Domani primo febbraio, in una tranquilla e nebbiosa domenica invernale, si riuniscono, nel freddo glaciale di Toronto, gli esperti a livello tecnico del G20 sulle questioni economiche e finanziarie. E’ una riunione di dirigenti di Ministeri economici e di Banche centrali che precede quella a metà marzo dei Ministri dell’Economia e delle Finanze – a sua volta preliminare all’assise dei Capi di Stato e di Governo in calendario a Londra il 2 aprile. E’ probabile che prima di allora (e forse ancora prima della riunione finanziaria ministeriale in calendario tra 6 settimane), ci potrà essere, a Berlino, un vertice straordinario dei Capi di Stato e di Governo- dedicato specificatamente ai derivati; lo hanno anticipato, un po’ sornionamente, Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy. L’Italia ha un ruolo particolare perché in questo anno di grazia 2009, è il Presidente di turno del G8. Sarkozy è l’iper-Presidente che, se non ha un ruolo, se lo prende sol che gli piaccia.
Tutto ciò indica che il vertice convocato da George W. Bush a metà novembre a Washington non è stato, come molti pensavano, inutile o peggio ancora (uno sfoggio mediatico d’un Presidente al termine del proprio mandato e dopo una severa sconfitta elettorale del suo partito). Il G20 sul Potomac ha messo in moto una macchina. Ora è cruciale che resta sulla corsia giusta e porti risultati concreti entro aprile.
Alla riunione, saranno esaminati documenti dei gruppi di lavoro sui criteri di patrimonializzazione delle banche, sulle proposte del Financial Stability Forum, sulle riforme della Banca mondiale e del Fondo monetario. I rapporti sono ovviamente riservati e non si sa se e quando saranno resi pubblici (in forma più o meno integrale). E’ bene che restino coperti da uno spesso velo di discrezione data la delicatezza delle materie trattate. Tuttavia, i corridoi hanno orecchie. E gli stessi British (il mini-segretariato del G20 è a Londra ed è dotato di personale preso in prestito dal Tesoro di Sua Maestà) non sono sempre “gentlemen”: nell’ultimo fascicolo di “The Economist” ben 14 pagine sono dedicate a “the future of finance”, “il futuro del sistema finanziario”. E’ verosimile che ancora una volta (come quando la testata tratta di Banca Mondiale) il settimanale abbia avuto qualche soffiata.
La sezione speciale di “The Economist” non sfiora però quella che sembra essere la preoccupazione centrale dei gruppi di lavoro: il paradosso di un mondo in cui (nonostante le difficoltà di numerosi istituti di credito) la liquidità è abbondante (pure a ragione degli interventi pubblici a sostegno delle banche e dei bassissimi tassi d’interesse di riferimento) ma non arriva né ai settori che producono né alle famiglie ed agli altri soggetti che consumano. Questa è la caratteristica della crisi in atto. All’origine del paradosso c’è la mancanza di fiducia all’interno del settore finanziario: ciascuna banca non ha contezza di quanti titoli tossici sono nel portafoglio delle sue consorelle ed anche nei suoi propri forzieri. In questo clima, il credito viene razionato non perché non c’è liquidità o perché non si hanno dati adeguati sui propri clienti ma perché non si ha fiducia né negli altri istituti e neanche in se stessi. Inoltre, il cavallo (ossia imprese, famiglie) non beve perché, temendo tempi peggiori e percependo che le banche non si fidano le une delle altre), mette sotto il materasso ciò che, alla fine del mese, riesce a risparmiare.
Come uscirne? Senza ricorrere alla “neuroeconomics” (“neuroeconomia”) od alla speranza (molto prossima ad un’illusione) che il cambiamento di Governo negli Usa abbia effetti miracolistici cerchiamo di vedere cosa può essere fatto sotto il profilo tecnico perché il G20 resti sulla corsia giusta e non pensi che Obama possa essere il Padre Pio della finanza internazionale.
Il nodo immediato si è detto è il paradosso tra disponibilità di liquidità e restrizioni. Si può in parte curarlo rimuovendo dubbi sulla solidità delle banche. Tre sono i metodi correnti: a) garanzie pubbliche (ma in Gran Bretagna hanno fatto cilecca); b) creazione di “bad banks” (dove collocare i titoli tossici) da liquidare a spese dei contribuenti (percorso seguito in passato in Corea e Giappone); c) nazionalizzazioni temporanee (come fatto negli Anni 90 in Svezia ed in Giappone) ma in molti Paesi tenderebbero e diventare permanenti. Nessuno di questi metodi – lo sappia il G20- è particolarmente brillante. Meglio viaggiare verso un miglioramento della regolamentazione e della vigilanza sia nazionale sia internazionale senza farneticare su “bad banks” mondiali e quella novella Lourdes che sarebbe un’ipotetica nuova Bretton Woods . Non mancano proposte sul tappeto. Al contrario ce ne è una vera e propria pletora. Hanno quasi tutte un difetto: riguardano esclusivamente o quasi il credito (alcune si estendono alle assicurazioni) ignorando del tutto il mercato mobiliare che con credito ed assicurazioni è strettamente connesso. Lo dice bene uno studio di Luigi Zingales (Chicago Booth School of Business Research Paper n. 08-27) che si riferisce – è vero- agli Usa ma meriterebbe di essere letto in Italia. La Consob (e le sue cugine nel resto del mondo) paiono essere le grandi assenti: mettiamole in pista perché la ri-regolamentazione dovrebbe riguardare anche loro. Ancora una volta non ci saranno grandi esiti di breve periodo. Jan-Pieter Krahen dell’Università di Francoforte e Günter Franke dell’Università di Costanza hanno appena messo on line un lavoro interessante (CFS Working Paper No 2008/31) sul futuro della finanziarizzazione dell’economia; la ripresa sarà lenta; è probabile che soprattutto negli Usa gli utili del settore finanziario (passati dal 10% di tutti i settori economici nel 1980 al 40% nel 2007) ed il ruolo nella capitalizzazione di Borsa (dal 6% al 23% nello stesso arco di tempo) facciano marcia indietro. E’ desiderabile – affermano Daron Acemoglu ed il Premio Nobel Edund Phelps – che la finanza sia maggiormente in linea con l’economia reale e che la regolazione serva anche a questo scopo.
Può essere utile a questo fine una riforma delle istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale, Fondo monetario) e in questa architettura quale ruolo dare al Financial Stability Forum? Su questi temi si sta scrivendo molto e stanno nascendo molte ambizioni. A mio parere, sono questioni importanti ma da affrontare dopo i nodi del paradosso (liquidità abbondante ma che resta in cassaforte) e della nuova regolazione. Gli organigrammi, e le poltrone, tendono a portare su corsie sbagliate. A volte, pure ad andare contro mano.
sabato 31 gennaio 2009
venerdì 30 gennaio 2009
UN NUOVO ALLESTIMENTO DI LOHENGRIN SALPA DA PALERMO, Musica-web 29 gennaio
Il nuovo allestimento di “Lohengrin” di Richard Wagner sarà forse ricordato come la migliore inaugurazione di questa stagione 2008-2009. Ha debuttato il 24 gennaio a Palermo dove si replica sino all’inizio di febbraio prima di salpare per il Carlo Felice di Genova, che lo coproduce, ed altri teatri. Tanto Hugo De Ana (regia, scene, costumi e luci) quanto Günther Neuhold (direzione musicale) seguono le indicazioni di Wagner, il quale proprio con “Lohengrin” diede corpo alle proprie idee in materia di riforma di teatro in musica. I tempi musicali sono quali prescritti nella partitura (non “dilatati” come nel “Don Carlo” scaligero od “affrettati” come nell’”Aida” romana). Le restrizioni finanziarie e il progresso tecnico inducono De Hana a utilizzare una scena unica (nonché, per parte delle masse costumi d’una produzione della Scala d’una ventina d’anni fa). Grazie ad un abile gioco di luci e di proiezioni c’è quanto richiesto da Wagner: dalla nebbiosa pianura d’Anversa alla Cattedrale per le nozze tra Lohengrin ed Elsa, alla stanza nuziale. Non mancano i duelli e la navicella trainata da un magico cigno bianco. E’ un allestimento tradizionale, ma a costi contenuti e facilmente trasportabile per poter essere utilizzato in numerosi teatri. Ciò può non piacere a chi è alla ricerca dell’innovazione in qualsiasi nuova produzione. In questa fase di bilanci molto stretti, invece, è, a mio parere, un merito.
“Lohengrin” si svolge su tre piani paralleli che s’intersecano l’uno con l’altro: un affresco storico-politico (con toni marcatamente patriottici), una parabola metafisico-religiosa (imperniata sulla salvazione, in un Medio Evo in cui la cristianizzazione è recente e ci sono seguaci dei culti pagani), ed un dramma d’amore coniugale (con venature psicoanalitiche). Sotto il profilo drammaturgico e musicale non è facile mantenere l’equilibrio tra questi tre elementi anche perché la musica è marcatamente diatonica nell’affresco storico-politico, cromatica nel contrasto tra il cristianesimo e paganesimo ed ancorata alle opere prussiane di Spontini nella vicenda amorosa. Neuhold e De Hana riescono nell’intrapresa anche perché ben coadiuvati dal resto della compagnia.
In primo luogo, l’orchestra ed il coro (supportato quest’ultimo dal coro Orpheus di Sofia) danno un’ottima prova. In secondo luogo, un cast internazionale in cui prevalgono le due protagoniste femminili: Martina Serafin (la purissima Elsa) che canta regolarmente il ruolo a Vienna ed in Germania (ed in Italia già ascoltata in questa parte a Bologna nel dicembre 2002) e Marianne Cornetti (la perfida Ortruda seguace della magia nera del paganesimo teutonico). Zoran Tedorovich è un tenore spinto serbo abituato principalmente al repertorio verdiano (che canta al “Met” di New York). Debutta in ruoli wagneriani: ha un buon timbro ed ha retto bene il difficilissimo terzo atto. Serghei Leiferkus è efficace nella parte di Federico (marito fellone d’Ortruda). Pure gli spettacoli meglio riusciti hanno punti deboli: il Re ed il Messaggero, personaggi relativamente secondari, lasciano vocalmente a desiderare.
“Lohengrin” si svolge su tre piani paralleli che s’intersecano l’uno con l’altro: un affresco storico-politico (con toni marcatamente patriottici), una parabola metafisico-religiosa (imperniata sulla salvazione, in un Medio Evo in cui la cristianizzazione è recente e ci sono seguaci dei culti pagani), ed un dramma d’amore coniugale (con venature psicoanalitiche). Sotto il profilo drammaturgico e musicale non è facile mantenere l’equilibrio tra questi tre elementi anche perché la musica è marcatamente diatonica nell’affresco storico-politico, cromatica nel contrasto tra il cristianesimo e paganesimo ed ancorata alle opere prussiane di Spontini nella vicenda amorosa. Neuhold e De Hana riescono nell’intrapresa anche perché ben coadiuvati dal resto della compagnia.
In primo luogo, l’orchestra ed il coro (supportato quest’ultimo dal coro Orpheus di Sofia) danno un’ottima prova. In secondo luogo, un cast internazionale in cui prevalgono le due protagoniste femminili: Martina Serafin (la purissima Elsa) che canta regolarmente il ruolo a Vienna ed in Germania (ed in Italia già ascoltata in questa parte a Bologna nel dicembre 2002) e Marianne Cornetti (la perfida Ortruda seguace della magia nera del paganesimo teutonico). Zoran Tedorovich è un tenore spinto serbo abituato principalmente al repertorio verdiano (che canta al “Met” di New York). Debutta in ruoli wagneriani: ha un buon timbro ed ha retto bene il difficilissimo terzo atto. Serghei Leiferkus è efficace nella parte di Federico (marito fellone d’Ortruda). Pure gli spettacoli meglio riusciti hanno punti deboli: il Re ed il Messaggero, personaggi relativamente secondari, lasciano vocalmente a desiderare.
martedì 27 gennaio 2009
LOHENGRIN SCUOTE IL MASSIMO DI PALERMO, Il Velino 27 gennaio
Roma, 27 gen (Velino) - Un nuovo allestimento di “Lohengrin” di Richard Wagner ha debuttato, con successo, sabato scorso al Teatro Massimo di Palermo dove viene replicato sino a inizio febbraio, prima di salpare per il “Carlo Felice” di Genova che lo coproduce. È la migliore inaugurazione di questa stagione 2008-2009. “Lohengrin” è stata la prima opera di Wagner rappresentata in Italia, nell’autunno del 1871, a oltre vent’anni dalla sua composizione e dalla prima esecuzione nel piccolo teatro di Weimar. Verdi era in uno dei palchi e la ascoltò con attenzione. Alla stazione ferroviaria, in attesa del treno per Parma e Busseto, incontrò il giovane Arrigo Boito entusiasta, mentre il buon Peppino era piuttosto perplesso, pur se ne recepì alcuni aspetti nei suoi lavori successivi. “Lohengrin” è l’opera di Wagner più rappresentata in Italia, sino a tempi recenti in una traduzione ritmica ripresa alcune stagioni fa in un circuito regionale. L’intreccio potrebbe sembrare quello di un “grand opèra padano”, allora in sviluppo.
La vicenda si svolge a Anversa, nel Brabante, quindi a rigor di geopolitica al di fuori della Germania. Enrico I di Sassonia detto l’Uccellatore vi si è recato per arruolare i brabantini contro una possibile invasione barbarica, allo spirare di un patto novennale di tregua con gli ungaro-unnici. Wagner si attarda sulle indicazioni di scena e sui costumi: compatti i sassoni e gli altri tedeschi, tutti con le stesse uniformi e gli stessi stendardi;, divisi in clan, ciascuno con la propria uniforme e il proprio stendardo, i brabantini che hanno appena perso tanto la loro guida quanto il di lui erede. La richiesta di Enrico I è accolta con freddezza dai vari clan, sino all’arrivo di Lohengrin, accettato come loro “Protettore” e al suo deciso appoggio alla difesa contro la minacciata invasione. Nonché soprattutto scelto in seguito a un “giudizio di Dio” (un duello contro il generale brabatino Telramundo) come sposo di Elsa, figlia del duca di Brabante e ingiustamente accusata dalla moglie di Telramundo, Ortroda, di avere ucciso l’erede al trono, Goffredo. Lohengrin è venuto da “una terra lontana” e non se ne conosce neppure il nome. Anzi, il patto per la difesa di Elsa e dei brabantini è quello di non chiedergli mai chi è e da dove viene. È nella “terra lontana” (il Castello del Gral) che il cavaliere ritorna quando, spinta dai subdoli inganni di Ortruda, Elsa gli pone le domande fatali. Lohengrin parte ma Goffredo riappare: era stato trasformato da Ortruda nel cigno che trainava la navicella dell’eroe.
In “Lohegrin” s’intrecciano, mirabilmente, vari elementi, ciascuno appartenente a un universo musicale differente, benché legati da un continuo flusso orchestrale dove dominano gli archi: il contesto storico dell’unità del popoli tedeschi di fronte all’invasione (diatonico quasi sino alla spasimo); il contrasto tra varie declinazioni del cristianesimo (e la visione lontana del Santo Gral e della Verità), dei sassoni e dei brabantini e il paganesimo di Ortrudae Telramundo, il soprano, o mezzo soprano, perfido e il baritono (denso di anticipi cromatici); l’incapacità di Elsa, il soprano lirico, di trasformare in vero amore il suo innamoramento per Lohengrin (con tratti ancorati allo Spontini del periodo prussiano) e di assimilare a pieno la Verità. Sino agli anni Sessanta, l’opera veniva messa in scena come una storia d’amore con uno sfondo storico. Solo più di recente è stata data centralità agli aspetti politici, psicologici e religiosi del lavoro. Altrove, sulla traccia d’Adorno e di Bortolotto, è la religio il fulcro dell’opera. I brabantini sono cristiani, ma di conversione relativamente recente. Nel Brabante, il cristianesimo convive con vecchie forme di paganesimo praticate con magie, filtri e l’insinuazione del dubbio rispetto alla Verità.
Secondo ricerche storiche recenti, il normanno Re Nollo, dopo essersi convertito, fece grandi donazioni alle chiese cristiane ma sacrificava i cristiani prigionieri agli dei pagani. Nella sala del trono di Re Redwald (padre di Ortruda) c’erano due altari, uno più grande per la messa e uno più piccolo per offrire sacrifici ai demoni. La stessa Elsa, pur purissima, soprano lirico di stupenda e struggente virtù, diventa spergiura, nella prima scena del terzo atto, scatenando il dramma conclusivo. Nel nuovo allestimento palermitano-genovese sia Hugo De Ana (regia, scene, costumi e luci) sia Günther Neuhold (direzione musicale) seguono con cura le indicazioni di Wagner (preziose quelle per il debutto a Monaco e per la prima italiana a Bologna). Wagner non era un grande bensì un grandissimo uomo di teatro e proprio con “Lohengrin” diede corpo alle proprie idee in materia di riforma di teatro in musica. I “tempi” musicali sono quali prescritti nella partitura, non “strascicati” come nel “Don Carlo” scaligero o sveltiti come nell’“Aida” romana.
Grazie a un abile gioco di luci e di proiezioni, si va dalla nebbiosa pianura d’Anversa alla cattedrale delle nozze tra Lohengrin ed Elsa fino alla stanza nuziale. Non mancano i duelli e, ovviamente, la navicella trainata da un magico cigno bianco. È un allestimento tradizionale. Ciò può non piacere a chi è alla ricerca dell’innovazione in qualsiasi nuova produzione. Sotto il profilo musicale, l’orchestra ed il coro (supportato quest’ultimo dal coro Orpheus di Sofia) danno un’ottima prova, applaudita dal pubblico palermitano meno del meritato. Nel cast internazionale prevalgono le due protagoniste femminili: Martina Serafin (la purissima Elsa) che canta regolarmente il ruolo a Vienna e in Germania e Marianne Cornetti (la perfida Ortruda seguace della magia nera del paganesimo teutonico). Zoran Todorovich è un tenore spinto serbo avvezzo al repertorio verdiano: ha un buon timbro e ha retto bene il difficilissimo terzo atto. Serghei Leiferkus è efficace nella parte di Federico (marito fellone d’Ortruda). Vocalmente, i punti deboli: il Re e il Messaggero.
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La vicenda si svolge a Anversa, nel Brabante, quindi a rigor di geopolitica al di fuori della Germania. Enrico I di Sassonia detto l’Uccellatore vi si è recato per arruolare i brabantini contro una possibile invasione barbarica, allo spirare di un patto novennale di tregua con gli ungaro-unnici. Wagner si attarda sulle indicazioni di scena e sui costumi: compatti i sassoni e gli altri tedeschi, tutti con le stesse uniformi e gli stessi stendardi;, divisi in clan, ciascuno con la propria uniforme e il proprio stendardo, i brabantini che hanno appena perso tanto la loro guida quanto il di lui erede. La richiesta di Enrico I è accolta con freddezza dai vari clan, sino all’arrivo di Lohengrin, accettato come loro “Protettore” e al suo deciso appoggio alla difesa contro la minacciata invasione. Nonché soprattutto scelto in seguito a un “giudizio di Dio” (un duello contro il generale brabatino Telramundo) come sposo di Elsa, figlia del duca di Brabante e ingiustamente accusata dalla moglie di Telramundo, Ortroda, di avere ucciso l’erede al trono, Goffredo. Lohengrin è venuto da “una terra lontana” e non se ne conosce neppure il nome. Anzi, il patto per la difesa di Elsa e dei brabantini è quello di non chiedergli mai chi è e da dove viene. È nella “terra lontana” (il Castello del Gral) che il cavaliere ritorna quando, spinta dai subdoli inganni di Ortruda, Elsa gli pone le domande fatali. Lohengrin parte ma Goffredo riappare: era stato trasformato da Ortruda nel cigno che trainava la navicella dell’eroe.
In “Lohegrin” s’intrecciano, mirabilmente, vari elementi, ciascuno appartenente a un universo musicale differente, benché legati da un continuo flusso orchestrale dove dominano gli archi: il contesto storico dell’unità del popoli tedeschi di fronte all’invasione (diatonico quasi sino alla spasimo); il contrasto tra varie declinazioni del cristianesimo (e la visione lontana del Santo Gral e della Verità), dei sassoni e dei brabantini e il paganesimo di Ortrudae Telramundo, il soprano, o mezzo soprano, perfido e il baritono (denso di anticipi cromatici); l’incapacità di Elsa, il soprano lirico, di trasformare in vero amore il suo innamoramento per Lohengrin (con tratti ancorati allo Spontini del periodo prussiano) e di assimilare a pieno la Verità. Sino agli anni Sessanta, l’opera veniva messa in scena come una storia d’amore con uno sfondo storico. Solo più di recente è stata data centralità agli aspetti politici, psicologici e religiosi del lavoro. Altrove, sulla traccia d’Adorno e di Bortolotto, è la religio il fulcro dell’opera. I brabantini sono cristiani, ma di conversione relativamente recente. Nel Brabante, il cristianesimo convive con vecchie forme di paganesimo praticate con magie, filtri e l’insinuazione del dubbio rispetto alla Verità.
Secondo ricerche storiche recenti, il normanno Re Nollo, dopo essersi convertito, fece grandi donazioni alle chiese cristiane ma sacrificava i cristiani prigionieri agli dei pagani. Nella sala del trono di Re Redwald (padre di Ortruda) c’erano due altari, uno più grande per la messa e uno più piccolo per offrire sacrifici ai demoni. La stessa Elsa, pur purissima, soprano lirico di stupenda e struggente virtù, diventa spergiura, nella prima scena del terzo atto, scatenando il dramma conclusivo. Nel nuovo allestimento palermitano-genovese sia Hugo De Ana (regia, scene, costumi e luci) sia Günther Neuhold (direzione musicale) seguono con cura le indicazioni di Wagner (preziose quelle per il debutto a Monaco e per la prima italiana a Bologna). Wagner non era un grande bensì un grandissimo uomo di teatro e proprio con “Lohengrin” diede corpo alle proprie idee in materia di riforma di teatro in musica. I “tempi” musicali sono quali prescritti nella partitura, non “strascicati” come nel “Don Carlo” scaligero o sveltiti come nell’“Aida” romana.
Grazie a un abile gioco di luci e di proiezioni, si va dalla nebbiosa pianura d’Anversa alla cattedrale delle nozze tra Lohengrin ed Elsa fino alla stanza nuziale. Non mancano i duelli e, ovviamente, la navicella trainata da un magico cigno bianco. È un allestimento tradizionale. Ciò può non piacere a chi è alla ricerca dell’innovazione in qualsiasi nuova produzione. Sotto il profilo musicale, l’orchestra ed il coro (supportato quest’ultimo dal coro Orpheus di Sofia) danno un’ottima prova, applaudita dal pubblico palermitano meno del meritato. Nel cast internazionale prevalgono le due protagoniste femminili: Martina Serafin (la purissima Elsa) che canta regolarmente il ruolo a Vienna e in Germania e Marianne Cornetti (la perfida Ortruda seguace della magia nera del paganesimo teutonico). Zoran Todorovich è un tenore spinto serbo avvezzo al repertorio verdiano: ha un buon timbro e ha retto bene il difficilissimo terzo atto. Serghei Leiferkus è efficace nella parte di Federico (marito fellone d’Ortruda). Vocalmente, i punti deboli: il Re e il Messaggero.
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I COEFFICIENTI NON SERVONO , BISOGNO VELOCIZZARE DELLE NUOVE PENSIONI, Libero 27 gennaio
Il Segretario (per ora) del Partito (che si definisce) Democratico ha fatto un’inattesa apertura in materia di previdenza. Ha scelto il quotidiano “Il Sole-24 Ore”, da sempre vicino alla grande industria italiana. Ha teso, dunque, la mano sia alla crescente schiera dei riformatori (in materia di previdenza) sia alle grandi imprese. Una volta tanto, il linguaggio di Walter Veltroni non è ambiguo: propone non “innalzamenti forzosi dell’età pensionabile” ma “flessibilità di scelta” e “il rispetto” di “quanto previsto per l’adeguamento dei coefficienti che darebbe un po’ di respiro ai conti pubblici”.
Veltroni , è noto, crede ne “la politique d’abord”. La sortita ha, quindi, senza dubbio lo scopo di mettere in difficoltà la maggioranza. Dall’inverno 1994-95, tutti sanno che Silvio Berlusconi condivide con Jean-Paul Sartre una sola cosa: certe parole che iniziano con la “p” non si scrivono per esteso ma all’iniziale si fanno seguire puntini, perché non pronunciabili di fonte a signore (per questo motivo, una celebre “pièce” di Sarte era intitolata la “La p…..respecteuse”). Sempre in un’ottica di “politique d’abord” , Veltroni pone paletti molto precisi a quanto è disposto a discutere al tavolo d’un’eventuale trattativa per giungere a misure riformatrici condivise: a) aggiornamento dei “coefficienti” (dimenticando di dire che avrebbe dovuto farlo il Governo Prodi il quale aggravò, invece, il peso della previdenza sui conti pubblici e sui giovani”) e b) “flessibilità” nell’età di pensionamento. Ciò vuol dire non solamente che la parte politica che (forse) rappresenta non è pronta né a che si dia attuazione alla sentenza della Corte di Giustizia Europea sull’età di pensionamento per i lavoratori di genere femminile né a affrontare il vero nodo del sistema previdenziale italiano sotto il profilo e dell’efficienza e dell’equità.
Andiamo con ordine. In primo luogo, la “politique d’abord” delle riforme previdenziali. Alcuni anni fa un sondaggio mostrò che, tutto sommato, gli italiani non erano affatto contrari ad un riassetto previdenziale che premiasse efficienza ed equità, principalmente tra generazioni ma anche tra generi (ossia tra uomini e donne). Il sondaggio non fu preso sul serio con il pretesto che è facile manipolare i questionari ed ancora più semplice somministrarli ad un campione non rappresentativo e, comunque, pilotarne i risultati. Il 21 gennaio 2009, è stato diramato (per ora on line ed unicamente agli abbonati ad un servizio specializzato) uno studio econometrico dell’Università di Tolosa da cui si evince (CEPR DP n. DP6993) che se in Francia si votasse oggi sui parametri di un sistema a ripartizione (come è quello italiano), la maggioranza della popolazione favorirebbe una riduzione alle spettanze piuttosto che un aumento dei contributi (quali quelli attuati dai Governi di centro-sinistra italiani ogni volta che sono stati nelle stanze dei bottoni) e sarebbe anche pronta ad un incremento dell’età della pensione se ciò comportasse maggiore efficienza ed equità. L’analisi dell’Università di Tolosa (distinta e distante dalle nostre beghe) mostra che gli ex-post-neo comunisti (nelle varie denominazioni del loro partito) e la Cgil hanno cavalcato il cavallo sbagliato. Pure Veltroni ormai se ne è reso conto. Ciò dovrebbe indurre il Cavaliere a salire, al più presto, lui stesso sul destriero della riforma.
In parallelo (quasi) con lo studio dell’Università di Tolosa, da Cà Foscari un bel lavoro quantitativo di Agar Brugiavini e Franco Peracchi (nessuno dei due contiguo al centro destra) – Research Paper n. 45/45/WP/2008- dimostra che nel caso dell’Italia la disoccupazione giovanile è inversamente correlata all’età in cui si va in pensione: in parole povere, quanto più tardi è l’età effettiva di pensionamento tanto più elevato è il tasso dei giovani che cercano lavoro senza trovarlo. La “flessibilià” di cui parla Veltroni dovrebbe indurre ad andare più tardi in quiescenza , quindi, perché in tal modo (se l’analisi di Brugiavini e Peracchi è corretta- nessuno, sino ad ora, lo ha messo in dubbio) non solo si facilita l’occupazione dei giovani ma gli anziani avranno trattamenti più pingui (specialmente man mano che avanza il sistema contributivo) . Lo documenta, tra l’altro, un lavoro appena uscito della Federal Reserve Bank of Chicago (Working Paper N. 2008-18) in cui si quantizza il “rischio di vivere più a lungo di quanto ciascuno di noi si aspetta”.
Sotto il profilo dell’onere sulla spesa pubblica e della capacità di attivare altri ammortizzatori sociali (ad esempio, per i senza lavoro), l’aggiornamento dei “coefficienti di trasformazione” (pur necessario) avrà effetti (d’efficienza e d’equità) solamente nel medio periodo (man mano che vanno a riposo coloro che al 31 dicembre 1995 avevano meno di 18 di contributi , nonché i loro superstiti) . Lo affermano non solo vecchi liberali incallitti come il vostro “chroniqueur” che in questi anni ha contribuito ad una piccola industria editoriale in materia (con saggi pubblicati in libri collettanei della Banca mondiale, della Banca interamericana per lo sviluppo, dellìOces e dell’Economist) ma anche un altro lavoro recente di Brugiavini e Peracchi (Cà Foscari, Research Paper Series n. 30/WP/2008), pur indicati, un paio di volte, dallo stesso Veltroni tra i suoi consiglieri economici. Il vero nodo è il lungo periodo di transizione – dai 18 ai 35-40 anni, secondo le ipotesi in materia d’età dei titolari di pensione di reversibilità nella veste di superstiti- per l’attuazione piena del sistema di calcolo secondo cui i trattamenti saranno interamente basati sui contributi (almeno figurativi) e non sulle retribuzioni.
E’ utile spiegare alcuni termini tecnici per fare il punto. I “coefficienti” di cui si parla in questi giorni – lo fa pure Veltroni – sono la formula in base alla quale il montante di contributi è convertito in rendita annuale (formula che dipende da parametri demografici ed economici). I contributi della normativa in vigore sono “figurativi” (poiché computati in base a norme e regolamenti); non vengono effettivamente versati in conti individuali di Tizio o Sempronio (servono a pagare le pensioni in essere di Caio , padre o zio di Tizio e Sempronio, poiché il sistema resta a ripartizione). Una transizione lunga (come l’attuale) non solamente non porta sollievo a finanza ed economia che tra alcuni lustri ma innesca, specialmente se come necessario, ogni tre anni, si cambiano i “coefficienti”) continui problemi di “pensioni d’annata” e di spinte corporative al galleggiamento. Dannose anche per chi crede nella “politique d’abord”. Per questo motivo, in Svezia (ed altri Paesi) si è adottato un periodo di transizione di tre anni (non 18-40 come da noi). Professori Brugiavini e Peracchi, spiegatelo a Veltroni. Noi lo spiegheremo al Cavaliere.
Veltroni , è noto, crede ne “la politique d’abord”. La sortita ha, quindi, senza dubbio lo scopo di mettere in difficoltà la maggioranza. Dall’inverno 1994-95, tutti sanno che Silvio Berlusconi condivide con Jean-Paul Sartre una sola cosa: certe parole che iniziano con la “p” non si scrivono per esteso ma all’iniziale si fanno seguire puntini, perché non pronunciabili di fonte a signore (per questo motivo, una celebre “pièce” di Sarte era intitolata la “La p…..respecteuse”). Sempre in un’ottica di “politique d’abord” , Veltroni pone paletti molto precisi a quanto è disposto a discutere al tavolo d’un’eventuale trattativa per giungere a misure riformatrici condivise: a) aggiornamento dei “coefficienti” (dimenticando di dire che avrebbe dovuto farlo il Governo Prodi il quale aggravò, invece, il peso della previdenza sui conti pubblici e sui giovani”) e b) “flessibilità” nell’età di pensionamento. Ciò vuol dire non solamente che la parte politica che (forse) rappresenta non è pronta né a che si dia attuazione alla sentenza della Corte di Giustizia Europea sull’età di pensionamento per i lavoratori di genere femminile né a affrontare il vero nodo del sistema previdenziale italiano sotto il profilo e dell’efficienza e dell’equità.
Andiamo con ordine. In primo luogo, la “politique d’abord” delle riforme previdenziali. Alcuni anni fa un sondaggio mostrò che, tutto sommato, gli italiani non erano affatto contrari ad un riassetto previdenziale che premiasse efficienza ed equità, principalmente tra generazioni ma anche tra generi (ossia tra uomini e donne). Il sondaggio non fu preso sul serio con il pretesto che è facile manipolare i questionari ed ancora più semplice somministrarli ad un campione non rappresentativo e, comunque, pilotarne i risultati. Il 21 gennaio 2009, è stato diramato (per ora on line ed unicamente agli abbonati ad un servizio specializzato) uno studio econometrico dell’Università di Tolosa da cui si evince (CEPR DP n. DP6993) che se in Francia si votasse oggi sui parametri di un sistema a ripartizione (come è quello italiano), la maggioranza della popolazione favorirebbe una riduzione alle spettanze piuttosto che un aumento dei contributi (quali quelli attuati dai Governi di centro-sinistra italiani ogni volta che sono stati nelle stanze dei bottoni) e sarebbe anche pronta ad un incremento dell’età della pensione se ciò comportasse maggiore efficienza ed equità. L’analisi dell’Università di Tolosa (distinta e distante dalle nostre beghe) mostra che gli ex-post-neo comunisti (nelle varie denominazioni del loro partito) e la Cgil hanno cavalcato il cavallo sbagliato. Pure Veltroni ormai se ne è reso conto. Ciò dovrebbe indurre il Cavaliere a salire, al più presto, lui stesso sul destriero della riforma.
In parallelo (quasi) con lo studio dell’Università di Tolosa, da Cà Foscari un bel lavoro quantitativo di Agar Brugiavini e Franco Peracchi (nessuno dei due contiguo al centro destra) – Research Paper n. 45/45/WP/2008- dimostra che nel caso dell’Italia la disoccupazione giovanile è inversamente correlata all’età in cui si va in pensione: in parole povere, quanto più tardi è l’età effettiva di pensionamento tanto più elevato è il tasso dei giovani che cercano lavoro senza trovarlo. La “flessibilià” di cui parla Veltroni dovrebbe indurre ad andare più tardi in quiescenza , quindi, perché in tal modo (se l’analisi di Brugiavini e Peracchi è corretta- nessuno, sino ad ora, lo ha messo in dubbio) non solo si facilita l’occupazione dei giovani ma gli anziani avranno trattamenti più pingui (specialmente man mano che avanza il sistema contributivo) . Lo documenta, tra l’altro, un lavoro appena uscito della Federal Reserve Bank of Chicago (Working Paper N. 2008-18) in cui si quantizza il “rischio di vivere più a lungo di quanto ciascuno di noi si aspetta”.
Sotto il profilo dell’onere sulla spesa pubblica e della capacità di attivare altri ammortizzatori sociali (ad esempio, per i senza lavoro), l’aggiornamento dei “coefficienti di trasformazione” (pur necessario) avrà effetti (d’efficienza e d’equità) solamente nel medio periodo (man mano che vanno a riposo coloro che al 31 dicembre 1995 avevano meno di 18 di contributi , nonché i loro superstiti) . Lo affermano non solo vecchi liberali incallitti come il vostro “chroniqueur” che in questi anni ha contribuito ad una piccola industria editoriale in materia (con saggi pubblicati in libri collettanei della Banca mondiale, della Banca interamericana per lo sviluppo, dellìOces e dell’Economist) ma anche un altro lavoro recente di Brugiavini e Peracchi (Cà Foscari, Research Paper Series n. 30/WP/2008), pur indicati, un paio di volte, dallo stesso Veltroni tra i suoi consiglieri economici. Il vero nodo è il lungo periodo di transizione – dai 18 ai 35-40 anni, secondo le ipotesi in materia d’età dei titolari di pensione di reversibilità nella veste di superstiti- per l’attuazione piena del sistema di calcolo secondo cui i trattamenti saranno interamente basati sui contributi (almeno figurativi) e non sulle retribuzioni.
E’ utile spiegare alcuni termini tecnici per fare il punto. I “coefficienti” di cui si parla in questi giorni – lo fa pure Veltroni – sono la formula in base alla quale il montante di contributi è convertito in rendita annuale (formula che dipende da parametri demografici ed economici). I contributi della normativa in vigore sono “figurativi” (poiché computati in base a norme e regolamenti); non vengono effettivamente versati in conti individuali di Tizio o Sempronio (servono a pagare le pensioni in essere di Caio , padre o zio di Tizio e Sempronio, poiché il sistema resta a ripartizione). Una transizione lunga (come l’attuale) non solamente non porta sollievo a finanza ed economia che tra alcuni lustri ma innesca, specialmente se come necessario, ogni tre anni, si cambiano i “coefficienti”) continui problemi di “pensioni d’annata” e di spinte corporative al galleggiamento. Dannose anche per chi crede nella “politique d’abord”. Per questo motivo, in Svezia (ed altri Paesi) si è adottato un periodo di transizione di tre anni (non 18-40 come da noi). Professori Brugiavini e Peracchi, spiegatelo a Veltroni. Noi lo spiegheremo al Cavaliere.
lunedì 26 gennaio 2009
PER CAPIRE QUESTO SCONTRO DI CIVILTA’ BISOGNA ANDARE ALL’OPERA, Il Foglio 27 gennaio
Per una mera coincidenza, a poche settimane dalla morte di Samuel Huntington, tre dei maggiori teatri italiani inaugurano le stagioni 2009 con tre opere i cui libretti (ed in un caso la partitura) sembrano rappresentazioni di “The Clash of Civilisations”, titolo del suo lavoro più noto, pur se, ad essere pignoli, la frase (che tanto contribuì al successo del volume) era stata coniata da quel simpaticone di Bernard Lewis il quale, con un quarto di secolo di anticipo, ha delineato lo “scontro” tra valori occidentali e Islam radicale di questo ultimo decennio.
Le tre opere sono “I Lombardi alla Prima Crociata” ed “Aida” di Verdi (inaugurazioni di Parma e Roma, in ordine rigorosamente cronologico) e “Lohengrin” di Wagner (ha aperto, in grande spolvero, il “Massimo” di Palermo, una delle rare fondazioni liriche con i conti in regola da circa un lustro). Verdi stava smarrendo la Fede quando lavorava ai “Lombardi” e la aveva persa del tutto quando componeva “Aida”, una dei suoi lavori più apertamente anti-clericali (Il Foglio dell’8 ottobre 2008). All’epoca del “Lohengrin”, Wagner, invece, era una testa calda (su cui incombeva una condanna a morte per il ruolo dei moti anarchici del 1848), ma profondamente luterano (pure perché in esilio nel cattolico, e bigotto, Regno di Sardegna e nella parimenti bigotta Svizzera di lingua tedesca). Il “Clash” di Huntington è tra “cultures” in cui la religione e la religiosità hanno un ruolo profondo.
Ne “I Lombardi”, i nostri eroi vanno alla conquista del Santo Sepolcro , correndo “all’invito di un pio”, ma nella loro Milano sono divisi in fazioni fratricide e commettono (per errore- sic!) patricidi, i meno affidabili diventano addirittura musulmani. Giunti in Terra Santa, stupri e saccheggi sono all’ordine del giorno, temperati ovviamente da pentimenti, conversioni (d’arabi “buoni” al cristianesimo). Lavoro patriottico (se si vuole) con un grande appello finale alla pace. Lo mette bene in risalto l’allestimento di Parma (regia di Lamberto Puggelli, scene di Paolo Bregni, costumi di Santuzza Calì, direzione musicale di Daniele Callegari; un magnifico giovane tenore, Francesco Meli) che non cade in banali attualizzazioni (“Ground Zero”, Striscia di Gaza) quali quelle dell’allestimento di Paul Curan visto a Firenze, ma propone un MedioEvo nebbioso in Lombardia ma arso dal sole in Palestina. A Verdi dello “scontro di civiltà” non importava un fico secco; da fedele suddito del Granducato di Parma e Piacenza, lo stesso patriottismo era richiesto dall’impresario (per ragioni di cassetta). A Verdi interessavano, cavatine, cabalette, arie, duetti, concertati e ben otto grandi parti corali. Lo “scontro” è centrale in “Aida” (tra egiziani e etiopi) ma Verdi voleva superare il melodramma e forgiare il teatro in musica all’italiana (prendendo qualche idea da Wagner): l’opera è del 1871, la breccia di Porta Pia era ancora calda, quindi, duri attacchi al clero egiziano ed occhi benevoli per gli etiopi vinti. Nell’edizione romana (coprodotta con Londra e Bruxelles), Bob Wilson sceglie una chiave intimista (movimenti ispirati ai geroglifici, scene essenziali, luci che rappresentano stati d’animo) e il “clash” resta sullo sfondo.
E’, invece, elemento centrale del “Lohengrin”: l’allestimento ha debuttato a Palermo e si vedrà anche a Genova poiché coprodotto con il “Carlo Felice”). Wagner la chiamò “grande opera romantica in tre atti” ma è il primo lavoro in cui attua la “rivoluzione” che schiude la porta alla “musica dell’avvenire”. E’ anche il primo da consigliare a chi studia composizione (per la nitidezza della scrittura). In “Lohegrin” s’intrecciano tre componenti, ciascuna appartenente ad un universo musicale differente, benché legate da un continuo flusso orchestrale: a) il contesto storico dell’unità dei popoli europei di fronte all’invasione da parte dei mongoli-ungari (diatonico quasi sino alla spasimo); b) il contrasto tra il cristianesimo -e la visione lontana del Santo Gral- dei sassoni e dei brabantini ed il paganesimo ancora sottotraccia (denso di anticipi cromatici); e c) l’incapacità della protagonista Elsa di trasformare in vero amore il suo innamoramento per Lohengrin (con tratti ancorati alllo Spontini del periodo prussiano). Con un cast stellare e la direzione musicale di Günter Neuhold, il regista Hugo de Ana (autore anche di scene, costumi e luci) imprime un tono metafisico allo “scontro” (anche se s’incrociano spade al primo ed al terzo atto). A Sam sarebbe piaciuto essere in un palco del “Massimo” e partecipare alla cena di gala nel ridotto del teatro palermitano.
Le tre opere sono “I Lombardi alla Prima Crociata” ed “Aida” di Verdi (inaugurazioni di Parma e Roma, in ordine rigorosamente cronologico) e “Lohengrin” di Wagner (ha aperto, in grande spolvero, il “Massimo” di Palermo, una delle rare fondazioni liriche con i conti in regola da circa un lustro). Verdi stava smarrendo la Fede quando lavorava ai “Lombardi” e la aveva persa del tutto quando componeva “Aida”, una dei suoi lavori più apertamente anti-clericali (Il Foglio dell’8 ottobre 2008). All’epoca del “Lohengrin”, Wagner, invece, era una testa calda (su cui incombeva una condanna a morte per il ruolo dei moti anarchici del 1848), ma profondamente luterano (pure perché in esilio nel cattolico, e bigotto, Regno di Sardegna e nella parimenti bigotta Svizzera di lingua tedesca). Il “Clash” di Huntington è tra “cultures” in cui la religione e la religiosità hanno un ruolo profondo.
Ne “I Lombardi”, i nostri eroi vanno alla conquista del Santo Sepolcro , correndo “all’invito di un pio”, ma nella loro Milano sono divisi in fazioni fratricide e commettono (per errore- sic!) patricidi, i meno affidabili diventano addirittura musulmani. Giunti in Terra Santa, stupri e saccheggi sono all’ordine del giorno, temperati ovviamente da pentimenti, conversioni (d’arabi “buoni” al cristianesimo). Lavoro patriottico (se si vuole) con un grande appello finale alla pace. Lo mette bene in risalto l’allestimento di Parma (regia di Lamberto Puggelli, scene di Paolo Bregni, costumi di Santuzza Calì, direzione musicale di Daniele Callegari; un magnifico giovane tenore, Francesco Meli) che non cade in banali attualizzazioni (“Ground Zero”, Striscia di Gaza) quali quelle dell’allestimento di Paul Curan visto a Firenze, ma propone un MedioEvo nebbioso in Lombardia ma arso dal sole in Palestina. A Verdi dello “scontro di civiltà” non importava un fico secco; da fedele suddito del Granducato di Parma e Piacenza, lo stesso patriottismo era richiesto dall’impresario (per ragioni di cassetta). A Verdi interessavano, cavatine, cabalette, arie, duetti, concertati e ben otto grandi parti corali. Lo “scontro” è centrale in “Aida” (tra egiziani e etiopi) ma Verdi voleva superare il melodramma e forgiare il teatro in musica all’italiana (prendendo qualche idea da Wagner): l’opera è del 1871, la breccia di Porta Pia era ancora calda, quindi, duri attacchi al clero egiziano ed occhi benevoli per gli etiopi vinti. Nell’edizione romana (coprodotta con Londra e Bruxelles), Bob Wilson sceglie una chiave intimista (movimenti ispirati ai geroglifici, scene essenziali, luci che rappresentano stati d’animo) e il “clash” resta sullo sfondo.
E’, invece, elemento centrale del “Lohengrin”: l’allestimento ha debuttato a Palermo e si vedrà anche a Genova poiché coprodotto con il “Carlo Felice”). Wagner la chiamò “grande opera romantica in tre atti” ma è il primo lavoro in cui attua la “rivoluzione” che schiude la porta alla “musica dell’avvenire”. E’ anche il primo da consigliare a chi studia composizione (per la nitidezza della scrittura). In “Lohegrin” s’intrecciano tre componenti, ciascuna appartenente ad un universo musicale differente, benché legate da un continuo flusso orchestrale: a) il contesto storico dell’unità dei popoli europei di fronte all’invasione da parte dei mongoli-ungari (diatonico quasi sino alla spasimo); b) il contrasto tra il cristianesimo -e la visione lontana del Santo Gral- dei sassoni e dei brabantini ed il paganesimo ancora sottotraccia (denso di anticipi cromatici); e c) l’incapacità della protagonista Elsa di trasformare in vero amore il suo innamoramento per Lohengrin (con tratti ancorati alllo Spontini del periodo prussiano). Con un cast stellare e la direzione musicale di Günter Neuhold, il regista Hugo de Ana (autore anche di scene, costumi e luci) imprime un tono metafisico allo “scontro” (anche se s’incrociano spade al primo ed al terzo atto). A Sam sarebbe piaciuto essere in un palco del “Massimo” e partecipare alla cena di gala nel ridotto del teatro palermitano.
domenica 25 gennaio 2009
DALL'AMERICA LATINA ALL'ASIA, LE CARTI VINCENTI PER LA FIAT , Il Tempo 24 gennaio
Nella settimana che comincia dopodomani i riflettori saranno puntati sull'industria automobilistica. Negli Usa, il Congresso dovrà esaminare se e quali aiuti dare a Detroit per evitare il collasso di un settore per decenni portante dell'economia Usa.
Nell'Ue si dovrà decidere se e come rendere la disciplina sulla concorrenza (e sugli aiuti di Stato) compatibile con il sostegno alla metalmeccanica richiesto a gran voce da Francia e Germania. In Italia Governo e parti sociali dovranno definire la posizione da prendere, dopo un CdA Fiat in cui si è deciso di non distribuire dividendi, di notizie su una maxi-linea di credito (1 miliardo di euro) che un consorzio di banche aprirebbe al Lingotto e dell'accordo preliminare per entrare nella malconcia Chrysler (di cui Torino rileverebbe il 35% del capitale). Tutto ciò va inserito in un quadro più vasto al fine d'essere valutato dai lettori, e dai politici. Quaranta anni fa, uno studio della Banca mondiale dava Detroit prossima a essere spacciata e diceva che la stessa sorte sarebbe toccata, qualche lustro più tardi, all'industria europea dell'auto. L'autore perse il posto. Mai, però, previsione dell'istituzione fu tanto azzeccata. In uno degli ultimi fascicoli di "Economic Policy", due economisti del Fondo monetario e uno dell'University of Virginia documentano come entro il 2050 il numero di auto in circolazione nel mondo aumenterà di 2,3 miliardi di unità, di cui 1,9 miliardi nei Paesi emergenti (in primo luogo, Cina) e che si andrà alla ricerca di utilitarie. Lo ha capito la Toyota: in un mercato in cui nel 2008 le vendite di auto hanno subito, su piano globale, una flessione di 3,5 milioni di unità (la metà negli Usa, nell'Ue e in Giappone), la Toyota (con 9 milioni di auto vendute) ha scalzato per la prima volta in 77 anni la General Motors come prima casa automobilista mondiale - grazie al successo non nell'Impero del Sol Levante ma in quello Celeste al di là del canale della Cina. In questa situazione, tre aspetti si presentano cruciali per la Fiat: a) l'accento sulle utilitarie a basso consumo e basso inquinamento; b) la joint venture con la Tata per entrare nel mercato indiano, e verso il resto dell'Asia (e al cui supporto è connessa parte della linea di credito citata) ; c) l'intesa preliminare con la Chrysler per portare il basso consumo e il basso inquinamento nel mercato Usa (e da lì in America Latina). Che cosa porta in dote il Lingotto? Oltre ad aspetti tecnici - le piattaforme per le "city cars" - una produttività relativamente elevata se raffrontata al resto del settore: lo documenta un lavoro del Centro Study Luca D'Agliano (il Working Paper n. 236) disponibile on line da alcuni giorni. È uno studio empirico che non riguarda soltanto la Fiat o la metalmeccanica ma un campione di grandi e medie imprese italiane impegnate in attività internazionali (o perché orientate all'export o perché titolari di investimenti diretti all'estero o dall'estero).
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Nell'Ue si dovrà decidere se e come rendere la disciplina sulla concorrenza (e sugli aiuti di Stato) compatibile con il sostegno alla metalmeccanica richiesto a gran voce da Francia e Germania. In Italia Governo e parti sociali dovranno definire la posizione da prendere, dopo un CdA Fiat in cui si è deciso di non distribuire dividendi, di notizie su una maxi-linea di credito (1 miliardo di euro) che un consorzio di banche aprirebbe al Lingotto e dell'accordo preliminare per entrare nella malconcia Chrysler (di cui Torino rileverebbe il 35% del capitale). Tutto ciò va inserito in un quadro più vasto al fine d'essere valutato dai lettori, e dai politici. Quaranta anni fa, uno studio della Banca mondiale dava Detroit prossima a essere spacciata e diceva che la stessa sorte sarebbe toccata, qualche lustro più tardi, all'industria europea dell'auto. L'autore perse il posto. Mai, però, previsione dell'istituzione fu tanto azzeccata. In uno degli ultimi fascicoli di "Economic Policy", due economisti del Fondo monetario e uno dell'University of Virginia documentano come entro il 2050 il numero di auto in circolazione nel mondo aumenterà di 2,3 miliardi di unità, di cui 1,9 miliardi nei Paesi emergenti (in primo luogo, Cina) e che si andrà alla ricerca di utilitarie. Lo ha capito la Toyota: in un mercato in cui nel 2008 le vendite di auto hanno subito, su piano globale, una flessione di 3,5 milioni di unità (la metà negli Usa, nell'Ue e in Giappone), la Toyota (con 9 milioni di auto vendute) ha scalzato per la prima volta in 77 anni la General Motors come prima casa automobilista mondiale - grazie al successo non nell'Impero del Sol Levante ma in quello Celeste al di là del canale della Cina. In questa situazione, tre aspetti si presentano cruciali per la Fiat: a) l'accento sulle utilitarie a basso consumo e basso inquinamento; b) la joint venture con la Tata per entrare nel mercato indiano, e verso il resto dell'Asia (e al cui supporto è connessa parte della linea di credito citata) ; c) l'intesa preliminare con la Chrysler per portare il basso consumo e il basso inquinamento nel mercato Usa (e da lì in America Latina). Che cosa porta in dote il Lingotto? Oltre ad aspetti tecnici - le piattaforme per le "city cars" - una produttività relativamente elevata se raffrontata al resto del settore: lo documenta un lavoro del Centro Study Luca D'Agliano (il Working Paper n. 236) disponibile on line da alcuni giorni. È uno studio empirico che non riguarda soltanto la Fiat o la metalmeccanica ma un campione di grandi e medie imprese italiane impegnate in attività internazionali (o perché orientate all'export o perché titolari di investimenti diretti all'estero o dall'estero).
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BROWN INSEGNA, NON SERVE AIUTARE GLI ISTITUTI DELL’EST, Libero 24 gennaio
Negli ultimi mesi – lo sappiamo- i contribuenti degli Usa e di numerosi Paesi europei si sono accollati l’onere d’interventi a favore di banche in serie difficoltà , e le cui attività finanziarie non potevano essere seriamente valutate a ragione della difficoltà d’imputare una valorizzazione a titoli più o meno tossici nei loro portafogli. E’ un costo che i contribuenti paiono disposti a pagare perché i “loro” sistemi bancari riprendano, passata la sbornia, a funzionarie con un buon grado d’efficienza ed a tutelare il risparmio. Ora un gruppo di nove istituti dell’Ue si è rivolto alla Commissione Europea ed alla Banca centrale europea (Bce) perché il supporto Ue venga esteso non solo a banche degli Stati comunitari, inclusi ovviamente i neocomunitari, ma anche a possibili futuri Stati membri dell’Unione come la Serbia e l’Ucraini . Dei nove istituti, due sono italiani, Intesa San Paolo e Unicredit, gli altri austriaci (Raiffersen International, che ha organizzato l’operazione, e Erste Bank), francesi (Société Générale), belgi (Kbc), tedeschi (Swedbank) e greci (Efg Eurobank). Sorprendentemente, il Presidente della Bce Jean-Claude Trichet (ingegnere minerario anche lui, nonché della stessa classe, “promotion”, di Jacques Attali) si è mostrato favorevole ed ha fatto comprendere che la Bce potrebbe esercitare funzioni di vigilanza (ove la richiesta venisse accolta). L’argomento di base presentato a favore degli aiuti non è economico ma politico: “Abbiamo combattuto 50 anni per tirare questi Paesi fuori dal comunismo – dice Herbert Stepic di Raiffersen International – e non possiamo lasciare i sistemi bancari solo nel momento del bisogno”.
Noi, di Libero Mercato, abbiamo tutta la simpatia possibile nei confronti di Paesi che escono dalla tragedia umana, politica, sociale ed economica del comunismo. Non siamo liberal-liberisti dogmatici ma dobbiamo chiederci se tali interventi centreranno il bersaglio. Ci aiutano alcuni studi recenti che riguardano principalmente contesti in cui le regole e le istituzioni sono più solidi che nelle aree in transizione dal piano al mercato. Un lavoro, ancora in corso di pubblicazione di Oren Levintal dell’Università Ebraica di Gerusalemme ( si può chiederlo, a mio nome, all’autore oren.levintal@mail.huji.ac.il) esamina gli effetti “reali” degli shock bancari nei Paesi Ocse. Mediamente durano due anni ed incidono specialmente su attività e comparti che dipendono da finanziamenti esteri. Nei 30 Paesi Ocse una riduzione di un punto percentuale in rendimenti sulle attività bancarie rallentano di 0,30 percentuali il pil per (lo si è detto) circa 24 mesi. Quindi, facciamo attenzione; unicamente se Serbia ed Ucraina (e soci) avessero vasti comparti dipendenti da finanziamenti internazionali, gli shocks avrebbero effetti sulle loro economie reali. Naturalmente, interventi da parte dei contribuenti Ue rappresenterebbero un supporto ai crediti di banche Ue (le nove citate? Il dubbio non può non sorgere) nei confronti d’istituti di Paesi in transizione: più che pubblico o sociale, l’interesse sarebbe di chi si è esposto molto all’Est e nei Balcani.
Pure in questi casi, gli aiuti aiutano (perdonate l’allitterazione)? Un’analisi freschissima del Fondo monetario ("The Use of Blanket Guarantees in Banking Crises", IMF Working Paper No. 08/250 ) di Luc Laeven e Fabian Valencia passa in rassegna 42 episodi di crisi bancarie in cui sono state utilizzate “garanzie pubbliche” (o del Tesoro o della Banca centrale, a seconda dei Paesi). Le conclusioni significative sono tre : a) le “garanzie” aggiungono un costo sostanziale alle ristrutturazioni (spesso necessarie) degli istituti; b) hanno esiti positivi sul mercato interno in quanto fermano o frenano la corsa agli sportelli per ritirare depositi; c) tuttavia “gli obblighi nei confronti dell’estero” non reagiscono alle “garanzie”. Quindi, i nove istituti (se la richiesta li concerne da presso) non nutrano eccessive illusioni; stanno lavorando per il Re di Prussia poiché se gli interventi arrivassero, se ne avvantaggerebbero altri. Ancora più duro un altro lavoro del Fondo monetario (Working Paper n. 08/93) i cui contenuti possono interessare gli uffici studi delle banche più che i nostri lettori, i quali, però, possono essere solleticati dal lavoro di Anatoly Peresetsky e Alexander Karminsky (i nomi russi non traggano in inganno; lavorano ambedue a New York ed il lavoro è il BOFIT Discussion Paper n. 17/2008) in cui si sviscera come Moody’s classifica i titoli bancari. C’è un po’ da mettersi le mani nei capelli poiché il metodo appare così sempliciotto che un operatore informato potrebbe arrivare alle medesime conclusioni dell’agenzia meramente in base a quanto legge sui giornali e sul web.
Infine, diamo un’occhiata agli esiti (sino ad ora) della generosità dei contribuenti Usa ed Ue nei confronti di banche nei guai? E’ prematuro fare riferimento ad analisi tecniche professionali o scientifiche. Indicativi, però, i titoli dei giornali e le relative inchieste: il 19 gennaio il “New York Times” pubblicava un’ampia indagine su come gli aiuti siano andati a rimpinguare il capitale degli istituti senza, però, rendere più facile la morsa creditizia. Lamentele analoghe sulla stampa europea del 20 e 21 gennaio.
Una pausa di riflessione può essere utile a tutti.
Noi, di Libero Mercato, abbiamo tutta la simpatia possibile nei confronti di Paesi che escono dalla tragedia umana, politica, sociale ed economica del comunismo. Non siamo liberal-liberisti dogmatici ma dobbiamo chiederci se tali interventi centreranno il bersaglio. Ci aiutano alcuni studi recenti che riguardano principalmente contesti in cui le regole e le istituzioni sono più solidi che nelle aree in transizione dal piano al mercato. Un lavoro, ancora in corso di pubblicazione di Oren Levintal dell’Università Ebraica di Gerusalemme ( si può chiederlo, a mio nome, all’autore oren.levintal@mail.huji.ac.il) esamina gli effetti “reali” degli shock bancari nei Paesi Ocse. Mediamente durano due anni ed incidono specialmente su attività e comparti che dipendono da finanziamenti esteri. Nei 30 Paesi Ocse una riduzione di un punto percentuale in rendimenti sulle attività bancarie rallentano di 0,30 percentuali il pil per (lo si è detto) circa 24 mesi. Quindi, facciamo attenzione; unicamente se Serbia ed Ucraina (e soci) avessero vasti comparti dipendenti da finanziamenti internazionali, gli shocks avrebbero effetti sulle loro economie reali. Naturalmente, interventi da parte dei contribuenti Ue rappresenterebbero un supporto ai crediti di banche Ue (le nove citate? Il dubbio non può non sorgere) nei confronti d’istituti di Paesi in transizione: più che pubblico o sociale, l’interesse sarebbe di chi si è esposto molto all’Est e nei Balcani.
Pure in questi casi, gli aiuti aiutano (perdonate l’allitterazione)? Un’analisi freschissima del Fondo monetario ("The Use of Blanket Guarantees in Banking Crises", IMF Working Paper No. 08/250 ) di Luc Laeven e Fabian Valencia passa in rassegna 42 episodi di crisi bancarie in cui sono state utilizzate “garanzie pubbliche” (o del Tesoro o della Banca centrale, a seconda dei Paesi). Le conclusioni significative sono tre : a) le “garanzie” aggiungono un costo sostanziale alle ristrutturazioni (spesso necessarie) degli istituti; b) hanno esiti positivi sul mercato interno in quanto fermano o frenano la corsa agli sportelli per ritirare depositi; c) tuttavia “gli obblighi nei confronti dell’estero” non reagiscono alle “garanzie”. Quindi, i nove istituti (se la richiesta li concerne da presso) non nutrano eccessive illusioni; stanno lavorando per il Re di Prussia poiché se gli interventi arrivassero, se ne avvantaggerebbero altri. Ancora più duro un altro lavoro del Fondo monetario (Working Paper n. 08/93) i cui contenuti possono interessare gli uffici studi delle banche più che i nostri lettori, i quali, però, possono essere solleticati dal lavoro di Anatoly Peresetsky e Alexander Karminsky (i nomi russi non traggano in inganno; lavorano ambedue a New York ed il lavoro è il BOFIT Discussion Paper n. 17/2008) in cui si sviscera come Moody’s classifica i titoli bancari. C’è un po’ da mettersi le mani nei capelli poiché il metodo appare così sempliciotto che un operatore informato potrebbe arrivare alle medesime conclusioni dell’agenzia meramente in base a quanto legge sui giornali e sul web.
Infine, diamo un’occhiata agli esiti (sino ad ora) della generosità dei contribuenti Usa ed Ue nei confronti di banche nei guai? E’ prematuro fare riferimento ad analisi tecniche professionali o scientifiche. Indicativi, però, i titoli dei giornali e le relative inchieste: il 19 gennaio il “New York Times” pubblicava un’ampia indagine su come gli aiuti siano andati a rimpinguare il capitale degli istituti senza, però, rendere più facile la morsa creditizia. Lamentele analoghe sulla stampa europea del 20 e 21 gennaio.
Una pausa di riflessione può essere utile a tutti.
IL GOVERNO SI MOBILTA PER IL SETTORE AUTO E STUDIA UN PIANO DA PROPORRE ALL’UE, L'Occidentale 23 gennaio
Se nell’aldilà si potesse sorridere – chi lo sa?- l’economista Robert Sadove (soprannominato “genio e sregolatezza” come l’Edmund Kean di Alexandre Dumas, nella versione riveduta e modernizzata da Jean Paul Sartre) avrebbe l’amaro sorriso di chi ha avuto ragione troppo presto: perse, alcuni decenni fa, la direzione di un importante dipartimento della Banca mondiale per avere prodotto un rapporto in cui si sosteneva che l’industria automobilistica americana non aveva un futuro e che per quella europea il giorno del giudizio sarebbe arrivato soltanto qualche anno più tardi. Detroit insorse. Rumoreggiarono anche i “big europei”. Invece, il povero Bob (temibile giocatore di squash) aveva smentito il detto d’Oscar Wilde secondo cui le previsioni sono difficili unicamente quando concernono il futuro.
Uno dei primi problemi (tra quelli in evidenza sulla scrivania del neo-Presidente Usa Barack Obama) riguarda come evitare il collasso della metalmeccanica americana. L’arcigna Commissione Europea si sta arrabattano in pandette kafkiane per trovare il modo di giustificare aiuti di Stato alla Renault (che allo Stato- quello sarkoziano- comunque appartiene), alla Volkswagen (che, come dice il nome, è del popolo sovrano) e forse anche alla Fiat (pur se Corso Marconi lo smentisce- almeno a chi pone domande precise ed in tono formale).
Veniamo alle vicende nostrane prima di tornare a quelle europee. Da mesi, la lettura dei quotidiani informa il colto e l’inclito che il mercato dell’auto è in forte contrazione – una contrazione destinata ad aggravarsi con la recessione ora prevista per tutto il 2009. La Fiat non distribuirà dividendi (e la Fondazione Agnelli dovrà ridurre il proprio programma di ricerche e studi). Corso Marconi starebbe anzi negoziando una linea di credito di 5 miliardi d’euro con un consorzio internazionale di banche, per sostenere la modernizzazione di alcune linee e la joint venture con l’indiana Tata – non l’eventuale accordo con la Chrysler. Che l’azienda sia (come il resto del settore) in difficoltà non lo nasconde lo stesso Presidente di Confindustria, . Emma Marcegaglia, la quale ha sottolineato, il 18 gennaio, che servono "aiuti a tutti i settori che fanno efficienza energetica, risparmio energetico e riduzione delle emissioni inquinanti". Insomma non si pensi solo all'industria dell'auto, ma la metalmeccanica resta in prima fila tra i settori manifatturieri.
Nei primi giorni della settimana che inizia il 26 gennaio, Governo e parti sociali faranno il punto sul problema per giungere ad una posizione da presentare a Bruxelles quando si terrà una sessione del Consiglio dei Ministri dell’Industria e della Concorrenza per delineare una strategia Ue. Al momento, la sessione ordinaria è calendarizzata per il 5-6 marzo, ma potrebbe essere anticipata o se ne potrebbe tenere una ad hoc sull’auto. Francia e Germania – secondo quanto risulta a L’Occidentale – sono unite nel richiedere misure interventiste da modellarsi su quelle al vaglio del Congresso Usa. La ragione ufficiale è che il mercato atlantico è ormai integrato – specialmente in comparti come la metalmeccanica- e che le imprese europee verrebbero penalizzate (e nell’Ue e nei mercati terzi) rispetto a Detroit. La motivazione più sostanziale è che temono per le loro industrie automobilistiche molto di più di quanto Roma , e Torino, abbiano paura per la Fiat.
In pratica, si dovrà trovare un equilibrio molto delicato tra il neo-colbertismo e le libertà di mercato. L’Italia ha un ruolo speciale poiché è alla guida del G8 (e quindi potrebbe essere il mediatore interatlantico). Una linea da tenere in conto è proprio quella indicata da Emma Mercegaglia: sostegno sì ma all’innovazione diretta al risparmio energetico ed alla riduzione d’emissioni meno inquinanti. E, aggiungerei, in un lasso di tempo chiaramente definito (nonché auspicabilmente limitato).
Uno dei primi problemi (tra quelli in evidenza sulla scrivania del neo-Presidente Usa Barack Obama) riguarda come evitare il collasso della metalmeccanica americana. L’arcigna Commissione Europea si sta arrabattano in pandette kafkiane per trovare il modo di giustificare aiuti di Stato alla Renault (che allo Stato- quello sarkoziano- comunque appartiene), alla Volkswagen (che, come dice il nome, è del popolo sovrano) e forse anche alla Fiat (pur se Corso Marconi lo smentisce- almeno a chi pone domande precise ed in tono formale).
Veniamo alle vicende nostrane prima di tornare a quelle europee. Da mesi, la lettura dei quotidiani informa il colto e l’inclito che il mercato dell’auto è in forte contrazione – una contrazione destinata ad aggravarsi con la recessione ora prevista per tutto il 2009. La Fiat non distribuirà dividendi (e la Fondazione Agnelli dovrà ridurre il proprio programma di ricerche e studi). Corso Marconi starebbe anzi negoziando una linea di credito di 5 miliardi d’euro con un consorzio internazionale di banche, per sostenere la modernizzazione di alcune linee e la joint venture con l’indiana Tata – non l’eventuale accordo con la Chrysler. Che l’azienda sia (come il resto del settore) in difficoltà non lo nasconde lo stesso Presidente di Confindustria, . Emma Marcegaglia, la quale ha sottolineato, il 18 gennaio, che servono "aiuti a tutti i settori che fanno efficienza energetica, risparmio energetico e riduzione delle emissioni inquinanti". Insomma non si pensi solo all'industria dell'auto, ma la metalmeccanica resta in prima fila tra i settori manifatturieri.
Nei primi giorni della settimana che inizia il 26 gennaio, Governo e parti sociali faranno il punto sul problema per giungere ad una posizione da presentare a Bruxelles quando si terrà una sessione del Consiglio dei Ministri dell’Industria e della Concorrenza per delineare una strategia Ue. Al momento, la sessione ordinaria è calendarizzata per il 5-6 marzo, ma potrebbe essere anticipata o se ne potrebbe tenere una ad hoc sull’auto. Francia e Germania – secondo quanto risulta a L’Occidentale – sono unite nel richiedere misure interventiste da modellarsi su quelle al vaglio del Congresso Usa. La ragione ufficiale è che il mercato atlantico è ormai integrato – specialmente in comparti come la metalmeccanica- e che le imprese europee verrebbero penalizzate (e nell’Ue e nei mercati terzi) rispetto a Detroit. La motivazione più sostanziale è che temono per le loro industrie automobilistiche molto di più di quanto Roma , e Torino, abbiano paura per la Fiat.
In pratica, si dovrà trovare un equilibrio molto delicato tra il neo-colbertismo e le libertà di mercato. L’Italia ha un ruolo speciale poiché è alla guida del G8 (e quindi potrebbe essere il mediatore interatlantico). Una linea da tenere in conto è proprio quella indicata da Emma Mercegaglia: sostegno sì ma all’innovazione diretta al risparmio energetico ed alla riduzione d’emissioni meno inquinanti. E, aggiungerei, in un lasso di tempo chiaramente definito (nonché auspicabilmente limitato).
giovedì 22 gennaio 2009
AIDA DI WILSON TORNA INTIMISTA COME FU AL TEATRO DEL CAIRO Milano Finanza 22 gennaio
L’inaugurazione della stagione 2009 del Teatro dell’Opera di Roma era molto attesa perché segna l’inizio dell’attività di un nuovo direttore artistico (Nicola Sani), votato alla musica contemporanea ed al “teatro di regia”. E’, inoltre, il primo spettacolo di un cartellone basato su collaborazioni internazionali (e con tre “prime” mondiali). Infine riporta, dopo 25 anni al teatro lirico della capitale, il regista texano Robert Wilson. La scelta è caduta sul titolo più convenzionale (“Aida” di Giuseppe Verdi) ma sulla produzione meno convenzionale: un Egitto appena accennato da alcuni elementi scenici, una regia bidimensionale (ossia senza giochi di prospettive) in cui interpreti e masse (anche esse essenziali) guardano il pubblico ed i movimenti sono ispirati ai geroglifici egiziani ed al teatro “Nô” giapponese. Grandi giochi di luci che esprimono stati d’animo, in linea con la musica. Lo spettacolo, raffinatissimo, è a Roma sino al 30 gennaio (si può anche vedere al Covent Garden di Londra e a La Monnaie di Bruxelles che lo co-producono). Il pubblico della “prima” si è diviso: l’abitualmente sonnolento teatro Costanzi è stato subissato da applausi e fischi (ed anche urla) di spettatori favorevoli e contrari alla messa in scena. Alla fine, hanno prevalso i primi.
La regia, le scene e le luci di Wilson, i costumi di Jacques Reynaud e la coreografia di Johah Bokaer sono un modo nuovo di leggere “Aida” come opera non solo intimista (così la concepì Verdi per un teatro, quello del Cairo, che ospitava non più di 700 spettatori) ma soprattutto altamente stilizzata e molto moderna.
Tuttavia, la direzione musicale di Daniele Oren (osannato dal pubblico romano) appare scollata da quanto avviene in scena; tempi veloci, accenti forti, nessun presagio novecentesco che si avverte nella complessa partitura verdiana. Un maestro concertatore come Kazushi Ono (alla guida de La Monnaie) avrebbe reso meglio gli eleganti giochi visivi di Robert Wilson.
Per le voci, si è chiamato ad un cast internazionale. La cinese Hui He ha trionfato nel ruolo della protagonista (ottenendo l’applauso anche di chi contestava Wilson): ha un timbro chiarissimo, vasta estensione, perfetta dizione. Salvatore Licita, stella assoluta del Metropolitan, torna a Roma dopo dieci anni; una sbavatura nell’aria iniziale (che lo ha costretto a scivolare da un “do”acuto in un falsetto) ma encomiabile nel terzo atto (terrificante per i tenori). Giovanna Casolla ha completato la propria trasformazione da soprano drammatico a mezzo- soprano; le gioverebbe un maggior controllo del volume. Ambrogio Maestri mantiene un’alta qualità. Carlo Colombara è un capo dei sacerdoti di livello.
La regia, le scene e le luci di Wilson, i costumi di Jacques Reynaud e la coreografia di Johah Bokaer sono un modo nuovo di leggere “Aida” come opera non solo intimista (così la concepì Verdi per un teatro, quello del Cairo, che ospitava non più di 700 spettatori) ma soprattutto altamente stilizzata e molto moderna.
Tuttavia, la direzione musicale di Daniele Oren (osannato dal pubblico romano) appare scollata da quanto avviene in scena; tempi veloci, accenti forti, nessun presagio novecentesco che si avverte nella complessa partitura verdiana. Un maestro concertatore come Kazushi Ono (alla guida de La Monnaie) avrebbe reso meglio gli eleganti giochi visivi di Robert Wilson.
Per le voci, si è chiamato ad un cast internazionale. La cinese Hui He ha trionfato nel ruolo della protagonista (ottenendo l’applauso anche di chi contestava Wilson): ha un timbro chiarissimo, vasta estensione, perfetta dizione. Salvatore Licita, stella assoluta del Metropolitan, torna a Roma dopo dieci anni; una sbavatura nell’aria iniziale (che lo ha costretto a scivolare da un “do”acuto in un falsetto) ma encomiabile nel terzo atto (terrificante per i tenori). Giovanna Casolla ha completato la propria trasformazione da soprano drammatico a mezzo- soprano; le gioverebbe un maggior controllo del volume. Ambrogio Maestri mantiene un’alta qualità. Carlo Colombara è un capo dei sacerdoti di livello.
LOHENGRIN E LA VITTORIA DI QUELLA EUROPA’, Il Domenicale 24 gennaio
Il 24 gennaio s’inaugura la stagione 2009 del Teatro Massimo di Palermo. L’evento ha una duplice valenza: a) dopo un periodo di difficoltà, il teatro è risanato grazie sia ad abili operazioni organizzative (lo guida un sovrintendente in cattedra all’ateneo palermitano ma di scuola rigorosamente americana) ed un programma di co-produzioni nazionali ed internazionali; c) si mette in scena “Lohengrin” di Richard Wagner (in co-produzione con il Teatro Carlo Felice di Genova, dove approderà tra alcuni mesi), lavoro che mancava da lustri dalla Sicilia (a causa del grande sforzo produttivo che richiede) e che , nonostante sia stato concepito a composto a metà Ottocento e tratti di una vicenda situata attorno all’Anno Mille, è oggi quanto mai attuale. Il suo fulcro centrale, infatti, è un doppio scontro di civiltà, per utilizzare il lessico di Samuel Huntington: tra l’Europa in cerca di coesione e d’unità, da un canto, e l’invasione degli ungaro-unni, dall’altro, nonché tra varie forme di cristianesimo, da un lato, ed il paganesimo, dall’altro. Il paganesimo – inoltre –alberga, in “Lohengrin” nell’Europa cristianizzata, oltre che tra gli ungano-unni (nel fondale dalla prima all’ultima nota, ma mai in scena). Il messaggio politico di un Wagner fuggiasco – su di lui pendeva una condanna a morte in tutti gli Stati tedeschi per avere partecipato, a fianco dell’anarchico Bakunin, ai moti del 1848- è chiaro: la minaccia al nostro interno è più insidiosa (e più forte) di quella dell’esterno tanto che è la prima, non la seconda, a scatenare il dramma finale.
E’ essenziale tenerlo presente perché “la grande opera romantica in tre atti” (così la chiamò l’autore) è stata per decenni rappresentata come una vicenda d’amore – inteso come fiducia totale e completa dell’uno nell’altra e viceversa- in cui un primo soprano lirico è di sublime virtù e sta per unire la propria vita ad un nobile tenore eroico, ma viene messa sulla strada del dubbio da un perfido secondo soprano drammatico (o mezzo-soprano), assecondato da un baritono, non malvagio di suo, ma facile a farsi traviare dalla diabolica moglie. In questa lettura, consueta anche in messe in scena recenti in Italia (ed abituale in quelle in traduzione ritmica italiana), si perde quel contesto storico così importante per Wagner – si veda la lettera a Hans von Bulow del giugno 1867 in occasione delle rappresentazioni a Monaco dell’opera, precedentemente messa in scena in edizioni semplificate senza la supervisione dell’autore. Il Re, i Brabantini, i Sassoni, gli Ungaro-Unni sono visti, in queste letture, come elementi decorativi da grand opéra, pretesti per cori e scene di massa (nonché per cavalli sul palcoscenico).
La vicenda si svolge a Anversa, nel Brabante (quindi a rigor di geopolitica al di fuori della Germania – quando Wagner la concepì la città e la regione facevano parte del Belgio). Enrico I di Sassonia (detto l’Uccellatore, chiamato “Pater Patriae et Imperator Romanorum” ma non ancora ufficialmente “Kaiser”) vi si è recato per arruolare i Brabantinì contro una possibile invasione barbarica, allo spirare di un patto novennale di tregua con gli Ungaro-unnici. Wagner si attarda, nella lettera citata, sulle indicazioni di scena (e sui costumi): compatti i Sassoni e gli altri tedeschi (tutti con le stesse uniformi e gli stessi stendardi), divisi in potentati (ciascuno con la propria uniforme ed il proprio stendardo) i Brabantini (che hanno appena perso tanto la loro guida quanto il di lui erede). La richiesta di Enrico I è accolta con freddezza dai vari clan, sino all’arrivo di Lohengrin, accettato come loro “Protettore”, ed al suo deciso appoggio alla difesa contro la minacciata invasione. “Il contrasto tra il mondo dei Sassoni e quello dei Brabantini – scrive Ernest Newman nella sua monumentale opera in sei volumi su Wagner – è di conseguenza fattore drammatico che merita di essere reso il più chiaro possibile allo spettatore”. Sono due modi differenti di intendere lo “scontro di civiltà” tra europei, da un lato, e Ungaro-unnici, dall’altro. I Brabantini si sentono più lontani (geopoliticamente) dalle frontiere e meno a rischio; non sono pronti all’”impresa temeraria”, devono essere convinti da Lohengrin, venuto da “una terra lontana” e di cui non conoscono neppure il nome.
Ed è proprio in seno ai Brabantini che si svolge il secondo “scontro di civiltà”. La “religio” – lo nota Theodor Adorno – è l’altro fulcro dell’opera. I Brabantini sono cristiani, ma di conversione relativamente recente. La stessa, pur purissima Elsa, il soprano lirico di stupenda e struggente virtù, diventa, nella prima scena del terzo atto, spergiura scatenando il dramma. Mario Bortolotto – nel suo relativamente recente, e magistrale, “Wagner, l’Oscuro” (Adelphi) sottolinea che “solo Lohengrin aderisce alla verità graalica, all’esoterismo tradizionale” della Rivelazione mentre il cristianesimo professato dagli altri, soprattutto in Brabante ma anche alla corte di Re Enrico, è francamente esoterico. In Brabante, il cristianesimo convive con vecchie forme di “paganesimo”, quelle praticate (con magie, filtri e l’insinuazione del dubbio rispetto alla Verità) dal perfido secondo soprano (o mezzo-soprano) e di cui è succube, prima, il baritono e, poi, lo stesso soprano lirico. Di tale coesistenza si ha testimonianza non soltanto nelle Deutsche Sagen dei fratelli Grimm (una delle letture preferite di Wagner) ma anche in ricerche storiche recenti quali quelle di Margaret Mitchell (The Gods of Witches) : il normanno Re Nollo, dopo essersi convertito, faceva grandi donazioni alle chiese cristiane ma sacrificava i cristiani prigionieri agli dei pagani; nella sala del trono di Re Redwald c’erano due altari , uno più grande per la Messa, ed uno più piccolo per offrire sacrifici ai demoni.
In “Lohegrin” s’intrecciano, mirabilmente, questi elementi, ciascuno appartenente ad un universo musicale differente, benché legate da un continuo flusso orchestrale dove dominano gli archi: a) il contesto storico dell’unità del popoli tedeschi di fronte all’invasione (diatonico quasi sino alla spasimo); b) il contrasto tra varie declinazioni del cristianesimo (e la visione lontana del Santo Gral e della Verità), dei Sassoni e dei Brabantini ed il paganesimo di Ortrud e Telramund, il soprano, o mezzo soprano, perfido ed il baritono (denso di anticipi cromatici); e c) l’incapacità di Elsa, il soprano lirico, di trasformare in vero amore il suo innamoramento per Lohengrin (con tratti ancorati allo Spontini del periodo prussiano) e di assimilare a pieno la Verità.
E’ naturale chiedersi chi vince “il doppio scontro”? Nelle letture tradizionali, i protagonisti sono perdenti: Lohengrin deve tornare alla “terra lontana”, Elsa spira di infarto, Telramund viene ucciso dal protagonista per legittima difesa, Orturd additata come strega. In una lettura che tiene conto del doppio scontro di civiltà, la vittoria è univoca e certa: i Brabantini si uniscono ai Sassoni contro l’invasione, i “pagani” sono sconfitti, Elsa afferra la verità, e Lohengrin è chiamato a portare il verbo in altre lande.
E’ essenziale tenerlo presente perché “la grande opera romantica in tre atti” (così la chiamò l’autore) è stata per decenni rappresentata come una vicenda d’amore – inteso come fiducia totale e completa dell’uno nell’altra e viceversa- in cui un primo soprano lirico è di sublime virtù e sta per unire la propria vita ad un nobile tenore eroico, ma viene messa sulla strada del dubbio da un perfido secondo soprano drammatico (o mezzo-soprano), assecondato da un baritono, non malvagio di suo, ma facile a farsi traviare dalla diabolica moglie. In questa lettura, consueta anche in messe in scena recenti in Italia (ed abituale in quelle in traduzione ritmica italiana), si perde quel contesto storico così importante per Wagner – si veda la lettera a Hans von Bulow del giugno 1867 in occasione delle rappresentazioni a Monaco dell’opera, precedentemente messa in scena in edizioni semplificate senza la supervisione dell’autore. Il Re, i Brabantini, i Sassoni, gli Ungaro-Unni sono visti, in queste letture, come elementi decorativi da grand opéra, pretesti per cori e scene di massa (nonché per cavalli sul palcoscenico).
La vicenda si svolge a Anversa, nel Brabante (quindi a rigor di geopolitica al di fuori della Germania – quando Wagner la concepì la città e la regione facevano parte del Belgio). Enrico I di Sassonia (detto l’Uccellatore, chiamato “Pater Patriae et Imperator Romanorum” ma non ancora ufficialmente “Kaiser”) vi si è recato per arruolare i Brabantinì contro una possibile invasione barbarica, allo spirare di un patto novennale di tregua con gli Ungaro-unnici. Wagner si attarda, nella lettera citata, sulle indicazioni di scena (e sui costumi): compatti i Sassoni e gli altri tedeschi (tutti con le stesse uniformi e gli stessi stendardi), divisi in potentati (ciascuno con la propria uniforme ed il proprio stendardo) i Brabantini (che hanno appena perso tanto la loro guida quanto il di lui erede). La richiesta di Enrico I è accolta con freddezza dai vari clan, sino all’arrivo di Lohengrin, accettato come loro “Protettore”, ed al suo deciso appoggio alla difesa contro la minacciata invasione. “Il contrasto tra il mondo dei Sassoni e quello dei Brabantini – scrive Ernest Newman nella sua monumentale opera in sei volumi su Wagner – è di conseguenza fattore drammatico che merita di essere reso il più chiaro possibile allo spettatore”. Sono due modi differenti di intendere lo “scontro di civiltà” tra europei, da un lato, e Ungaro-unnici, dall’altro. I Brabantini si sentono più lontani (geopoliticamente) dalle frontiere e meno a rischio; non sono pronti all’”impresa temeraria”, devono essere convinti da Lohengrin, venuto da “una terra lontana” e di cui non conoscono neppure il nome.
Ed è proprio in seno ai Brabantini che si svolge il secondo “scontro di civiltà”. La “religio” – lo nota Theodor Adorno – è l’altro fulcro dell’opera. I Brabantini sono cristiani, ma di conversione relativamente recente. La stessa, pur purissima Elsa, il soprano lirico di stupenda e struggente virtù, diventa, nella prima scena del terzo atto, spergiura scatenando il dramma. Mario Bortolotto – nel suo relativamente recente, e magistrale, “Wagner, l’Oscuro” (Adelphi) sottolinea che “solo Lohengrin aderisce alla verità graalica, all’esoterismo tradizionale” della Rivelazione mentre il cristianesimo professato dagli altri, soprattutto in Brabante ma anche alla corte di Re Enrico, è francamente esoterico. In Brabante, il cristianesimo convive con vecchie forme di “paganesimo”, quelle praticate (con magie, filtri e l’insinuazione del dubbio rispetto alla Verità) dal perfido secondo soprano (o mezzo-soprano) e di cui è succube, prima, il baritono e, poi, lo stesso soprano lirico. Di tale coesistenza si ha testimonianza non soltanto nelle Deutsche Sagen dei fratelli Grimm (una delle letture preferite di Wagner) ma anche in ricerche storiche recenti quali quelle di Margaret Mitchell (The Gods of Witches) : il normanno Re Nollo, dopo essersi convertito, faceva grandi donazioni alle chiese cristiane ma sacrificava i cristiani prigionieri agli dei pagani; nella sala del trono di Re Redwald c’erano due altari , uno più grande per la Messa, ed uno più piccolo per offrire sacrifici ai demoni.
In “Lohegrin” s’intrecciano, mirabilmente, questi elementi, ciascuno appartenente ad un universo musicale differente, benché legate da un continuo flusso orchestrale dove dominano gli archi: a) il contesto storico dell’unità del popoli tedeschi di fronte all’invasione (diatonico quasi sino alla spasimo); b) il contrasto tra varie declinazioni del cristianesimo (e la visione lontana del Santo Gral e della Verità), dei Sassoni e dei Brabantini ed il paganesimo di Ortrud e Telramund, il soprano, o mezzo soprano, perfido ed il baritono (denso di anticipi cromatici); e c) l’incapacità di Elsa, il soprano lirico, di trasformare in vero amore il suo innamoramento per Lohengrin (con tratti ancorati allo Spontini del periodo prussiano) e di assimilare a pieno la Verità.
E’ naturale chiedersi chi vince “il doppio scontro”? Nelle letture tradizionali, i protagonisti sono perdenti: Lohengrin deve tornare alla “terra lontana”, Elsa spira di infarto, Telramund viene ucciso dal protagonista per legittima difesa, Orturd additata come strega. In una lettura che tiene conto del doppio scontro di civiltà, la vittoria è univoca e certa: i Brabantini si uniscono ai Sassoni contro l’invasione, i “pagani” sono sconfitti, Elsa afferra la verità, e Lohengrin è chiamato a portare il verbo in altre lande.
mercoledì 21 gennaio 2009
UN'"AIDA" INTIMISTA APRE LA STAGIONE LIRICA ROMANA, Il Velino 21 gennaio
Il vostro “chroniqueur”, melomane errante dall’età della pubertà (o giù di lì), ha avuto modo di assistere ad una rappresentazione al Teatro dell’Opera del Cairo nel lontano gennaio 1969, in occasione del centenario dell’apertura dell’edificio – un grazioso teatro all’italiana di 7-800 posti con tre ordini di palchi e barcacce, distrutto da un incendio all’inizio degli Anni ’70. Per avere un’idea un teatro come il Nuovo di Spoleto od il Valle di Roma. Il Teatro dell’Opera del Cairo – si sa- non era stato inaugurato dall’opera commissionata, in seguito ad una gara internazionale, per la bisogna (per l’appunto, “Aida” di Giuseppe Verdi, commissionata in seguito ad una gara a cui erano stati invitati anche Gounod e Wagner) ma con un “Rigoletto”, organizzato da quelle che allora si chiamavano “compagnie di giro”: La guerra franco-prussiana aveva reso impossibile il trasporto, via mare, di scene e costumi di “Aida” (confezionati a Parigi). La prima impressione che dava il teatro era il suo carattere intimo (ed un’acustica magnifica, ai livelli di quel prodigio che è il Massimo Bellini di Catania). Lo stesso palcoscenico era poco profondo e con un boccascena di dimensioni tutt’altro che grande; se sulla scena le masse (coro e comparse) potevano essere una cinquantina, il golfo mistico poteva ospitare 50-60 orchestrali al massimo. Nel gennaio 1969 non si rappresentava “Aida”, ma un allestimento di un teatro minore russo di un’opera poco nota del repertorio tedesco portata in tournée in “Paesi amici” (si era in piena guerra fredda e l’Egitto – pardon, la Repubblica Araba Unita era chiaramente schierata).
Una visita, anche una sola, al teatro che la ha commissionata rende immediatamente evidente che l’”Aida” (quale pensata da Verdi) era molto differente da quella della vulgata dei magniloquenti allestimenti correnti. Lo chiarisce la lettura della partitura: un esempio, non si richiedono quattro (od addirittura sei) arpe, ma due (di cui una in scena, in modo da potere essere suonate da una sola arpista). “Aida” è, in effetti, un’opera intimista (anche se le scene a due o tre personaggi sono incastonate in momenti corali ed un grande concertato chiude il secondo atto) . E’ la prima delle tre opere “perfette” di Verdi, che non aveva ancora assistito al “Lohengrin”, ma aveva già superato il melodramma e si era posto su un sentiero non molto differente dal musikdrama wagneriano: flusso orchestrale ininterrotto nelle sette scene (pur se ancora divise in “numeri”), equilibrio mirabile tra golfo mistico e voci, integrazione completa dei ballabili nelle singole scene, impiego del declamato, ed utilizzazione di motivi conduttori in forma non mnemonica ma sintattica (si pensi alle “riprese” del notturno d’archi ascoltato inizialmente nel preludio e ripetuto, con varie modificazioni, in più momenti dell’opera). Ad un esame attento, la partitura è densa di inquietudini e presagi novecenteschi – non quelli che sarebbero stati sviluppati in Germania ma quelli che avrebbe coltivato “La Giovane Scuola”, pur in aperta polemica con la poetica verdiana-
Tra il 2001 ed il 2004, la Fondazione Toscanini ha portato in giro in Italia ed all’estero un’”Aida” quasi come la avrebbe voluta Verdi; il “quasi” è d’obbligo a motivo di alcuni tagli ai ballabili (per ragioni di economia e di trasportabilità). L’allestimento nasceva da un’idea geniale di quel diavolaccio di Franco Zeffirelli (autore di regia e scene; i bei costumi sono di Anna Anni). Scene dipinte di un Egitto vagamente art déco, una recitazione accuratissima da parte di un cast giovane (se ne alternano tre) scelto tramite una selezione internazionale, cinquanta brillanti (e giovani) orchestrali, danze ridotte al minimo (ma con Carla Fracci nel ruolo di sacerdotessa). Non era un “Aida” iconografica: puntava sul dramma d’amore e gelosia (con un Amneris principessina capricciosa ed impudente) più sul contesto politico-spettacolare. Questa lettura faceva sì che si comprenda ciascuna parola (anzi ciascuna intonazione) di un libretto meno banale di quanto presentato nella vulgata su Verdi.
E’ utile ricordare l’”Aida” “intimista di Zeffirelli proprio per sottolinearne le differenze rispetto all’”Aida” “intimista” con le regia, le scene e le luci di Robert Wilson, i costumi di Jacques Reynaud e la coreografia di Johah Bokaer con il quale la sera del 20 gennaio è stata inaugurata la stagione 2009 del Teatro dell’Opera di Roma. Una stagione molto attesa in quanto dovrebbe rappresentare una vera e propria svolta del teatro lirico della capitale e farlo tornare al primato di un tempo: un cartellone basato su collaborazioni internazionali (e con tre “prime” mondiali), grande enfasi sul “teatro di regia”, nuovi titoli coniugati con titoli antichi in vesti innovativa.
In un teatro spesso incolore ove non addormentato, la sera della “prima” ci sono state vivaci polemiche. Ben vengano: l’opera, come qualsiasi espressione artistica, vive e si alimenta di dibattito ed anche di polemiche, se necessario, prossime allo scontro (sempre che si resti in un ambito civile).
E’ un’”Aida” “intimista” che si giustappone a quella di Zefferilli (di cui probabilmente Wilson non ha visto neanche un DvD). Stilizzato e moderno Bob Wilson tanto quanto prezioso e liberty Zeffirelli. L’Egitto è appena accennato da alcuni elementi scenici. La visione è bidimensionale, non tridimensionale (onon ci sono, quindi, giochi di prospettive ed cui interpreti e masse ) guardano il pubblico. La recitazione è ispirata ai geroglifici egiziani ed al teatro “Nô” giapponese. I giochi di luci esprimono stati d’animo, in linea con la musica. Lo spettacolo è a Roma sino al 30 gennaio (si può anche vedere al Covent Garden di Londra e a La Monnaie di Bruxelles che lo co-producono). di 700 spettatori) ma soprattutto altamente stilizzata e molto moderna.
Uno spettacolo il cui grande rigore stride con la direzione musicale di Daniele Oren (osannato dal pubblico romano, specialmente da quello più tradizionalista). Oren è ormai un routinier di “Aida” in grandi spazi come l’Arena di Verona: affretta i tempi, utilizza la bacchetta ed il braccio con forza, guarda al melodramma non ai presagi novecenteschi. Un maestro concertatore come Kazushi Ono (alla guida de La Monnaie) o Zubin Mehta avrebbe integrato la direzione musicale meglio con gli eleganti giochi visivi di Robert Wilson.
La cinese Hui He ha trionfato nel ruolo della protagonista (ottenendo l’applauso anche di chi contestava Wilson): ha un timbro chiarissimo, vasta estensione, perfetta dizione. Salvatore Licita, star del Metropolitan, torna a Roma dopo dieci anni; una sbavatura in “Celeste Aida” lo ha costretto a scivolare da un “do”acuto in un falsetto ma ha tenuto benissimo il terzo atto (terrificante per i tenori- fu fatale a Alagna alla Scala). Giovanna Casolla è ormai un mezzo-soprano; volume, a volte, eccessivo Ambrogio Maestri mantiene un’alta qualità. Carlo Colombara è un capo dei sacerdoti di livello.
In breve, uno spettacolo da consigliare e che indica un nuovo corso che potrà non piacere a tutti ma intende svegliare il teatro della capitale e riportarlo ai fasti di un tempo.
Una visita, anche una sola, al teatro che la ha commissionata rende immediatamente evidente che l’”Aida” (quale pensata da Verdi) era molto differente da quella della vulgata dei magniloquenti allestimenti correnti. Lo chiarisce la lettura della partitura: un esempio, non si richiedono quattro (od addirittura sei) arpe, ma due (di cui una in scena, in modo da potere essere suonate da una sola arpista). “Aida” è, in effetti, un’opera intimista (anche se le scene a due o tre personaggi sono incastonate in momenti corali ed un grande concertato chiude il secondo atto) . E’ la prima delle tre opere “perfette” di Verdi, che non aveva ancora assistito al “Lohengrin”, ma aveva già superato il melodramma e si era posto su un sentiero non molto differente dal musikdrama wagneriano: flusso orchestrale ininterrotto nelle sette scene (pur se ancora divise in “numeri”), equilibrio mirabile tra golfo mistico e voci, integrazione completa dei ballabili nelle singole scene, impiego del declamato, ed utilizzazione di motivi conduttori in forma non mnemonica ma sintattica (si pensi alle “riprese” del notturno d’archi ascoltato inizialmente nel preludio e ripetuto, con varie modificazioni, in più momenti dell’opera). Ad un esame attento, la partitura è densa di inquietudini e presagi novecenteschi – non quelli che sarebbero stati sviluppati in Germania ma quelli che avrebbe coltivato “La Giovane Scuola”, pur in aperta polemica con la poetica verdiana-
Tra il 2001 ed il 2004, la Fondazione Toscanini ha portato in giro in Italia ed all’estero un’”Aida” quasi come la avrebbe voluta Verdi; il “quasi” è d’obbligo a motivo di alcuni tagli ai ballabili (per ragioni di economia e di trasportabilità). L’allestimento nasceva da un’idea geniale di quel diavolaccio di Franco Zeffirelli (autore di regia e scene; i bei costumi sono di Anna Anni). Scene dipinte di un Egitto vagamente art déco, una recitazione accuratissima da parte di un cast giovane (se ne alternano tre) scelto tramite una selezione internazionale, cinquanta brillanti (e giovani) orchestrali, danze ridotte al minimo (ma con Carla Fracci nel ruolo di sacerdotessa). Non era un “Aida” iconografica: puntava sul dramma d’amore e gelosia (con un Amneris principessina capricciosa ed impudente) più sul contesto politico-spettacolare. Questa lettura faceva sì che si comprenda ciascuna parola (anzi ciascuna intonazione) di un libretto meno banale di quanto presentato nella vulgata su Verdi.
E’ utile ricordare l’”Aida” “intimista di Zeffirelli proprio per sottolinearne le differenze rispetto all’”Aida” “intimista” con le regia, le scene e le luci di Robert Wilson, i costumi di Jacques Reynaud e la coreografia di Johah Bokaer con il quale la sera del 20 gennaio è stata inaugurata la stagione 2009 del Teatro dell’Opera di Roma. Una stagione molto attesa in quanto dovrebbe rappresentare una vera e propria svolta del teatro lirico della capitale e farlo tornare al primato di un tempo: un cartellone basato su collaborazioni internazionali (e con tre “prime” mondiali), grande enfasi sul “teatro di regia”, nuovi titoli coniugati con titoli antichi in vesti innovativa.
In un teatro spesso incolore ove non addormentato, la sera della “prima” ci sono state vivaci polemiche. Ben vengano: l’opera, come qualsiasi espressione artistica, vive e si alimenta di dibattito ed anche di polemiche, se necessario, prossime allo scontro (sempre che si resti in un ambito civile).
E’ un’”Aida” “intimista” che si giustappone a quella di Zefferilli (di cui probabilmente Wilson non ha visto neanche un DvD). Stilizzato e moderno Bob Wilson tanto quanto prezioso e liberty Zeffirelli. L’Egitto è appena accennato da alcuni elementi scenici. La visione è bidimensionale, non tridimensionale (onon ci sono, quindi, giochi di prospettive ed cui interpreti e masse ) guardano il pubblico. La recitazione è ispirata ai geroglifici egiziani ed al teatro “Nô” giapponese. I giochi di luci esprimono stati d’animo, in linea con la musica. Lo spettacolo è a Roma sino al 30 gennaio (si può anche vedere al Covent Garden di Londra e a La Monnaie di Bruxelles che lo co-producono). di 700 spettatori) ma soprattutto altamente stilizzata e molto moderna.
Uno spettacolo il cui grande rigore stride con la direzione musicale di Daniele Oren (osannato dal pubblico romano, specialmente da quello più tradizionalista). Oren è ormai un routinier di “Aida” in grandi spazi come l’Arena di Verona: affretta i tempi, utilizza la bacchetta ed il braccio con forza, guarda al melodramma non ai presagi novecenteschi. Un maestro concertatore come Kazushi Ono (alla guida de La Monnaie) o Zubin Mehta avrebbe integrato la direzione musicale meglio con gli eleganti giochi visivi di Robert Wilson.
La cinese Hui He ha trionfato nel ruolo della protagonista (ottenendo l’applauso anche di chi contestava Wilson): ha un timbro chiarissimo, vasta estensione, perfetta dizione. Salvatore Licita, star del Metropolitan, torna a Roma dopo dieci anni; una sbavatura in “Celeste Aida” lo ha costretto a scivolare da un “do”acuto in un falsetto ma ha tenuto benissimo il terzo atto (terrificante per i tenori- fu fatale a Alagna alla Scala). Giovanna Casolla è ormai un mezzo-soprano; volume, a volte, eccessivo Ambrogio Maestri mantiene un’alta qualità. Carlo Colombara è un capo dei sacerdoti di livello.
In breve, uno spettacolo da consigliare e che indica un nuovo corso che potrà non piacere a tutti ma intende svegliare il teatro della capitale e riportarlo ai fasti di un tempo.
martedì 20 gennaio 2009
OBBLIGAZIONI, OCCUPAZIONE E ALIMENTARI: LE TRE PROSSIME CRISI , Libero 20 gennaio
Gli economisti, soprattutto quelli italiani, hanno un difetto: la miopia. Cresciuti alla scuola della sintesi neo-keynesiana s’interessano principalmente al breve periodo e, tranne rare eccezioni, ignorano l’economia classica (che invece guardava ai processi di crescita nel lungo periodo). Oggi sono tutti avviluppati nella crisi finanziaria ed esprimere giudizi sui suoi effetti sull’economia reale nel 2009 – 2010 (vedi la politica dei giornalisti, più che dei protagonisti, sulle stime nell’ultimo “Bollettino” della Banca d’Italia). Perdono di vista le tre grandi crisi prossime venture. Tracciamone i lineamenti in base a studi recenti e facilmente disponibili a chi vuole approfondirli. Il quadro generale è presentato nel saggio di Wynne Godley, Dimitri Papadimitriou e Gennaro Zezza “Prospects for the United States and the World:A Crisis that Conventional Remedies Cannot Resolve” pubblicato nel numero di dicembre 2008 di “Strategic Analysis”, rivista disponibile unicamente in abbonamento ma che nel 2006 ha previsto , con notevole accuratezza, la crisi finanziaria “subprime” apparente già l’estate 2007 ma esplosa, con tutto il suo fragore, nell’estate 2008. In breve, il lavoro documenta che gli stimoli fisco monetari ed i bassi tassi d’interesse non riusciranno a risollevare il settore finanziario americano ed a porre le basi per la ripresa degli Usa e degli altri: il tasso di disoccupazione Usa (oggi al 7,2% della forza lavoro) minaccia di porsi al 10% alla fine del 2010.
I tassi nominali d’interesse hanno raggiunto, dai due lati dell’Atlantico, livelli così bassi da non avere precedenti, a ragione di decisioni più politiche che tecniche. Li manterranno? “Strategic Analysis” non risponde apertamente alla domanda. Solleva molti dubbi in proposito uno studio di Bourse Global Equities – una società franco-americana specializzata su questi temi: collocare la propria liquidità in titoli di Stato Usa con un rendimento nominale del 2% “rappresenta una speculazione non un investimento”. In effetti, solamente nell’area dell’euro, i Tesori dovranno emettere 20 miliardi d’euro di titoli la settimana nel prossimo futuro (unicamente per rifinanziare il proprio indebitamento in essere); una cifra ancora maggiore sarà necessaria negli Usa, specialmente se Obama avrà il consenso del Congresso sul programma d’espansione della spesa pubblica che ha tratteggiato in questi ultimi giorni.
Di conseguenza, già all’inizio del 2010 i tassi sui buoni del tesoro decennali (dei due lati dell’Atlantico) potranno tornare sul 5-5% l’anno, innescando un crollo della valorizzazione dello stock dei titoli a reddito fisso di chi oggi scappa dal capitale di rischio e dall’immobiliare e si rifugia in quello che è sempre parso come l’impiego meno rischioso (anche se a rendimento contenuto). Nei corridoi della Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea si parla di “crack” prossimo venturo dell’obbligazionario. Interessante a riguardo, lo studio di un economista d’estrazione cinese , Daxue Wang, ma che da anni lavora al Dipartimento Finanza dell’Università della Navarra. Il lavoro (pubblicato dall’Iese di Barcellona, documento di lavoro n. 777 , esamina l’andamento di 21 mercati finanziari con metodi statistici molto avanzati, rilevando come dalla crisi asiatica del 1997-98 ci sia stato un rafforzamento dell’”effetto mandria” (herd effect) – gli investitori, come i buoi, si seguono a vicenda, correndo oggi verso un obbligazionario nonostante la minaccia di dare pesanti delusioni tra 18-24 mesi.
La seconda crisi riguarda l’occupazione. Negli Usa, “Strategic Analysis” – si è visto – parla di un tasso di disoccupazione del 10% tra 12-18 mesi. Rajarshi Majumber ha pubblicato un saggio di spessore nell’ultimo fascicolo del 2008 dell’”Indian Journal of Labour Economics”. In India il tasso di disoccupazione è oggi al 6,8% (in Italia al 6,7%): la sua ipotesi, documentata con stime econometriche, è che la doppia crisi (della finanza e dell’economia reale) provocherà nell’arco di due-tre anni un forte aumento dei senza lavoro pure in Paesi (come Singapore) che da più di 30 anni non conoscono il fenomeno, ed importano manodopera. L’isteresi (ossia il lasso temporale tra ripresa dell’economia e quello dell’occupazione) si presenta più resiliente di quella successiva alla recessione del 1979-82 per due ragioni concomitanti: a) lo spessore della contrazione del pil e del commercio; e b) l’integrazione economica internazionale. Le due componenti si rafforzano a vicenda nell’allungare i tempi del rilancio dell’occupazione (dopo quello dell’economia reale).
La terza crisi è, quella, al tempo stesso più insidiosa e più celata: il cibo. Molti colleghi economisti dormono tra due guanciali, leggendo l’indice in dollari Usa dei prezzi alimentari computato dall’Economist Intelligence Uniti: una riduzione del 20% negli ultimi 12 mesi. Il passato, però, non si proietta necessariamente nel futuro. Il vostro “choniqueur” ha lavorato per diversi anni sia sullo sviluppo rurale sia sulle colture di piantagione e da esportazione tanto in Banca Mondiale quanto in Fao. A Washington, sede della Banca Mondiale, non si ama sfiorare l’argomento. Non così a Roma dove i documenti Fao sono eloquenti. Nel 2008 (mentre detonava la crisi finanziaria mondiale) il mondo ha goduto condizioni agro-climatiche eccezionali: la raccolta cerealicola mondiale ha raggiunto i 2,2 miliardi di tonnellate (con un aumento del 5,3% rispetto al 2007). Ciò ha consentito di rimpinguare gli stock (giunti a livello preoccupante il 30 giugno scorso). Chi s’intende d’economia agricola sa che, salvo la scoperta di nuove tecniche (“la rivoluzione verde” e l’”agribusiness” degli Anni 70), risultati così straordinari non si riproducono per diversi raccolti di seguito. Al contrario, è necessario mettere la terra a maggese, farla riposare, se non si vogliono compromettere le rese nel medio e lungo termine. Philippe Chalmin dell’Università Paris-Porte Dauphine (un covo di matematici non di sociologi radicali) dice: “Il mondo ha fame e ne avrà ancora di più, con e senza crisi finanziaria ed economica”. Ascoltiamolo.
I tassi nominali d’interesse hanno raggiunto, dai due lati dell’Atlantico, livelli così bassi da non avere precedenti, a ragione di decisioni più politiche che tecniche. Li manterranno? “Strategic Analysis” non risponde apertamente alla domanda. Solleva molti dubbi in proposito uno studio di Bourse Global Equities – una società franco-americana specializzata su questi temi: collocare la propria liquidità in titoli di Stato Usa con un rendimento nominale del 2% “rappresenta una speculazione non un investimento”. In effetti, solamente nell’area dell’euro, i Tesori dovranno emettere 20 miliardi d’euro di titoli la settimana nel prossimo futuro (unicamente per rifinanziare il proprio indebitamento in essere); una cifra ancora maggiore sarà necessaria negli Usa, specialmente se Obama avrà il consenso del Congresso sul programma d’espansione della spesa pubblica che ha tratteggiato in questi ultimi giorni.
Di conseguenza, già all’inizio del 2010 i tassi sui buoni del tesoro decennali (dei due lati dell’Atlantico) potranno tornare sul 5-5% l’anno, innescando un crollo della valorizzazione dello stock dei titoli a reddito fisso di chi oggi scappa dal capitale di rischio e dall’immobiliare e si rifugia in quello che è sempre parso come l’impiego meno rischioso (anche se a rendimento contenuto). Nei corridoi della Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea si parla di “crack” prossimo venturo dell’obbligazionario. Interessante a riguardo, lo studio di un economista d’estrazione cinese , Daxue Wang, ma che da anni lavora al Dipartimento Finanza dell’Università della Navarra. Il lavoro (pubblicato dall’Iese di Barcellona, documento di lavoro n. 777 , esamina l’andamento di 21 mercati finanziari con metodi statistici molto avanzati, rilevando come dalla crisi asiatica del 1997-98 ci sia stato un rafforzamento dell’”effetto mandria” (herd effect) – gli investitori, come i buoi, si seguono a vicenda, correndo oggi verso un obbligazionario nonostante la minaccia di dare pesanti delusioni tra 18-24 mesi.
La seconda crisi riguarda l’occupazione. Negli Usa, “Strategic Analysis” – si è visto – parla di un tasso di disoccupazione del 10% tra 12-18 mesi. Rajarshi Majumber ha pubblicato un saggio di spessore nell’ultimo fascicolo del 2008 dell’”Indian Journal of Labour Economics”. In India il tasso di disoccupazione è oggi al 6,8% (in Italia al 6,7%): la sua ipotesi, documentata con stime econometriche, è che la doppia crisi (della finanza e dell’economia reale) provocherà nell’arco di due-tre anni un forte aumento dei senza lavoro pure in Paesi (come Singapore) che da più di 30 anni non conoscono il fenomeno, ed importano manodopera. L’isteresi (ossia il lasso temporale tra ripresa dell’economia e quello dell’occupazione) si presenta più resiliente di quella successiva alla recessione del 1979-82 per due ragioni concomitanti: a) lo spessore della contrazione del pil e del commercio; e b) l’integrazione economica internazionale. Le due componenti si rafforzano a vicenda nell’allungare i tempi del rilancio dell’occupazione (dopo quello dell’economia reale).
La terza crisi è, quella, al tempo stesso più insidiosa e più celata: il cibo. Molti colleghi economisti dormono tra due guanciali, leggendo l’indice in dollari Usa dei prezzi alimentari computato dall’Economist Intelligence Uniti: una riduzione del 20% negli ultimi 12 mesi. Il passato, però, non si proietta necessariamente nel futuro. Il vostro “choniqueur” ha lavorato per diversi anni sia sullo sviluppo rurale sia sulle colture di piantagione e da esportazione tanto in Banca Mondiale quanto in Fao. A Washington, sede della Banca Mondiale, non si ama sfiorare l’argomento. Non così a Roma dove i documenti Fao sono eloquenti. Nel 2008 (mentre detonava la crisi finanziaria mondiale) il mondo ha goduto condizioni agro-climatiche eccezionali: la raccolta cerealicola mondiale ha raggiunto i 2,2 miliardi di tonnellate (con un aumento del 5,3% rispetto al 2007). Ciò ha consentito di rimpinguare gli stock (giunti a livello preoccupante il 30 giugno scorso). Chi s’intende d’economia agricola sa che, salvo la scoperta di nuove tecniche (“la rivoluzione verde” e l’”agribusiness” degli Anni 70), risultati così straordinari non si riproducono per diversi raccolti di seguito. Al contrario, è necessario mettere la terra a maggese, farla riposare, se non si vogliono compromettere le rese nel medio e lungo termine. Philippe Chalmin dell’Università Paris-Porte Dauphine (un covo di matematici non di sociologi radicali) dice: “Il mondo ha fame e ne avrà ancora di più, con e senza crisi finanziaria ed economica”. Ascoltiamolo.
PER RIPARTIRE BISOGNA ATTIVARE LE LIBERALIZZAZIONI, Il Tempo 20 gennaio
Le stime della Commissione Europea suggeriscono che la recessione dell'economia reale italiana sarà molto più pesante di quanto si pensasse solo poche settimane fà. Il Tempo lo aveva annunciato già in dicembre fornendo anche alcune spiegazioni. Tuttavia, la pubblicazione dei dati di Bruxelles impone di tornare sul tema e di sollevar pure un interrogativo.
In primo luogo, le previsioni della Commissione sono il risultato di una modellistica econometrica assodata , anche se, in passato, si è mostrata meno affidabile di strumenti come Multimod e Link (utilizzati rispettivamente dal Fondo monetario e dalle Nazioni Unite) nel quantizzare il breve e medio periodo. Sarebbe, però, futile entrare in un dibattito econometrico, tale da interessare unicamente gli econometrici e qualche altro addetto ai lavori. Oscar Wilde amava affermare che le previsioni sono difficili se riguardano il futuro. La recessione , però, c'è e morde. Lo sanno settori come la metalmeccanica e distretti industriali come quelli del Veneto, dell'Emilia-Romagna e del'Adriatico,ossia di Marche e d' Abruzzi (mentre Toscana e Lazio sono, per il momento, appena sfiorate). La ragione della pesantezza della contrazione dell'economia reale è paradossalmente la stessa che ha consentito al settore finanziario di restare relativamente al riparo dello tsumani abbattutsi sul resto del mondo. Un'economia finanziaria densa di vincoli e di norme prudenziali è stata una difesa della tempesta finanziaria. I vincoli e le restrizioni hanno invece agito come elemento che ha aggravato l'andamento dell'economia reale. Su questo quadro si staglia, poi, come l'ombra di Banco, l'aumento della pressione tributaria voluto dal Governo Prodi; hanno già espresso un giudizio di merito gli elettori. A tale giudizio, non c'è nulla da aggiungere.
In secondo luogo, occorre chiedersi come uscirne, come fare ripartire l'economia italiana. E' questo il tema centrale di politica economica. Un saggio recente di Edmund Phelps, che conosce a fondo il nostro Paese, afferma che gli stimoli di bilancio e di politica monetaria (anche ove fossero fattibili) non avrebbero effetti sufficienti. Il traino può essere fornito principalmente da una forte iiniezioni di liberalizzazioni. Teniamo presente che in una fase in cui molti Governi nazionalizzano (o irizzano) siamo riusciti a privatizzare Alitalia e la rete pubblica di sale cinematografice e stiamo portando in porto le privatizzazioni di Cinecittà Studios e di Tirrenia. Per incidere occorre operare in materie che sono di competenza di Regioni, Province e Comuni più che delle autorità centrali di Governo. Una conferenza nazionale potrebbe forse dare l'impulso. Oppure una sessione speciale nell'ambito del dibattito parlamentare sul federalismo.
Veniamo, infine, all'interrogativo: perché la Banca d'IItalia ha anticipato di qualche giorno le previsioni della Commissione Europea, verosimilmente a sua conoscenza da tempo in seguito sia ad una prassi consolidata (e salutare) di consultazioni sia dell'amicizia personale tra il Direttore Generale agli Affari Economici e Finanziari dell'Esecutivo di Bruxelles, Marco Butti, e i piani alti di Palazzo Koch (oltre che in Via Gerusalemme 7 a Bologna)? Nella nota birreria "La Morte Subite" della capitale belga si maligna che c'era chi voleva fare il Pierino, strizzando un occhio a chi oggi è all'opposizione. Sono pettegolezzi a cui non dare importanza. Molti italiani, però, qualche spiegazione vorrebbero averla.
In primo luogo, le previsioni della Commissione sono il risultato di una modellistica econometrica assodata , anche se, in passato, si è mostrata meno affidabile di strumenti come Multimod e Link (utilizzati rispettivamente dal Fondo monetario e dalle Nazioni Unite) nel quantizzare il breve e medio periodo. Sarebbe, però, futile entrare in un dibattito econometrico, tale da interessare unicamente gli econometrici e qualche altro addetto ai lavori. Oscar Wilde amava affermare che le previsioni sono difficili se riguardano il futuro. La recessione , però, c'è e morde. Lo sanno settori come la metalmeccanica e distretti industriali come quelli del Veneto, dell'Emilia-Romagna e del'Adriatico,ossia di Marche e d' Abruzzi (mentre Toscana e Lazio sono, per il momento, appena sfiorate). La ragione della pesantezza della contrazione dell'economia reale è paradossalmente la stessa che ha consentito al settore finanziario di restare relativamente al riparo dello tsumani abbattutsi sul resto del mondo. Un'economia finanziaria densa di vincoli e di norme prudenziali è stata una difesa della tempesta finanziaria. I vincoli e le restrizioni hanno invece agito come elemento che ha aggravato l'andamento dell'economia reale. Su questo quadro si staglia, poi, come l'ombra di Banco, l'aumento della pressione tributaria voluto dal Governo Prodi; hanno già espresso un giudizio di merito gli elettori. A tale giudizio, non c'è nulla da aggiungere.
In secondo luogo, occorre chiedersi come uscirne, come fare ripartire l'economia italiana. E' questo il tema centrale di politica economica. Un saggio recente di Edmund Phelps, che conosce a fondo il nostro Paese, afferma che gli stimoli di bilancio e di politica monetaria (anche ove fossero fattibili) non avrebbero effetti sufficienti. Il traino può essere fornito principalmente da una forte iiniezioni di liberalizzazioni. Teniamo presente che in una fase in cui molti Governi nazionalizzano (o irizzano) siamo riusciti a privatizzare Alitalia e la rete pubblica di sale cinematografice e stiamo portando in porto le privatizzazioni di Cinecittà Studios e di Tirrenia. Per incidere occorre operare in materie che sono di competenza di Regioni, Province e Comuni più che delle autorità centrali di Governo. Una conferenza nazionale potrebbe forse dare l'impulso. Oppure una sessione speciale nell'ambito del dibattito parlamentare sul federalismo.
Veniamo, infine, all'interrogativo: perché la Banca d'IItalia ha anticipato di qualche giorno le previsioni della Commissione Europea, verosimilmente a sua conoscenza da tempo in seguito sia ad una prassi consolidata (e salutare) di consultazioni sia dell'amicizia personale tra il Direttore Generale agli Affari Economici e Finanziari dell'Esecutivo di Bruxelles, Marco Butti, e i piani alti di Palazzo Koch (oltre che in Via Gerusalemme 7 a Bologna)? Nella nota birreria "La Morte Subite" della capitale belga si maligna che c'era chi voleva fare il Pierino, strizzando un occhio a chi oggi è all'opposizione. Sono pettegolezzi a cui non dare importanza. Molti italiani, però, qualche spiegazione vorrebbero averla.
lunedì 19 gennaio 2009
L’ITALIA PUO’ DARE IL BUON ESEMPIO SOLO SE RISOLVE I SUOI PROBLEMI Il Tempo 19 gennaio
Roma ospiterà il 29 marzo il G8 sui temi dell’occupazione e del lavoro. La riunione sarà estesa ad un totale di 14 Paesi - si tratterà, dunque, di un G14 che coinciderà quasi con il G20 dei Capi di Stato e di Governo in programma a Londra. E’ un evento importante che merita la massima attenzione e che un dovrebbe risolversi in monologhi alterni e in comunicati densi d’auspici ma privi di programmi concreti.
I problemi dell’occupazione e del lavoro minacciano di durare molto più a lungo di quelli della crisi finanziaria e della stessa recessione. Nel numero di dicembre di “Strategic Analysis”, un saggio di Wynne Godley, Dimitri Papadimitriou e Gennaro Zezza documenta che, nonostante la manovra espansionista in atto (e che sarà verosimilmente accentuata da Obama) il saggio di disoccupazione Usa (oggi al 7,2% della forza lavoro) arriverà al 10% entro il 2010. Il fenomeno dell’isteresi (ossia del trascinamento o del lasso temporale tra ripresa dell’economia e quello dell’occupazione) oggi appare più grave di quello che avvenne dopo la recessione del 1979-82 per due ragioni concomitanti: a) lo spessore della contrazione del pil e del commercio; e b) l’integrazione economica internazionale. Lo afferma, con ricchezza di dati e di analisi, Rajarshi Majumber in un saggio di spessore nell’ultimo fascicolo del 2008 dell’”Indian Journal of Labour Economics”. In questo quadro, peggiorano, in tutto il mondo, le condizioni di lavoro: salari, precariato, ammortizzatori. Nel prossimo decennio, il tema centrale delle politiche economiche nazionali ed internazionali sarà la ripartizione del pil tra i redditi da capitale e da lavoro – una situazione analoga a quella in cui Usa ed Europa furono alla fine degli Anni 60.
Le risposte che in giugno potrà dare la conferenza annuale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) saranno deboli se non arriveranno segnali forti dal G8-G14 lavoristico-occupazionale di fine marzo a Roma. L’Italia, che ha il compito di presiedere la riunione, sarà tanto più in grado di fornire indirizzo quanto meglio mostrerà di avere la propria casa in ordine. Per questo motivo, è cruciale il buon esito del confronto in atto su contrattazione e ammortizzatori – confronto da estendere alla previdenza (sia alla definizione dei nuovi coefficienti sia al ripensamento dei tempi della transizione da metodo retributivo a metodo contributivo – in Svezia realizzato in 3 anni mentre in Italia se ne sono previsti da 18 a circa 30, includendo nel computo le pensioni di reversibilità.
Un’Italia con il welfare ben equilibrato potrebbe proporre un piano internazionale per l’occupazione, analogo al World Employment Program lanciato dall’Oil negli Anni 70 (quando le crisi petrolifere facevano temere una crisi mondiale dell’occupazione) , supportato da una più rigorosa, e meglio monitorata, applicazione delle convenzioni internazionali sul lavoro al fine di contenere il “dumping sociale”.
I problemi dell’occupazione e del lavoro minacciano di durare molto più a lungo di quelli della crisi finanziaria e della stessa recessione. Nel numero di dicembre di “Strategic Analysis”, un saggio di Wynne Godley, Dimitri Papadimitriou e Gennaro Zezza documenta che, nonostante la manovra espansionista in atto (e che sarà verosimilmente accentuata da Obama) il saggio di disoccupazione Usa (oggi al 7,2% della forza lavoro) arriverà al 10% entro il 2010. Il fenomeno dell’isteresi (ossia del trascinamento o del lasso temporale tra ripresa dell’economia e quello dell’occupazione) oggi appare più grave di quello che avvenne dopo la recessione del 1979-82 per due ragioni concomitanti: a) lo spessore della contrazione del pil e del commercio; e b) l’integrazione economica internazionale. Lo afferma, con ricchezza di dati e di analisi, Rajarshi Majumber in un saggio di spessore nell’ultimo fascicolo del 2008 dell’”Indian Journal of Labour Economics”. In questo quadro, peggiorano, in tutto il mondo, le condizioni di lavoro: salari, precariato, ammortizzatori. Nel prossimo decennio, il tema centrale delle politiche economiche nazionali ed internazionali sarà la ripartizione del pil tra i redditi da capitale e da lavoro – una situazione analoga a quella in cui Usa ed Europa furono alla fine degli Anni 60.
Le risposte che in giugno potrà dare la conferenza annuale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) saranno deboli se non arriveranno segnali forti dal G8-G14 lavoristico-occupazionale di fine marzo a Roma. L’Italia, che ha il compito di presiedere la riunione, sarà tanto più in grado di fornire indirizzo quanto meglio mostrerà di avere la propria casa in ordine. Per questo motivo, è cruciale il buon esito del confronto in atto su contrattazione e ammortizzatori – confronto da estendere alla previdenza (sia alla definizione dei nuovi coefficienti sia al ripensamento dei tempi della transizione da metodo retributivo a metodo contributivo – in Svezia realizzato in 3 anni mentre in Italia se ne sono previsti da 18 a circa 30, includendo nel computo le pensioni di reversibilità.
Un’Italia con il welfare ben equilibrato potrebbe proporre un piano internazionale per l’occupazione, analogo al World Employment Program lanciato dall’Oil negli Anni 70 (quando le crisi petrolifere facevano temere una crisi mondiale dell’occupazione) , supportato da una più rigorosa, e meglio monitorata, applicazione delle convenzioni internazionali sul lavoro al fine di contenere il “dumping sociale”.
L’OPERA ITALIANA MUORE SE RESTA PER INIZIATI Il Velino 19 gennaio
L’Italia è stata uno dei rari Paesi al mondo dove il teatro in musica “alto” – l’opera, in parole povere – è stato un’intrapresa commerciale (ossia fornita non da Re e da Principi ma da impresari che operavano per profitto risultato a sua volta degli incassi resi possibili dal pubblico pagante). Ciò è avvenuto due volte. Sempre per motivi politici. Nella Venezia della Controriforma (dove il bigottismo ufficiale imperava), l’opera commerciale mostrava un mondo lascivo, peccaminoso e corrotto (quello per intenderci dei lavori di Cavalli & soci). E nell’Ottocento sino al primo scorcio del Novecento dove l’opera era strumento per fare l’Italia, prima, e per fare gli italiani, poi. Dal 1921 quando Toscanini rese le chiavi della Scala al Sindaco di Milano l’opera è diventata un’intrapresa che vive grazie a sovvenzioni. E’ afflitta dal “morbo di Baumol che prende il nome da un economista americano, William Baumol, il quale lo ha teorizzato, nel lontano 1961, in un libro scritto a quattro mani con il collega Willian Bowens (“Perfoming Arts: the Economic Dilemma”). Il libro (considerato una pietra miliare nel settore) riguardava le arti sceniche e sosteneva l’esigenza economica di supporto pubblico per impedire che a noi, e soprattutto, alle prossime generazioni ne sia vietata la fruizione. Le arti sceniche – non soltanto la lirica di cui Baumol e sua moglie sono appassionati ma anche la sinfonica, la cameristica ed il teatro di prosa – sono a tecnologia fissa: ci vogliono oggi gli stessi musicisti per un quartetto di Haydn, una sinfonia di Beethoven ed l’opera considerata da Adorno come l’espressione più completa del genio occidentale (“I maestri cantori di Norinberga” di Wagner) di quanti ce ne volevano quando vennero realizzate. Non potendo, quindi, fruire della riduzione di costi di produzione connessa al progresso tecnologico perderebbero sempre più competitività e verrebbero spiazzate da muse meno bizzarre e meno altere, più tecnologiche ma meno appassionanti. Con tale spiazzamento – dice, e modellizza, Baumol – si perde il nesso con il nostro passato. Ed una parte importante di quanto si può e si deve lasciare in eredità ai nostri figli e nipoti.
Baumol non è un socialdemocratico e probabilmente neanche un “liberal”- i suoi testi profumano d’amore per il mercato. Documenta, però, come senza l’intervento pubblico, il “morbo” che da lui prende il nome comporti la morte di mal sottile della lirica, della sinfonica, della cameristica ed anche di buona parte del teatro di qualità. Si sarebbe rimasti in mondo di “vaudeville”, di “isole dei famosi”, di giochi a premio. Alla lunga anche il rock ed il pop “d’arte” (si pesi al mirabile jazz di Shostakovic) sarebbero stati contagiati e travolti. Nel 1993, Baumol è tornato sul tema con un altro librone “The Next 25 Years of Public Choice” in cui analizza come il “morbo” non riguardi solamente o principalmente le arti sceniche ma tutte le forme di produzione di servizi – come la sanità e l’istruzione- in cui c’è alta intensità di lavoro ed una forte componente relazionale (si guarisce meglio con il medico con cui c’è un rapporto umano, si apprende di più dal docente carico di empatia). Anche in questi casi , sostiene Baumol, l’intervento pubblico è essenziale perché sanità ed istruzione impartite unicamente da macchine (oggi è fattibile) non avrebbero ingredienti (la carica relazionale) tali da raggiungere gli obiettivi più veri e più profondi.
La nuova commissione di un’opera italiana, da parte non di una delle maggiori Fondazioni Liriche ma da un’Accademia d’antiche tradizioni, creata all’inizio del XIX secolo da un gruppo di aristocratici anche allo scopo di mettere in scena, opere che sarebbero state vietate dalla censura papalina, ha aspetti che superano la valenza dello spettacolo e pongono domande sul presente e sul futuro del teatro lirico “nostrano”.
“Freud, Freud, I Love You” di Luca Mosca, su libretto di Gianluigi Melega, prestata al Teatro Olimpico di Roma il 154 gennaio, è un’opera da camera che richiede un piccolo organico, tre cantanti, un mimo e dura circa 40 minuti. Il libretto tratta della passione d’Oskar Kokoschka per Alma Mahler e di come il pittore ricorra alle cure di Freud, senza però trarne gran beneficio. Lo “scherzo musicale” ha una premessa: “Bergasse 19, Una Serata in Casa Freud” (tra le due parti non c’è intervallo) in cui ci s’immagina una soirée musicale privata nella Vienna della “secessione”: brevi pezzi di Anton Webern, i quattro Lieder di Alma Mahler, i cinque Rückert Lieder di Gustav Mahler ed quattro pezzi per clarinetto e pianoforte di Alban Berg. L’ascoltatore scivola dal concerto allo “scherzo” quasi senza accorgersi che si è quasi ad un secolo di distanza. Mosca, però, non rifà solamente il verso alla complessa ed elegante scrittura della Vienna della secessione, ma v’ironizza, specialmente nella parte vocale in cui arie, duetti e terzetti (poco il declamato) sono un vero e proprio gioco tra due secoli. Semplice, ma efficace la regia e l’allestimento scenico (agevolmente trasferibile in altri teatri). Eccellente l’Ensemble. Buone le tre voci, tra cui spicca quella di Roberto Abbondanza.
E’, però, un lavoro intellettualistico, più per addetti che per un folto pubblico pagante, un po’ come la deliziosa “Postcard from Marocco” di Dominick Argento, concepita però per essere rappresentata nel teatrino del Peabody Conservatory della Johns Hopkins University di Baltimora. Il raffronto con Argento è puntuale in quanto la vocalità pur insistendo sul declamato del “chiacchierar cantando” affida un arioso a ciascuno dei protagonisti vocali. Raffinata la scrittura orchestrale, caratterizzata da eleganti contrappunti timbrici degli strumenti a corda agli archi.
Siamo, però, agli antipodi di ciò che offre l'opera contemporanea negli Usa, in Francia e Germania- Ed anche in Italia: si pensi a "Il tempo sospeso nel volo" di Nicola Sani.
Sarebbe utile aprire un dibattito su Il Velino. Negli ultimi anni , oltreoceano, e in molti Paesi europei, si è riportato il pubblico in teatri d’opera per lavori d’autori viventi tramite una nuova ondata di "Literarturoper". Penso a “The bitter tears of Petra von Kant” (“Le lacrime amare di Petra von Kant”) di Gerald Barry, “Thyeste” di Jan van Vljimen, a “Pan”di Marc Monnet. A”Sophie’s Choice” (“La scelta di Sofia”) di Nicholas Maw ed al delizioso “Seven attempted escapes from silence” (“Sette tentativi di fuga dal silenzio”), un libretto di Jonathan Safran Foer messo in musica da sette giovani compositori di Paesi e scuole musicali differenti. Tutti lavori tratti da una base letteraria spesso resa nota dalla trasposizione cinematografica o televisiva e trasformati in teatro in musica tramite un linguaggio al tempo stesso accattivante ed elegante e soprattutto tale da portare pubblico pagante in teatro. Perché in Italia abbiamo importato unicamente "A Streetcar Named Desire" di Previn e “The death of Klinghofer” di Adam tra i lavori di questo genere? E perché non siamo in grado di svilupparne uno autonomo - l'opera di Sani su Borsellino è un'eccezione ed è tratta dalla cronaca non da un romanzo, quella di mio cugino Francesco su L'Isola Ferdinandea era tratta da una breve novella elegante e troppo calligrafica per viaggiare oltre il Teatro Olimpico, la biennale e poche altre sedi specializzate in contemponeità sfrenata.
Baumol non è un socialdemocratico e probabilmente neanche un “liberal”- i suoi testi profumano d’amore per il mercato. Documenta, però, come senza l’intervento pubblico, il “morbo” che da lui prende il nome comporti la morte di mal sottile della lirica, della sinfonica, della cameristica ed anche di buona parte del teatro di qualità. Si sarebbe rimasti in mondo di “vaudeville”, di “isole dei famosi”, di giochi a premio. Alla lunga anche il rock ed il pop “d’arte” (si pesi al mirabile jazz di Shostakovic) sarebbero stati contagiati e travolti. Nel 1993, Baumol è tornato sul tema con un altro librone “The Next 25 Years of Public Choice” in cui analizza come il “morbo” non riguardi solamente o principalmente le arti sceniche ma tutte le forme di produzione di servizi – come la sanità e l’istruzione- in cui c’è alta intensità di lavoro ed una forte componente relazionale (si guarisce meglio con il medico con cui c’è un rapporto umano, si apprende di più dal docente carico di empatia). Anche in questi casi , sostiene Baumol, l’intervento pubblico è essenziale perché sanità ed istruzione impartite unicamente da macchine (oggi è fattibile) non avrebbero ingredienti (la carica relazionale) tali da raggiungere gli obiettivi più veri e più profondi.
La nuova commissione di un’opera italiana, da parte non di una delle maggiori Fondazioni Liriche ma da un’Accademia d’antiche tradizioni, creata all’inizio del XIX secolo da un gruppo di aristocratici anche allo scopo di mettere in scena, opere che sarebbero state vietate dalla censura papalina, ha aspetti che superano la valenza dello spettacolo e pongono domande sul presente e sul futuro del teatro lirico “nostrano”.
“Freud, Freud, I Love You” di Luca Mosca, su libretto di Gianluigi Melega, prestata al Teatro Olimpico di Roma il 154 gennaio, è un’opera da camera che richiede un piccolo organico, tre cantanti, un mimo e dura circa 40 minuti. Il libretto tratta della passione d’Oskar Kokoschka per Alma Mahler e di come il pittore ricorra alle cure di Freud, senza però trarne gran beneficio. Lo “scherzo musicale” ha una premessa: “Bergasse 19, Una Serata in Casa Freud” (tra le due parti non c’è intervallo) in cui ci s’immagina una soirée musicale privata nella Vienna della “secessione”: brevi pezzi di Anton Webern, i quattro Lieder di Alma Mahler, i cinque Rückert Lieder di Gustav Mahler ed quattro pezzi per clarinetto e pianoforte di Alban Berg. L’ascoltatore scivola dal concerto allo “scherzo” quasi senza accorgersi che si è quasi ad un secolo di distanza. Mosca, però, non rifà solamente il verso alla complessa ed elegante scrittura della Vienna della secessione, ma v’ironizza, specialmente nella parte vocale in cui arie, duetti e terzetti (poco il declamato) sono un vero e proprio gioco tra due secoli. Semplice, ma efficace la regia e l’allestimento scenico (agevolmente trasferibile in altri teatri). Eccellente l’Ensemble. Buone le tre voci, tra cui spicca quella di Roberto Abbondanza.
E’, però, un lavoro intellettualistico, più per addetti che per un folto pubblico pagante, un po’ come la deliziosa “Postcard from Marocco” di Dominick Argento, concepita però per essere rappresentata nel teatrino del Peabody Conservatory della Johns Hopkins University di Baltimora. Il raffronto con Argento è puntuale in quanto la vocalità pur insistendo sul declamato del “chiacchierar cantando” affida un arioso a ciascuno dei protagonisti vocali. Raffinata la scrittura orchestrale, caratterizzata da eleganti contrappunti timbrici degli strumenti a corda agli archi.
Siamo, però, agli antipodi di ciò che offre l'opera contemporanea negli Usa, in Francia e Germania- Ed anche in Italia: si pensi a "Il tempo sospeso nel volo" di Nicola Sani.
Sarebbe utile aprire un dibattito su Il Velino. Negli ultimi anni , oltreoceano, e in molti Paesi europei, si è riportato il pubblico in teatri d’opera per lavori d’autori viventi tramite una nuova ondata di "Literarturoper". Penso a “The bitter tears of Petra von Kant” (“Le lacrime amare di Petra von Kant”) di Gerald Barry, “Thyeste” di Jan van Vljimen, a “Pan”di Marc Monnet. A”Sophie’s Choice” (“La scelta di Sofia”) di Nicholas Maw ed al delizioso “Seven attempted escapes from silence” (“Sette tentativi di fuga dal silenzio”), un libretto di Jonathan Safran Foer messo in musica da sette giovani compositori di Paesi e scuole musicali differenti. Tutti lavori tratti da una base letteraria spesso resa nota dalla trasposizione cinematografica o televisiva e trasformati in teatro in musica tramite un linguaggio al tempo stesso accattivante ed elegante e soprattutto tale da portare pubblico pagante in teatro. Perché in Italia abbiamo importato unicamente "A Streetcar Named Desire" di Previn e “The death of Klinghofer” di Adam tra i lavori di questo genere? E perché non siamo in grado di svilupparne uno autonomo - l'opera di Sani su Borsellino è un'eccezione ed è tratta dalla cronaca non da un romanzo, quella di mio cugino Francesco su L'Isola Ferdinandea era tratta da una breve novella elegante e troppo calligrafica per viaggiare oltre il Teatro Olimpico, la biennale e poche altre sedi specializzate in contemponeità sfrenata.
domenica 18 gennaio 2009
RIFORME SOCIALI, FATTE APPOSTA PER SUPERARE LA CRISI ECONOMICA Il Tempo del 18 gennaio
Prima superare la crisi e poi fare le riforme, oppure vicecersai. Pare l’inizio della commedia (Prima le parole, poi la musica) dell’Abbate Casti messa in musica, a fine Settecento, da Antonio Salieri. E’, invece, il tema centrale di un dibattito tra “scuole di pensiero” economico in questo primo scorcio di 2009.
Un testo di culto della sinistra riformista – “Come fare passare le riforme” di Albert Hirschmann (scritto negli Anni 60 ma pubblicato in italiano da Il Mulino nel 1990)- sostiene che le riforme necessitano anni di vacche grasse in quanto i riformatori devono disporre di risorse con cui compensare le categorie danneggiate (anche quando il danno altro non è che una perdita di privilegi). La bassa crescita economica dell’Italia e le severe restrizioni finanziarie sono state addotte (dai Governi dell’epoca) dalla primavera 1996 a quella 2001 e dalla primavera 2006 a quella-2008 come ragioni per posporre riforme o fare marcia indietro su alcune di quelle varate in precedenza (il caso più evidente è la previdenza). Con la crisi finanziaria che s’inasprisce e la stagnazione che diventa recessione siamo in una situazione analoga?
Non necessariamente. Già nel 1991, in un libro a quattro mani con un altro commentatore de Il Tempo (G. Pennisi e G. Scanni “Debito, crisi, sviluppo”, Marsilio) venne dimostrato che in numerosi Paesi la crisi del debito estero dell’ultima fase degli Anni 80 è stata la molla per riforme, spesso coraggiose , quasi sempre predisposte da anni; documentammo anche che tali riforme avevano successo se “socialmente compatibili”. Pochi mesi dopo, tra il settembre 1992 ed il marzo 1993, a fronte di una crisi tale da comportare il deprezzamento del 30% della lira, il Governo Amato attuò un programma di riforme drastiche (previdenza, mercato del lavoro, pubblico impiego). Analogamente, nella primavera 1995, quando la lira traballava e si temeva per l’ingresso dell’Italia nell’euro, il Governo Dini riuscì a fare salpare la riforma della previdenza in cantiere sin dal 1978 (“Commissione Castellino). Ancora, le riforme del mercato del lavoro, degli incentivi industriali, del bilancio dello stato e l’inizio di quelle della scuola ed università sono state varate negli “anni difficili” che hanno fatto seguito all’11 settembre 2001.
Per Governo e Parlamento, quindi, la crisi finanziaria ed economica dovrebbero – come affermava una vecchia pubblicità- mettere un turbo del motore delle riforme, specialmente di quelle “socialmente compatibili”. In primo luogo, tornare allo spirito iniziale del riassetto della previdenza, utilizzando eventuali risparmi per ammortizzatori sociali per i più deboli. In secondo luogo, attuare a pieno la modernizzazione della Pa per renderla più efficiente e più efficace. In terzo luogo, rivedere, una volta per tutte, contabilità speciali e fuori bilancio (spesso fonte di privilegi corporativi) e, se del caso, chiuderle. In quarto luogo, rompere con il “contratto unico” le barriere tra i precari e gli altri. Sono solamente prime indicazioni. Il dibattito è aperto.
Un testo di culto della sinistra riformista – “Come fare passare le riforme” di Albert Hirschmann (scritto negli Anni 60 ma pubblicato in italiano da Il Mulino nel 1990)- sostiene che le riforme necessitano anni di vacche grasse in quanto i riformatori devono disporre di risorse con cui compensare le categorie danneggiate (anche quando il danno altro non è che una perdita di privilegi). La bassa crescita economica dell’Italia e le severe restrizioni finanziarie sono state addotte (dai Governi dell’epoca) dalla primavera 1996 a quella 2001 e dalla primavera 2006 a quella-2008 come ragioni per posporre riforme o fare marcia indietro su alcune di quelle varate in precedenza (il caso più evidente è la previdenza). Con la crisi finanziaria che s’inasprisce e la stagnazione che diventa recessione siamo in una situazione analoga?
Non necessariamente. Già nel 1991, in un libro a quattro mani con un altro commentatore de Il Tempo (G. Pennisi e G. Scanni “Debito, crisi, sviluppo”, Marsilio) venne dimostrato che in numerosi Paesi la crisi del debito estero dell’ultima fase degli Anni 80 è stata la molla per riforme, spesso coraggiose , quasi sempre predisposte da anni; documentammo anche che tali riforme avevano successo se “socialmente compatibili”. Pochi mesi dopo, tra il settembre 1992 ed il marzo 1993, a fronte di una crisi tale da comportare il deprezzamento del 30% della lira, il Governo Amato attuò un programma di riforme drastiche (previdenza, mercato del lavoro, pubblico impiego). Analogamente, nella primavera 1995, quando la lira traballava e si temeva per l’ingresso dell’Italia nell’euro, il Governo Dini riuscì a fare salpare la riforma della previdenza in cantiere sin dal 1978 (“Commissione Castellino). Ancora, le riforme del mercato del lavoro, degli incentivi industriali, del bilancio dello stato e l’inizio di quelle della scuola ed università sono state varate negli “anni difficili” che hanno fatto seguito all’11 settembre 2001.
Per Governo e Parlamento, quindi, la crisi finanziaria ed economica dovrebbero – come affermava una vecchia pubblicità- mettere un turbo del motore delle riforme, specialmente di quelle “socialmente compatibili”. In primo luogo, tornare allo spirito iniziale del riassetto della previdenza, utilizzando eventuali risparmi per ammortizzatori sociali per i più deboli. In secondo luogo, attuare a pieno la modernizzazione della Pa per renderla più efficiente e più efficace. In terzo luogo, rivedere, una volta per tutte, contabilità speciali e fuori bilancio (spesso fonte di privilegi corporativi) e, se del caso, chiuderle. In quarto luogo, rompere con il “contratto unico” le barriere tra i precari e gli altri. Sono solamente prime indicazioni. Il dibattito è aperto.
sabato 17 gennaio 2009
MEGLIO NON ASCOLTARE ATTALI PER RISOLVERE LA CRISI, Libero 17 gennaio
L’Ing. Jacques Attali (non dimentichiamoci che si è laureato in ingegneria mineraria nel 1965) è prolifico (la sua biografia include una dozzina di saggi, alcuni romanzi, le regia di un film e di uno sceneggiato televisivo a puntate) e multiforme (“mente” dell’aristo-socialismo di Mitterand, Presidente della Bers, Consigliere di Stato, ora consulente di Sarkozy). Ci si doveva, quindi, aspettare un “istant book”, in cui, prima di altri, dicesse la sua sulle cause della crisi finanziaria e fornisse ricette all’universo mondo sui rimedi da mettere in atto per superarla. Il libro (“La crise, et après?”, Fayard , pp. 210, € 14) è appena uscito in Francia. La traduzione in italiano è già in corso e se ne prepara un grande battage editoriale-politico in primavera in Italia: dibattiti, convegni, interviste televisive, una puntata (pare) di “Ballarò” e chi più ne ha più ne metta.
Per questo motivo, il vostro “chroniqueur” lo ha letto con attenzione e ha deciso di scrivere alcune considerazioni per i lettori di Libero Mercato. In primo luogo, occorre sottolineare i meriti del lavoro. Attali è un bravo ingegnere: fornisce, dunque, un’analisi sintetica ma esauriente dell’ingegneria utilizzata per trasformare crediti (spesso inesigibili) in prodotti finanziari (da rivendere a terzi ed a terzi di terzi) e del complicato ed opaco sistema di garanzie che si era tentato di mettere in atto a loro supporto. Soprattutto, il libro è una descrizione facilmente comprensibile per i non-iniziati che oggi si arrabattano con i loro promotori finanziari per capire cosa è successo. In secondo luogo, L’Ing. Attali ha sempre avuto un penchant socio-politologico : propone, dunque, un quadro brillante di come negli Usa famiglie a basso reddito medio e travet di banca convinti d’essere finanziari si sono intrappolati in un gioco molto più grande di loro e di cui ignoravano gli aspetti essenziali.
Dove Attali toppa, e toppa male è in quel campo che dovrebbe essere più consono alla sua versatilità : la “political economy” della crisi (ossia spiegare, e forse comprendere, le ragioni in cui si incrociano politica ed economia e sono alla base del fenomeno). L’Ing. Attali scrive “questa prima crisi finanziaria della mondializzazione si spiega in gran misura per l’incapacità della società americana di fornire salari decenti alla classe media”. Il vecchio socialista prevale sull’ingegnere, sul banchiere, sul saggista, sul narratore, sul regista e sulle tante altre casacche indossate dal nostro. Non che la dispersione salariale (accentuatasi negli Usa ed altrove negli ultimi 20 anni) non sia una delle componenti delle determinanti che hanno condotto alla crisi. Ne è stata, però, una minore.
Nel saggio "The Political Economy of the Subprime Crisis: Why Subprime Was so Attractive to its Creators", in uscita nel fascicolo di primavera dello European Journal of Political Economy, Peter Shawn della University of South Wales, analizza con cura le cause sottolineando come il “fallimento della mano pubblica e della regolazione pubblica è stato molto più importante di quello del mercato”. A conclusioni analoghe – in base ad un esame di crisi bancarie in 50 Paesi nel periodo 1990-2005 (ossia prima dell’attuale crisi) giungono Paul Anthony Cashin e Rupa Duttagupta, due economisti del servizio studi del Fondo Monetario in "The Anatomy of Banking Crises" ,IMF Working Paper No. 08/93 , facilmente consultabile on line al sito www.imf.org. L’analisi più compiuta (e che meglio contraddice Attali, e gli attaliani nostrani) viene dal quel simpatico covo di liberisti britannici che è l’Istitute of Economic Affairs; non è frutto del lavoro di economisti e finanziari ma di un giurista, Thomas Vass ("The American Rule of Law and the Collapse of the American Economy" Private Capital Market Working Paper No. 08-07-04 , pure questo lavoro è consultabile on-line). L’analisi giuridica di Vass sottolinea come gli americani abbiamo perso fiducia nel loro sistema regolatorio (lo ha detto anche il Segretario al Tesoro uscente Henry Paulson nella sua intervista di Capodanno al “Financial Times”) e si sono, per questo motivo, gettati in bolle speculative (quella della “new economy” negli Anni 90, e quella del “subprime” nel passato recente), sfociate nella crisi esplosa la primavera scorsa.
Le citazioni potrebbe continuare in quanto la saggistica scientifica e professionale sta cominciando a produrre lavori di spessore sulle determinanti della crisi. Mi sono soffermato su alcuni di questi lavori (e su come siano distanti dall’analisi di Attali) perché non sono affatto convinto che le soluzioni proposte dall’ingegnere vadano nella direzione giusta. Attali propone l’armonizzazione e semplificazione delle regole contabili – un po’come l’acqua calda , su cui sono tutti d’accordo salvo ad accapigliarsi nel determinare a quanti centigradi , o Farenheit, l’acqua si debba considerare calda. Si rende , però, conto che ciò non basta. Sciorina una vera e propria litania di ciò che va dove lo porta il cuore: un maggiore intervento pubblico, meglio ancora se “mondialista”, per ristrutturare lo stock di debiti sovrani (a cominciare da quello Usa) e ripartire con i fondamentali economici e finanziari in ordine; definire regole mondiale per fare sì che “il lavoro in tutte le sue forme , soprattutto in quelle altruiste, sia la sola giustificazione ed appropriazione della ricchezza”. L’universo mondo , quindi, trasformato in una repubblica fondata sul lavoro ove non su una repubblica dei lavoratori. Queste ricette, tenetelo presente, avranno chi le ascolta quando il libro arriverà in Italia – alla vigilia delle elezioni europee.
E’ fin troppo facile dire che si tratta di utopia bella e buona. Meglio replicare con gli argomenti di Peter Shawn: se Pantalone è stato l’origine del problema come pensare che un Pantalone mondiale sia la soluzione? Oppure l’analisi statistica di Paul Anthony Cashin e Rupa Duttagupta (l’Ing. Attali è sempre stato allergico alle statistiche)? Oppure ancora, le argomentazioni giuridiche di Thomas Vass (il Consigliere di Stato Attali non ha mai amato le pandette; ha preferito il cinema non solo come regista – è uno dei maggiori e migliori conoscitori, non professionisti, della storia della settimana arte).
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Per questo motivo, il vostro “chroniqueur” lo ha letto con attenzione e ha deciso di scrivere alcune considerazioni per i lettori di Libero Mercato. In primo luogo, occorre sottolineare i meriti del lavoro. Attali è un bravo ingegnere: fornisce, dunque, un’analisi sintetica ma esauriente dell’ingegneria utilizzata per trasformare crediti (spesso inesigibili) in prodotti finanziari (da rivendere a terzi ed a terzi di terzi) e del complicato ed opaco sistema di garanzie che si era tentato di mettere in atto a loro supporto. Soprattutto, il libro è una descrizione facilmente comprensibile per i non-iniziati che oggi si arrabattano con i loro promotori finanziari per capire cosa è successo. In secondo luogo, L’Ing. Attali ha sempre avuto un penchant socio-politologico : propone, dunque, un quadro brillante di come negli Usa famiglie a basso reddito medio e travet di banca convinti d’essere finanziari si sono intrappolati in un gioco molto più grande di loro e di cui ignoravano gli aspetti essenziali.
Dove Attali toppa, e toppa male è in quel campo che dovrebbe essere più consono alla sua versatilità : la “political economy” della crisi (ossia spiegare, e forse comprendere, le ragioni in cui si incrociano politica ed economia e sono alla base del fenomeno). L’Ing. Attali scrive “questa prima crisi finanziaria della mondializzazione si spiega in gran misura per l’incapacità della società americana di fornire salari decenti alla classe media”. Il vecchio socialista prevale sull’ingegnere, sul banchiere, sul saggista, sul narratore, sul regista e sulle tante altre casacche indossate dal nostro. Non che la dispersione salariale (accentuatasi negli Usa ed altrove negli ultimi 20 anni) non sia una delle componenti delle determinanti che hanno condotto alla crisi. Ne è stata, però, una minore.
Nel saggio "The Political Economy of the Subprime Crisis: Why Subprime Was so Attractive to its Creators", in uscita nel fascicolo di primavera dello European Journal of Political Economy, Peter Shawn della University of South Wales, analizza con cura le cause sottolineando come il “fallimento della mano pubblica e della regolazione pubblica è stato molto più importante di quello del mercato”. A conclusioni analoghe – in base ad un esame di crisi bancarie in 50 Paesi nel periodo 1990-2005 (ossia prima dell’attuale crisi) giungono Paul Anthony Cashin e Rupa Duttagupta, due economisti del servizio studi del Fondo Monetario in "The Anatomy of Banking Crises" ,IMF Working Paper No. 08/93 , facilmente consultabile on line al sito www.imf.org. L’analisi più compiuta (e che meglio contraddice Attali, e gli attaliani nostrani) viene dal quel simpatico covo di liberisti britannici che è l’Istitute of Economic Affairs; non è frutto del lavoro di economisti e finanziari ma di un giurista, Thomas Vass ("The American Rule of Law and the Collapse of the American Economy" Private Capital Market Working Paper No. 08-07-04 , pure questo lavoro è consultabile on-line). L’analisi giuridica di Vass sottolinea come gli americani abbiamo perso fiducia nel loro sistema regolatorio (lo ha detto anche il Segretario al Tesoro uscente Henry Paulson nella sua intervista di Capodanno al “Financial Times”) e si sono, per questo motivo, gettati in bolle speculative (quella della “new economy” negli Anni 90, e quella del “subprime” nel passato recente), sfociate nella crisi esplosa la primavera scorsa.
Le citazioni potrebbe continuare in quanto la saggistica scientifica e professionale sta cominciando a produrre lavori di spessore sulle determinanti della crisi. Mi sono soffermato su alcuni di questi lavori (e su come siano distanti dall’analisi di Attali) perché non sono affatto convinto che le soluzioni proposte dall’ingegnere vadano nella direzione giusta. Attali propone l’armonizzazione e semplificazione delle regole contabili – un po’come l’acqua calda , su cui sono tutti d’accordo salvo ad accapigliarsi nel determinare a quanti centigradi , o Farenheit, l’acqua si debba considerare calda. Si rende , però, conto che ciò non basta. Sciorina una vera e propria litania di ciò che va dove lo porta il cuore: un maggiore intervento pubblico, meglio ancora se “mondialista”, per ristrutturare lo stock di debiti sovrani (a cominciare da quello Usa) e ripartire con i fondamentali economici e finanziari in ordine; definire regole mondiale per fare sì che “il lavoro in tutte le sue forme , soprattutto in quelle altruiste, sia la sola giustificazione ed appropriazione della ricchezza”. L’universo mondo , quindi, trasformato in una repubblica fondata sul lavoro ove non su una repubblica dei lavoratori. Queste ricette, tenetelo presente, avranno chi le ascolta quando il libro arriverà in Italia – alla vigilia delle elezioni europee.
E’ fin troppo facile dire che si tratta di utopia bella e buona. Meglio replicare con gli argomenti di Peter Shawn: se Pantalone è stato l’origine del problema come pensare che un Pantalone mondiale sia la soluzione? Oppure l’analisi statistica di Paul Anthony Cashin e Rupa Duttagupta (l’Ing. Attali è sempre stato allergico alle statistiche)? Oppure ancora, le argomentazioni giuridiche di Thomas Vass (il Consigliere di Stato Attali non ha mai amato le pandette; ha preferito il cinema non solo come regista – è uno dei maggiori e migliori conoscitori, non professionisti, della storia della settimana arte).
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COME SI COSTRUISCE UN OSCAR DELLA LIRICA Il Tempo 17 gennaio
La produzione con cui La Scala ha inaugurato la stagione del 2007 – 2008 è stata il maggior successo, da quando Stéphane Lissner è Sovrintendente e Direttore Artistico della Fondazione. “Tristano ed Isotta” di Richard Wagner non è un titolo che si presta ad un’inaugurazione caratterizzata da mondanità. E’ molto lunga (la “prima” si è stati in teatro circa 6 ore , due intervalli compresi). Nonostante Wagner l’abbia chiamata “Aktion” (ossia “azione”) in tre atti, è molto statica con il primo atto dedicato interamente al racconto (da parte di Isotta) degli antecedenti, il secondo all’agonia visionaria di Tristan ed il terzo ad un lungo duetto. Molti erano scettici del risultato. Tuttavia, la produzione ha avuto il “Premio Abbiati” (L’Oscar della lirica) e torna, a grande richiesta, alla Scala dal 5 al 25 febbraio. Lo spettacolo è stato visto in diretta in 50 cinema (grazie ad un sistema digitale). In differita, è andato su tutti i maggiori canali televisivi italiani e stranieri. Unicamente sul canale di musica classica di “Sky” è stata trasmesso già una dozzina di volte .
Lo spettacolo era affidato (oltre che ad un organico di cantanti di altissimo livello) a due “mostri sacri”: Daniel Barenboim e Patrice Chéreau. Utile ricordare che Barenboim è un pianista eccelso oltre che un famoso direttore d’orchestra ed organizzatore musicale (una sua creatura è l’orchestra Divan in cui giovani musicisti d’Israele e della Palestina suonano fianco a fianco). Chéreau è attore, produttore. regista teatrale e cinematografico oltre che di opere liriche; in effetti, è stato lanciato giovanissimo da regie d’opera ma dal 1995 al 2005 è stato lontano dal teatro in musica.
Il libro riporta i dialoghi, sull’arco di diversi mesi, tra Barenboim e Chéreau su come impostare il “Tristano e Isotta” per la Scala e su come ritoccarlo dopo la prima- viene ritoccato ancora una volta per la ripresa in febbraio. Non è una mera trascrizione. Gastón Fournier-Facio, a lungo coordinatore artistico dell’Accademia di Santa Cecilia ed ora alla Scala, ha organizzato il materiale per temi, evitando di riportarne gli aspetti più tecnici per rendere il libro interessante a chi vuole vedere, dal di dentro, come si costruisce un Oscar della lirica. Barenboim e Chéreau avevano progettato un “Tristano ed Isotta” insieme nel 1979; lo hanno realizzato circa trent’anni più tardi – quindi, con un lavoro attento su testo e partitura. Due terzi del libro riguardano l’interpretazione del testo e la drammaturgia di un’”Aktion” in cui tutto lo svolgimento, tutto interiore, viene letto come un cammino iniziatico verso il morire insieme. Inoltre dei due interpreti principali, Waltraud Meier ha interpretato diecine di volte il ruolo d’Isotta (meno plasmabile, quindi) mentre Ian Storey debuttava in quello di Tristano. Della parte del volume dedicata alla partitura, particolarmente interessante la sezione sulla modulazione e concezione del “tempo”. Un testo essenziale per chi si recherà a Milano per la riprese ed utile a comprendere quanto lavoro intellettuale è necessario per arrivare al risultato atteso.
Daniel Barenboim, Patrice Chéreau “Dialoghi su Musica e Teatro- Tristano e Isotta” (a cura di Gastón Fournier-Facio) Feltrinelli, pp.113 € 18
Lo spettacolo era affidato (oltre che ad un organico di cantanti di altissimo livello) a due “mostri sacri”: Daniel Barenboim e Patrice Chéreau. Utile ricordare che Barenboim è un pianista eccelso oltre che un famoso direttore d’orchestra ed organizzatore musicale (una sua creatura è l’orchestra Divan in cui giovani musicisti d’Israele e della Palestina suonano fianco a fianco). Chéreau è attore, produttore. regista teatrale e cinematografico oltre che di opere liriche; in effetti, è stato lanciato giovanissimo da regie d’opera ma dal 1995 al 2005 è stato lontano dal teatro in musica.
Il libro riporta i dialoghi, sull’arco di diversi mesi, tra Barenboim e Chéreau su come impostare il “Tristano e Isotta” per la Scala e su come ritoccarlo dopo la prima- viene ritoccato ancora una volta per la ripresa in febbraio. Non è una mera trascrizione. Gastón Fournier-Facio, a lungo coordinatore artistico dell’Accademia di Santa Cecilia ed ora alla Scala, ha organizzato il materiale per temi, evitando di riportarne gli aspetti più tecnici per rendere il libro interessante a chi vuole vedere, dal di dentro, come si costruisce un Oscar della lirica. Barenboim e Chéreau avevano progettato un “Tristano ed Isotta” insieme nel 1979; lo hanno realizzato circa trent’anni più tardi – quindi, con un lavoro attento su testo e partitura. Due terzi del libro riguardano l’interpretazione del testo e la drammaturgia di un’”Aktion” in cui tutto lo svolgimento, tutto interiore, viene letto come un cammino iniziatico verso il morire insieme. Inoltre dei due interpreti principali, Waltraud Meier ha interpretato diecine di volte il ruolo d’Isotta (meno plasmabile, quindi) mentre Ian Storey debuttava in quello di Tristano. Della parte del volume dedicata alla partitura, particolarmente interessante la sezione sulla modulazione e concezione del “tempo”. Un testo essenziale per chi si recherà a Milano per la riprese ed utile a comprendere quanto lavoro intellettuale è necessario per arrivare al risultato atteso.
Daniel Barenboim, Patrice Chéreau “Dialoghi su Musica e Teatro- Tristano e Isotta” (a cura di Gastón Fournier-Facio) Feltrinelli, pp.113 € 18
METASTASIO ED IL SUO SETTECENTO ROMANO, Il Domenicale 17 gennaio
La musica (specialmente quella per la scena teatrale) è, spesso, intrinsecamente connessa alle vicende politiche e sociali del mondo in cui è nata. Verdi e Wagner – è noto- sono , al tempo stesso, testimoni e protagonisti dei movimenti d’unità nazionale che hanno caratterizzato l’Ottocento tedesco ed italiano. Più sottili i rapporti tra musica e quegli aspetti della società civile che hanno un ruolo relativamente modesto nelle storiografie politiche più consuete. Ad esempio, le opere di Pier Francesco Cavalli e gli ultimi lavori del suo “maestro” Claudio Monteverdi ci mostrano – da quando sono disponibili edizioni critiche sgrossate dalle interpolazioni ottocentesche ed anche novecentesche – una Venezia lasciva, lussuriosa e libidinosa proprio nell’epoca della Controriforma e dell’Inquisizione: una società, soprattutto, in cui (ad onta delle norme e della storiografia ufficiale) l’eros era strettamente legato alla politica, un vero e proprio strumento per salire nella scala del potere. Ancora meno chiari (ai non addetti ai lavori) i nessi tra musica e politica religiosa (se con questo termine s’intende il confronto tra varie scuole di pensiero nell’ambito della medesima Fede): alcuni anni fa, un saggio monumentale, e magistrale, di Lidia Bramani ha esaminato in dettaglio i messaggi che dai lavori di Wolfgang Amedeus Mozart partivano in direzione di varie correnti del complesso mondo della “massoneria” cristiana, anzi cattolica, che alla fine del Settecento si contendeva, in Austria e in Baviera differenti letture della visione dell’universo, e del potere politico. Ancora più sottili le chiavi che un’edizione critica di una partitura rara offre per meglio comprendere divisioni tra correnti, mediazioni, tensioni e crisi in una società in cui religione e politica erano due facce della stessa medaglia (nello Stato Pontificio nella seconda metà del Settecento, quando l’illuminismo entrava nella cultura alta, la borghesia sfidava l’aristocrazia, la Controriforma perdeva terreno, avanzavano nuovi modi d’interpretare il dovere dell’evangelizzazione e la supremazia della Chiesa – i gesuiti - , si appannavano le vecchie maniere).
A fine 2008, è stata presentata da un editore non piccolo ma piccolissimo (ed i cui meriti sono inversamente proporzionali alle dimensioni), le MOS edizioni (www.petrometastasio.com), l’edizione critica dell’azione sacra di Pietro Metastasio “ Betulia Liberata” quale messa in musica da Pasquale Anfossi nel 1783 per conto dell’Oratorio dei Filippini a Roma (oggi conosciuto come Oratorio Borromini). Di Anfossi è rimasto relativamente poco, pur se dall’epistolario di Mozart (che lo considerava “molto cognito”) si apprende che il salisburghese lo apprezzasse tant da includerlo tra i suoi maestri. Il lavoro di Metastasio (basato sulla vicenda biblica di Giuditta ed Oloferne) era già stato messo in musica da musicisti oggi molto più conosciuti dell’Anfossi (ad esempio, da Nicolò Jommelli e da Benedetto Leoni). L’interesse dell’edizione critica (curata, con pazienza certosina, da Giovanni Pelliccia) è non soltanto nella riscoperta di un compositore di grande rilievo della “scuola napoletana” del Settecento ma nel significato politico del lavoro. E’ stato commissionato dalla Chiesa di Santa Maria in Navicella (oggi conosciuta con il nome di Chiesa Nuova a Corso Vittorio Emanuele II a Roma), presidio centrale della Congregazione dei Filippini , dove venne eseguita (con ben circa 16 repliche l’anno) dal 1781 al 1794 (quando la rivoluzione francese ed i primi sentori di quelle che sarebbero state le guerre napoleoniche travolsero la politica romana).
Il successo si deve solamente alla raffinatezza del testo metastasiano dell’”azione sacra” ed alla bellezza della scrittura orchestrale e vocale dell’Anfossi? Un saggio di Mario Valente, l’unico vero studioso di Metastasio oggi in Italia, pubblicato con l’edizione critica della partitura, rivela che dietro le note c’è molto di più.
Il testo metastasiano venne, infatti, riveduto e corretto per inserire la “Betulia Liberata” in una Roma in cui i conflitti per la successione asburgica alla corona d’Austria avevano accentuato le tensioni all’interno della Città Eterna tra i “giansenisti” da un lato (i Filippini non lo furono mai in senso integrale, ma ne furono collaterali) e gli ortodossi dall’altro; tra il primato teologico-politico del magistero della Chiesa romana, da una parte, e il clero della periferia, l’aristocrazia e la borghesia, quest’ultima emergente in tutta Europa, quindi anche nel Lazio e nel resto del dominio temporale del Papa Re, dall’altra.
La Chiesa –come scrive Mario Valente – si pose come grande mediatrice tra interessi contrapposti sia nel proprio Regno temporale sia tra le case regnanti d’Europa. Per riaffermare il primato anche politico della Chiesa, l’oratorio musicato da Anfossi per i Filippini termina con un’aria di Giuditta a Maria “donna forte” e invincibile”: un messaggio neppure troppo cifrato sia nei confronti delle case reali europee sul ruolo che Roma era convinta di dovere esercitare nella successione asburgica, sia nei riguardi dell’aristocrazia, della borghesia e dello stesso clero di periferia.
Tale aria, si badi bene, non c’è né nel testo originale metastasiano né nelle versioni messe in musica da calibri importanti quali Jommelli e Leoni. Il messaggio è tanto più forte poiché nella vicenda biblica, ovviamente, non c’è e non ci può essere traccia della Vergine. Siamo in un quadro storico in cui solamente pochi anni prima era stata sciolta la Compagnia di Gesù e ne erano stato confiscati i beni in quanto il Papato vedeva con preoccupazione il crescente potere della congregazione. I “filippini” della Chiesa in Santa Maria in Navicella – fondati dal quel San Filippo Neri che si poneva come “il prete dei poveri” e dotati di un programma teologico e religioso molto lineare e quindi molto chiaro – conducevano anche un’attività politica influente (e molto incisiva) di quanto non abbiamo messo in luce recenti sceneggiati televisivi. Erano un’anomalia nella Controriforma poiché organizzati in piccole comunità, con un alto grado di democrazia interna, nonché aperti al vento nuovo dell’illuminismo
(da qui non solamente il collateralismo con il giansenismo e, quel che più conta, una “Betulia Liberata” in cui Giuditta coniuga Fede e Ragione. Un lavoro , quindi modernissimo (l’enclica “Fides et Ratio” di Papa Paolo Giovanni II ha appena compiuto dieci anni). Oloferne e la sua masnada, inoltre, possono venire identificati come il mondo islamico, privo tanto di Fede quanto di Ragione (quando venne commissionata la messa in musica dell’”azione sacra” a Anfossi ricorreva il centenario dell’assedio di Vienna ed il bicentenario della battaglia di Lepanto- due “eventi”, si direbbe oggi, che non potevano essere ignorati all’Oratorio dei Filippini). L’edizione critica della partitura, dunque, non soltanto apre una finestra su un periodo politico- culturale poco studiato della vita di Roma (e non solo) ma ha anche riscontri immediati con la nostra attualità. Un auspicio: un teatro italiano (ad esempio, il Nazionale di Roma o il Teatro degli Atti della sempre più innovatrice Sagra Malestiana a Rimini) la rappresenti prima che se ne approprino Berlino, Francoforte o Zurigo e fornirne, come è là consueto, una lettura troppo attuale, ossia eccessivamente cronachistica e con una pletora di nudi (che i filippini non avrebbero affatto apprezzato).
Lidia Bramani Mozart Massone e Rivoluzionario Milano, Bruno Mondadori 2005 pp.466 € 30
Giovanni Pelliccia (a cura di) Betulia Liberata di Pietro Metastasio e Pasquale Anfossi, Prefazione di Friederich Lippman, Introduzione di Mario Valente, MOS Edizioni 2008 pp CI , 232 € 50
A fine 2008, è stata presentata da un editore non piccolo ma piccolissimo (ed i cui meriti sono inversamente proporzionali alle dimensioni), le MOS edizioni (www.petrometastasio.com), l’edizione critica dell’azione sacra di Pietro Metastasio “ Betulia Liberata” quale messa in musica da Pasquale Anfossi nel 1783 per conto dell’Oratorio dei Filippini a Roma (oggi conosciuto come Oratorio Borromini). Di Anfossi è rimasto relativamente poco, pur se dall’epistolario di Mozart (che lo considerava “molto cognito”) si apprende che il salisburghese lo apprezzasse tant da includerlo tra i suoi maestri. Il lavoro di Metastasio (basato sulla vicenda biblica di Giuditta ed Oloferne) era già stato messo in musica da musicisti oggi molto più conosciuti dell’Anfossi (ad esempio, da Nicolò Jommelli e da Benedetto Leoni). L’interesse dell’edizione critica (curata, con pazienza certosina, da Giovanni Pelliccia) è non soltanto nella riscoperta di un compositore di grande rilievo della “scuola napoletana” del Settecento ma nel significato politico del lavoro. E’ stato commissionato dalla Chiesa di Santa Maria in Navicella (oggi conosciuta con il nome di Chiesa Nuova a Corso Vittorio Emanuele II a Roma), presidio centrale della Congregazione dei Filippini , dove venne eseguita (con ben circa 16 repliche l’anno) dal 1781 al 1794 (quando la rivoluzione francese ed i primi sentori di quelle che sarebbero state le guerre napoleoniche travolsero la politica romana).
Il successo si deve solamente alla raffinatezza del testo metastasiano dell’”azione sacra” ed alla bellezza della scrittura orchestrale e vocale dell’Anfossi? Un saggio di Mario Valente, l’unico vero studioso di Metastasio oggi in Italia, pubblicato con l’edizione critica della partitura, rivela che dietro le note c’è molto di più.
Il testo metastasiano venne, infatti, riveduto e corretto per inserire la “Betulia Liberata” in una Roma in cui i conflitti per la successione asburgica alla corona d’Austria avevano accentuato le tensioni all’interno della Città Eterna tra i “giansenisti” da un lato (i Filippini non lo furono mai in senso integrale, ma ne furono collaterali) e gli ortodossi dall’altro; tra il primato teologico-politico del magistero della Chiesa romana, da una parte, e il clero della periferia, l’aristocrazia e la borghesia, quest’ultima emergente in tutta Europa, quindi anche nel Lazio e nel resto del dominio temporale del Papa Re, dall’altra.
La Chiesa –come scrive Mario Valente – si pose come grande mediatrice tra interessi contrapposti sia nel proprio Regno temporale sia tra le case regnanti d’Europa. Per riaffermare il primato anche politico della Chiesa, l’oratorio musicato da Anfossi per i Filippini termina con un’aria di Giuditta a Maria “donna forte” e invincibile”: un messaggio neppure troppo cifrato sia nei confronti delle case reali europee sul ruolo che Roma era convinta di dovere esercitare nella successione asburgica, sia nei riguardi dell’aristocrazia, della borghesia e dello stesso clero di periferia.
Tale aria, si badi bene, non c’è né nel testo originale metastasiano né nelle versioni messe in musica da calibri importanti quali Jommelli e Leoni. Il messaggio è tanto più forte poiché nella vicenda biblica, ovviamente, non c’è e non ci può essere traccia della Vergine. Siamo in un quadro storico in cui solamente pochi anni prima era stata sciolta la Compagnia di Gesù e ne erano stato confiscati i beni in quanto il Papato vedeva con preoccupazione il crescente potere della congregazione. I “filippini” della Chiesa in Santa Maria in Navicella – fondati dal quel San Filippo Neri che si poneva come “il prete dei poveri” e dotati di un programma teologico e religioso molto lineare e quindi molto chiaro – conducevano anche un’attività politica influente (e molto incisiva) di quanto non abbiamo messo in luce recenti sceneggiati televisivi. Erano un’anomalia nella Controriforma poiché organizzati in piccole comunità, con un alto grado di democrazia interna, nonché aperti al vento nuovo dell’illuminismo
(da qui non solamente il collateralismo con il giansenismo e, quel che più conta, una “Betulia Liberata” in cui Giuditta coniuga Fede e Ragione. Un lavoro , quindi modernissimo (l’enclica “Fides et Ratio” di Papa Paolo Giovanni II ha appena compiuto dieci anni). Oloferne e la sua masnada, inoltre, possono venire identificati come il mondo islamico, privo tanto di Fede quanto di Ragione (quando venne commissionata la messa in musica dell’”azione sacra” a Anfossi ricorreva il centenario dell’assedio di Vienna ed il bicentenario della battaglia di Lepanto- due “eventi”, si direbbe oggi, che non potevano essere ignorati all’Oratorio dei Filippini). L’edizione critica della partitura, dunque, non soltanto apre una finestra su un periodo politico- culturale poco studiato della vita di Roma (e non solo) ma ha anche riscontri immediati con la nostra attualità. Un auspicio: un teatro italiano (ad esempio, il Nazionale di Roma o il Teatro degli Atti della sempre più innovatrice Sagra Malestiana a Rimini) la rappresenti prima che se ne approprino Berlino, Francoforte o Zurigo e fornirne, come è là consueto, una lettura troppo attuale, ossia eccessivamente cronachistica e con una pletora di nudi (che i filippini non avrebbero affatto apprezzato).
Lidia Bramani Mozart Massone e Rivoluzionario Milano, Bruno Mondadori 2005 pp.466 € 30
Giovanni Pelliccia (a cura di) Betulia Liberata di Pietro Metastasio e Pasquale Anfossi, Prefazione di Friederich Lippman, Introduzione di Mario Valente, MOS Edizioni 2008 pp CI , 232 € 50
giovedì 15 gennaio 2009
LOMBARDI , RITORNO AL MEDIOEVO CON SCENA FISSA E GIOCHI DI LUCE, Milano Finanza del 16 gennaio
. Il “Regio” ha inaugurato la stagione invernale 2009 con “I Lombardi alla Prima Crociata” di Verdi nell’ambito di un programma per presentare tutte le opere del compositore entro il 2013 (secondo centenario dalla nascita) quando dovrebbe uscirne un integrale dei lavori verdiani in Dvd.
E’un allestimento marcatamente differente da quello visto circa quattro anni fa a Firenze dove Paul Curan trasferiva l’azione ai giorni nostri - la piazza di Sant’Ambrogio era “Ground Zero”, i crociati vestivano in tute mimetiche, il Sultano di Antiochia truccato da Saddam Hussein e via di questo passo. La produzione (a Parma sino al 25 gennaio e,poi, in vari teatri) di Lamberto Pugelli (regia), Paolo Bregni (scene), Santuzza Calì (costumi) è imperniato su una scena fissa dove si combatte, si vive e si muore. Anche se in un paio di momenti, appare sul fondale “Guernica” di Picasso, siamo attorno al 1100; con giochi di luce e proiezioni passiamo dalle nebbie padane, al muro del pianto, al deserto, a tenere notte mediterranee da dove appare la visione della Città Santa. Quindi, spettacolo che coniuga tradizione con punte di innovazione.Con pochi mezzi, una messa in scena efficace e facilmente trasportabili su palcoscenici di dimensioni differenti, anche a ragione del ritmo cinematografico e della buona recitazione che rende quasi credibile il complicato libretto.
Sotto il profilo musicale, elogi vanno principalmente al coro guidato da Martino Faggiani (apre e chiude ciascuno degli otto quadri) e al ventottenne Francesco Meli; lanciato giovanissimo a Pesaro, è diventato uno dei rari tenori “verdiani” in circolazione (non soltanto in Italia), sceglie con cura i ruoli e canta principalmente all’estero. Da suggerirgli di non tentare anzitempo parti non ancora per la sua vocalità. Di rilievo anche l’altro tenore richiesto dalla partitura, Roberto De Biaso , vocalità “spinta” , impostata sul centro. L’applauditissima Dmitra Theodossiou (letteralmente coperta di fiori, al termine della “prima”, dal pubblico di Parma) ha un ruolo terrificante: la voce le si è ispessita rispetto a quando interpretò l’opera a Cremona e a Firenze e, di conseguenza, eccede negli acuti e dà meno rilievo del dovuto agli abbandoni lirici. Michele Pertusi è di grande presenza scenica e vocale, pur se non ha più l’agilità di un tempo.Corretta, ma non travolgente, la direzione musicale di Daniele Callegari.
E’un allestimento marcatamente differente da quello visto circa quattro anni fa a Firenze dove Paul Curan trasferiva l’azione ai giorni nostri - la piazza di Sant’Ambrogio era “Ground Zero”, i crociati vestivano in tute mimetiche, il Sultano di Antiochia truccato da Saddam Hussein e via di questo passo. La produzione (a Parma sino al 25 gennaio e,poi, in vari teatri) di Lamberto Pugelli (regia), Paolo Bregni (scene), Santuzza Calì (costumi) è imperniato su una scena fissa dove si combatte, si vive e si muore. Anche se in un paio di momenti, appare sul fondale “Guernica” di Picasso, siamo attorno al 1100; con giochi di luce e proiezioni passiamo dalle nebbie padane, al muro del pianto, al deserto, a tenere notte mediterranee da dove appare la visione della Città Santa. Quindi, spettacolo che coniuga tradizione con punte di innovazione.Con pochi mezzi, una messa in scena efficace e facilmente trasportabili su palcoscenici di dimensioni differenti, anche a ragione del ritmo cinematografico e della buona recitazione che rende quasi credibile il complicato libretto.
Sotto il profilo musicale, elogi vanno principalmente al coro guidato da Martino Faggiani (apre e chiude ciascuno degli otto quadri) e al ventottenne Francesco Meli; lanciato giovanissimo a Pesaro, è diventato uno dei rari tenori “verdiani” in circolazione (non soltanto in Italia), sceglie con cura i ruoli e canta principalmente all’estero. Da suggerirgli di non tentare anzitempo parti non ancora per la sua vocalità. Di rilievo anche l’altro tenore richiesto dalla partitura, Roberto De Biaso , vocalità “spinta” , impostata sul centro. L’applauditissima Dmitra Theodossiou (letteralmente coperta di fiori, al termine della “prima”, dal pubblico di Parma) ha un ruolo terrificante: la voce le si è ispessita rispetto a quando interpretò l’opera a Cremona e a Firenze e, di conseguenza, eccede negli acuti e dà meno rilievo del dovuto agli abbandoni lirici. Michele Pertusi è di grande presenza scenica e vocale, pur se non ha più l’agilità di un tempo.Corretta, ma non travolgente, la direzione musicale di Daniele Callegari.
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