Perché non va esclusa una deflagrante crisi dell’euro
21 - 06 - 2014Giuseppe Pennisi
Consigli non richiesti in vista della prossima presidenza italiana
dell'Europa...
La presidenza italiana degli organi di governo dell’Unione Europea
(UE) potrebbe trovarsi con una gatta da pelare molto più seria di quella che
oggi ci si immagina a Palazzo Chigi, alla Farnesina e a Via Venti Settembre:
una seria crisi dell’euro, in cui all’apprezzamento del cambio nominale della
moneta unica si accompagnerebbe una recessione feroce. Ciò attizzerebbe non
solo l’opposizione all’euro da parte della sinistra e della “destra sociale”
(alla Le Pen) ma anche proteste, più o meno organizzate, dal centro e dalla
“destra”, orchestrate anche da industrie. In Italia, il suggerimento che viene
dal Palazzo è di non parlare e, se del caso, minimizzare. Non fare “la Cassandra”.
La principessa troiana, però, ci aveva visto giusto.
Ad esempio, nessuna testata del Belpaese ha parlato del movimento
creato da uno dei maggiori industriali tedeschi (è stato amministratore
delegato della IBM della Repubblica Federale), Olaf Henkel, per “tornare al
marco” prima che “l’unione monetaria ci distrugga tutti”. Henkel è un signore
garbato e ben vestito (ha sempre una pochette di seta nel taschino della
giaccia), non certo un Masaniello; è certo che il tempo è dalla sua parte, che
l’Europa sta andando alla sfascio e che i tedeschi devono evitarlo almeno per
loro stessi e per i loro figli. Henkel è diventato una fonte di irritazione
continua per il Cancelliere Angela
Merkel, un’europeista convinta ed un’eurofila sfegatata.
Non è isolato. Di recente, l’Università di Oxford, non certo un
ambiente di scalmanati, ha ospitato un seminario a inviti sul tema. Suggeriamo
al sottosegretario Sandro
Gozi, delegato per l’UE, di leggerne gli atti, pubblicati nel
Vol. 52 No.4 del Journal of Common Market Studies, da tempo
immemorabile un trimestrale “europeista” tra i più prestigiosi.
Il titolo del seminario è “La Grande Depressione e la Crisi
dell’Eurozona: Lezioni dal Passato”. Un saggio di Scott Urban raffronta i
due periodi, concludendo che, al pari di quanto avvenne nel 1929-30, per fare
uscire l’Europa dalle sabbie mobili in cui si è ficcata, occorrerà un
deprezzamento del cambio nominale, unitamente a controlli valutari. Uno studio
di Nicholas
Crafts giunge a conclusioni analoghe, affermando, però, che tale
cura non è “compatibile con la sopravvivenza dell’unione monetaria”.
L’alternativa sarebbe una “vera unione bancaria” e “soprattutto una unione
delle politiche di bilancio”. Ciò richiede, però – occorre aggiungere – un
“compromesso alla Bretton Woods” in base al quale l’Eurogruppo accetterebbe una
maggiore flessibilità, coniugata inevitabilmente con un maggior rischio di
crisi finanziarie (molto più gravi di quelle di ottanta anni fa).
E’ in questo quadro che Matthias
Morys lancia, o meglio rilancia, l’idea di un tallone aureo per
l’euro (che limiterebbe, quindi, l’’agilità” di manovra della Banca centrale
europea, Bce). Si avrebbero questo conseguenze: o alcuni Stati (non potendo
reggere alla disciplina del tallone aereo) se ne andrebbero dall’eurozona alla
ricerca di percorsi di crescita articolati su svalutazioni competitive (e
miglioramenti di competitività) oppure si rafforzerebbe la cooperazione
politica ponendo le basi per maggiore crescita per tutta l’area, analogamente a
quanto avvenne per il “gruppo dell’oro” negli Anni Trenta.
Una fantasia? Nel novembre 2010, in una saletta del Ripetta
Residence, si diedero convegno (a porte rigorosamente chiuse) dirigenti di
dicasteri economici, della Banca d’Italia ed anche pochi esperti esterni per
esaminare con esponenti dell’industria del metallo giallo se le prospettive di
aumento della produzione dalle miniere fossero tali da sostenere la crescita in
Europa. Ovviamente, nessuno stilò un verbale dell’incontro. La riservatezza era
d’obbligo. Ma riunioni simili avvennero nelle altre maggiori capitali dell’UE.
E sulla riva del Meno si contò più di un attacco di bile.
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