria comporta una fragile rete di sicurezza (a carico delle banche non dei contribuenti) durante i dieci di periodo transitorio per la costituzione del “fondo di risoluzione” (da attivare in caso di crisi che comportino il fallimento di istituti tali da avere ripercussioni europee). Avere previsto un percorso di dieci anni per costituire il fondo deve, però, apparire credibile non ai Ministri, ed ai barracuda-esperti che li accompagnano, ma ai milioni di operatori che comprano e vendono valute sui mercati. Già nell’inverno 1991-92, venne definito, con il Trattato di Maastricht un percorso a tappe per entrare nella (allora nuova) moneta unica. I mercati pensarono, a torto od a ragione, che alcuni Stati firmatari non ce la avrebbero fatta; l’esito fu la crisi dell’estate-autunno 1992. Ricordiamo che poche ore dopo l’intesa sull’Unione bancaria, il MIT ha diramato due lavori di economisti di rango e di differenti estrazioni culturali (del primo, Working Paper No. 13-22, sono autori Daron Acemoglu, Simon Johnson, Amir Kermanu, James Kwak e Todd Mitton; del secondo, Working Paper No. 13 -23, Rajit Sehti e Mohamed Yildiz) che, sulla base di esperienze concrete il primo e di analisi teorica, mostrano come la “neurofinanza” abbia un ruolo preponderante (molto più importante di quello dei Ministri) nel far sì che milioni di operatori giudichino su un’intesa terrà o meno. In parole povere, il fatto stesso di lanciare un referendum abrogativo nei confronti di una legge costituzionale, e di una legge ordinaria “rafforzata”, può indurre i mercati a credere, come nell’agosto-settembre 1992, che l’Italia fa promesse da mercante e non ce la fa stare al gioco. Scatenando un attacco ai nostri titoli. I costi dell’operazione eccederebbero di gran lunga i benefici.
Il problema è cosa fare adesso. Dopo il Consiglio Europeo del 19-20 dicembre un referendum può comportare il rischio di un attacco dei mercati internazionali all’Italia poiché, come ricordato su Formiche.net del 21 dicembre l’intesa sull’Unione bancaria comporta una fragile rete di sicurezza (a carico delle banche non dei contribuenti) durante i dieci di periodo transitorio per la costituzione del “fondo di risoluzione” (da attivare in caso di crisi che comportino il fallimento di istituti tali da avere ripercussioni europee). Avere previsto un percorso di dieci anni per costituire il fondo deve, però, apparire credibile non ai Ministri, ed ai barracuda-esperti che li accompagnano, ma ai milioni di operatori che comprano e vendono valute sui mercati. Già nell’inverno 1991-92, venne definito, con il Trattato di Maastricht un percorso a tappe per entrare nella (allora nuova) moneta unica. I mercati pensarono, a torto od a ragione, che alcuni Stati firmatari non ce la avrebbero fatta; l’esito fu la crisi dell’estate-autunno 1992. Ricordiamo che poche ore dopo l’intesa sull’Unione bancaria, il MIT ha diramato due lavori di economisti di rango e di differenti estrazioni culturali (del primo, Working Paper No. 13-22, sono autori Daron Acemoglu, Simon Johnson, Amir Kermanu, James Kwak e Todd Mitton; del secondo, Working Paper No. 13 -23, Rajit Sehti e Mohamed Yildiz) che, sulla base di esperienze concrete il primo e di analisi teorica, mostrano come la “neurofinanza” abbia un ruolo preponderante (molto più importante di quello dei Ministri) nel far sì che milioni di operatori giudichino su un’intesa terrà o meno. In parole povere, il fatto stesso di lanciare un referendum abrogativo nei confronti di una legge costituzionale, e di una legge ordinaria “rafforzata”, può indurre i mercati a credere, come nell’agosto-settembre 1992, che l’Italia fa promesse da mercante e non ce la fa stare al gioco. Scatenando un attacco ai nostri titoli. I costi dell’operazione eccederebbero di gran lunga i benefici.
Sarebbe preferibile, come sostenuto su Formiche.net del
14 ottobre, smetterla di ritoccare il Trattato di Maastricht a pezzi e bocconi
e proporre una revisione complessiva dell’Unione monetaria.
Ma il Governo Letta ha la forza di chiederlo? Se, come sembra, sarà ancora in carica nel secondo semestre 2014, quando l’Italia ha il turno di presidenza degli organi collegiali UE.
Ma il Governo Letta ha la forza di chiederlo? Se, come sembra, sarà ancora in carica nel secondo semestre 2014, quando l’Italia ha il turno di presidenza degli organi collegiali UE.