Orfeo al
Maggio Musicale Fiorentino
08 - 06 -
2014Giuseppe Pennisi
Questa sera 8 giugno, nell’ambito del Maggio
Musicale Fiorentino, al Teatro La Pergola di Firenze va in scena un nuovo
allestimento della “tragedia” in musica ‘Orfeo ed Euridice’ di Christoph
W. Gluck.
L’occasione è il trecentesimo anniversario della
nascita del compositore (il 2 luglio 1714 a Erashback). Per questo motivo,
questa stagione e la prossima si vedranno numerose messe in scena del
capolavoro. ‘Orfeo e Euridice’ è una delle poche opere del Settecento rimaste
nei cartelloni nei secoli successivi. Nell’Ottocento la si è rappresentata
nell’adattamento (ai gusti dell’epoca) fattone nel 1859 da Hector Berlioz. Nel
Novecento nella versione edita nel 1889 da Ricordi che interpolava
l’adattamento di Berlioz con le due versioni originali di Gluck (una del 1762,
in italiano, per Vienna ed una del 1774, in francese, per Parigi), nonché con
arie di altre opere del compositore boemo.
L’ALLESTIMENTO
Alcuni anni fa ha girato per mezza Italia un
allestimento fedele alla edizione con cui nel 1762, Gluck effettuò una vera e
propria riforma fondendo tutti i mezzi espressivi (parola, musica, danza, mimo)
al servizio della verità scenica, sostituendo i ‘recitativi secchi’ con
recitativi accompagnato ed introducendo un accordo di sesta aumentato, che può
essere considerato come il prozio del wagneriano ‘Tristan Akkord’. Una versione
di concerto dell’opera (versione 1762) è stata ascoltata a Milano. Un
allestimento scenico (sempre della versione italiana) sarà al Cantiere d’Arte
di Montepulciano in luglio, mentre l’edizione francese si potrà ascoltare e
vedere a Palermo.
IL PERSONAGGIO DI ORFEO
Orfeo è uno dei personaggi mitologici più gettonati,
per così dire, dal teatro lirico. Prima ancora che, nel 1607, Claudio
Monteverdi componesse la splendida ‘favola in musica’ in tre atti che ci è
rimasta integrale, nel 1600 la “Euridice” di Jacopo Peri e nel 1602 quella di
Giulio Caccini (anch’esse giunte sino a noi nella loro completezza) la avevano
portata in scena negli splendidi saloni di Palazzo Pitti. La prima opera
rappresentata in Francia, a Palais Royal, e per desiderio espresso del Cardinal
Mazzarino, è l’”Orfeo” di Luigi Rossi. Nella Parigi del Secondo Impero,
l’”Orfeo all’Inferno” di Jacques Offenbach prende graziosamente in giro
Napoleone III e la sua Corte (Contessa di Castiglione e Costantino Nigra ivi
compresi). Nel 1925, con un’opera che suscitò scandali e polemiche a non
finire, la magnifica “Orfeide” di Gian Francesco Malipiero (dove c’è un
sovrintendente tanto coraggioso da allestirla oggidì?) racchiuse in tre parti,
un preludio e otto canzoni il dramma dell’Europa tra le due guerre (e dei
tradimenti di chierici grandi e piccoli). Nei più recenti Anni Sessanta,
l’”Orfeo Negro” filmato di Marcel Ophuls ci portò a tempo di una lunga samba
quasi wagneriana nei meandri dell’Ade multietnico di una Rio che rappresentava
tutta l’umanità alla soglia della globalizzazione.
L’ORFEO DI CRISTOPH WILLBALD GLUCK
Orfeo si presta al teatro in musica: bello, poeta e
cantore tale da ammansire sia le belve della terra sia le furie dell’inferno;
innamorato ed amante della propria moglie, scende a patti con gli Dei per
riportarla in vita; la desidera, però, tanto, anche e soprattutto carnalmente,
da non poter mantenere neanche un accordo molto limitato nel tempo; e
perdendola, si perde con lei.
L’”Orfeo e Euridice” di Cristoph Willibald Gluck si distingue dagli altri per due motivi: ha un lieto fine e, nella concezione drammatica e musicale, vuole essere esplicitamente un lavoro di rottura. In omaggio all’intento celebrativo (la prima venne data, a Vienna, il 5 ottobre 1762 in occasione del compleanno dell’Imperatore Francesco I), il protagonista non finisce all’inferno e la “sua” compagna non muore per la seconda volta, ma grazie all’intervento del Dio Amore, vengono tutti perdonati ed invitati ad una festa paradisiaca. Ancora più importante di questo finale è la riforma nell’assetto stesso dell’”opera seria”, l’introduzione della “bella semplicità” in cui l’azione, la musica ed il ballo si fondono in un insieme – i presupposti su cui un secolo più tardi nasce il “musik drama” wagneriano e tutta l’opera del Novecento – dagli eccelsi Strauss e Janacek al teatro musicale di Gian Carlo Menotti e dei neo-romantici come Marco Betta.
L’”Orfeo e Euridice” di Cristoph Willibald Gluck si distingue dagli altri per due motivi: ha un lieto fine e, nella concezione drammatica e musicale, vuole essere esplicitamente un lavoro di rottura. In omaggio all’intento celebrativo (la prima venne data, a Vienna, il 5 ottobre 1762 in occasione del compleanno dell’Imperatore Francesco I), il protagonista non finisce all’inferno e la “sua” compagna non muore per la seconda volta, ma grazie all’intervento del Dio Amore, vengono tutti perdonati ed invitati ad una festa paradisiaca. Ancora più importante di questo finale è la riforma nell’assetto stesso dell’”opera seria”, l’introduzione della “bella semplicità” in cui l’azione, la musica ed il ballo si fondono in un insieme – i presupposti su cui un secolo più tardi nasce il “musik drama” wagneriano e tutta l’opera del Novecento – dagli eccelsi Strauss e Janacek al teatro musicale di Gian Carlo Menotti e dei neo-romantici come Marco Betta.
LE PRECEDENTI EDIZIONI
Il pregio principale dell’edizione allestita (in forma
di concerto), una dozzina di anni fa, da René Jacobs con la Freiburger
Barockorchester, il Rias Kammerchor e tre magnifici soliste (il contralto
Bernarda Fink ed i soprani Veronica Cangemi e Maria Cristina Kiehr) è di
ricreare, con un complesso specializzato nella musica barocca, i suoni e le
atmosfere timbriche di quanto messo in scena a Vienna circa 250 anni orsono in
una prima a cui seguirono oltre 100 repliche. E’ un merito non indifferente in
quanto, spesso, anche quando rappresentato nella versione originale italiana,
l’”Orfeo ed Euridice” “viennese” viene interpolato con la partitura, molto meno
asciutta, rielaborata dallo stesso Gluck per l’edizione “francese” messa in
scena a Parigi nel 1774. Riportata nel rigore e nella purezza originaria, la
“bella semplicità” acquista tutto il suo valore rivoluzionario di rottura
rispetto all’”opera seria” ed alle sue convenzioni. Acquista anche tutto il
sapore ed il profumo di eternità che è caratteristica dei veri capolavori.
L’EDIZIONE DI JACOBS IN EUROPA
Jacobs ed i suoi hanno vagato con l’edizione per mezza
Europa – da Tenerife a Colonia. L’allestimento, visto in una delle sue soste
italiane, è quindi ben rodato. Sublime l’orchestra e superba, oltre che
bellissima, Bernanda Fink.
Di livello l’allestimento lanciato a Ravenna nel 2007 e portato in tournée a Modena, Reggio Emilia, Ferrara e Pisa. E’ stata creata una compagnia ad hoc, formata interamente da giovani. Graham Vick ha curato con grande attenzione la recitazione e la fusione tra solisti, cori e corpo di ballo. I costumi sono moderni (pantaloni e camice di lino in varie sfumature del bianco con l’eccezione di una giacca rosso fiammante per il Dio Amore). L’impianto scenico è fisso: i cinque luoghi dell’azione (un boschetto di allori, il fiume verso l’Oltretomba, i campi Elisi, il labirinto per uscire dall’Ade, un “magnifico tempio dedicato a Amore”) diventano una serie di lastre grigie analoghe a quelle del museo dell’Olocausto di Berlino. I campi Elisi (e le danze che vi si svolgono) assomigliano più ad un orgiastico manicomio che ad un luogo di delizie.
Di livello l’allestimento lanciato a Ravenna nel 2007 e portato in tournée a Modena, Reggio Emilia, Ferrara e Pisa. E’ stata creata una compagnia ad hoc, formata interamente da giovani. Graham Vick ha curato con grande attenzione la recitazione e la fusione tra solisti, cori e corpo di ballo. I costumi sono moderni (pantaloni e camice di lino in varie sfumature del bianco con l’eccezione di una giacca rosso fiammante per il Dio Amore). L’impianto scenico è fisso: i cinque luoghi dell’azione (un boschetto di allori, il fiume verso l’Oltretomba, i campi Elisi, il labirinto per uscire dall’Ade, un “magnifico tempio dedicato a Amore”) diventano una serie di lastre grigie analoghe a quelle del museo dell’Olocausto di Berlino. I campi Elisi (e le danze che vi si svolgono) assomigliano più ad un orgiastico manicomio che ad un luogo di delizie.
GLI ASPETTI MUSICALI
Di livello, gli aspetti musicali. Claudio Astronio ha
concertato con bacchetta asciutta l’orchestra barocca di Bolzano. Il peso
vocale dello spettacolo è sul protagonista e sul coro. Il ruolo di Orfeo,
concepito per un castrato (ora interpretato da mezzo soprani e contralti), è
affidato ad un controtenore : Razec François Bitar. Ha un bel timbro, un
fraseggio accattivante ed abilità nel gestire il volume; nonostante qualche
difficoltà di dizione, costruisce un Orfeo al tempo stesso dolce e virile.
Efficace il coro diretto da Elena Sartori. Interessanti promesse Marta Vandoni
Iorio (Euridice) e Roberta Frameglia (il Dio Amore).
L’ORFEO DEL 2009
Veniamo ora a “L’Orfeo” visto ed ascoltato in una
bellissima notte di stelle al Thèâtre de l’Archevêché di Aix en Provence nel 2009.
E’ la riedizione di un allestimento ormai considerato “di riferimento” di circa
otto anni fa con cui il 24 febbraio la Staatsoper di Berlino ha deciso di
celebrare i 400 anni dalla “prima” de “L’Orfeo” e che andrà a Bruxelles, New
York ed altrove. Quale fu la portata innovativa dello spettacolo del 1998? E’
ancora valida adesso? L’idea di base dell’allestimento è quella di coniugare la
lettura più rigorosa della partitura (da parte di René Jacobs e del suo
Complesso Vocale che suona , come è noto, su strumenti d’epoca) con
un’interpretazione scenica da opera-balletto non come si sarebbe avuta nel
Seicento ma utilizzando il lessico della danza americana moderna. E’ un’idea
che regge ancora e che porta ad uno spettacolo di squisita eleganza: una scena unica
con nel fondale un’enorme sfera che cambia di colore a seconda delle situazioni
musicali (prima ancora che sceniche), una danzatrice sospesa su altalena a
mezz’aria sin dalla “sinfonia”, cantanti che lavorando d’intesa con danzatori
professionisti devono essere in grado (se non di ballare) almeno di mimare a
tempo e di avere capacità atletiche.
Per realizzarla, occorre necessariamente effettuare
alcuni compromessi: gran parte dei ruoli (le eccezioni sono quello di Orfeo,
cantato da Stéphane Degout, e quello di Messaggera/Speranza/Musica, affidato a
Marie-Claude Chappuis) sono attribuiti a giovani dell’Académie Européenne de
Musique ,che quest’anno segue un programma di alta formazione imperniato su
Monteverdi. E’ una scelta appropriata in quanto si tratta di voci relativamente
nuove ( o poco note) di cantanti – attori giovani e, quindi, in grado di
recitare e mimare (a tempo) con efficacia.
Più discutibile, ma ormai entrata nella prassi, la decisione di affidare il ruolo di Orfeo (scritto per un castrato) non ad un contralto od ad un mezzo-soprano ma ad un baritono (Dégout), in alcune repliche sostituito da un tenore (Ed Lyon). Dato che ormai si dispone di alcuni controtenori (che proprio a Aix) hanno dato ottima prova, sarebbe stato filologicamente più corretto utilizzarne uno, invece di abbassare di circa tre ottave il registro. Dégout si è calato in una vocalità di agilità come quella richiesta ne “L’Orfeo”, dando prova di vero virtuosismo cantando Quei campi di Tracia steso sul palcoscenico, diventando toccante in Quale onor di te fia degno ed in Possente spirto, e leggerissimo in quella che in nuce la cavatina Rosa del ciel. Marie-Claude Chappuis svetta in In un fiorito prato. Di grande livello il Caronte di Konstantine Wolff, specialmente in O tu ch’innanzi a morte in queste rive .
René Jacobs preferisce una direzione tersa ed essenziale che nulla concede ai barocchismi di maniera. Crea però effetti stereofonici, disponendo a tratti gli strumenti in varie parti della sala. Tra gli ottoni, spiccano le trombe, tra gli archi la viola d’amore , tre la corde il chitarrone.
Più discutibile, ma ormai entrata nella prassi, la decisione di affidare il ruolo di Orfeo (scritto per un castrato) non ad un contralto od ad un mezzo-soprano ma ad un baritono (Dégout), in alcune repliche sostituito da un tenore (Ed Lyon). Dato che ormai si dispone di alcuni controtenori (che proprio a Aix) hanno dato ottima prova, sarebbe stato filologicamente più corretto utilizzarne uno, invece di abbassare di circa tre ottave il registro. Dégout si è calato in una vocalità di agilità come quella richiesta ne “L’Orfeo”, dando prova di vero virtuosismo cantando Quei campi di Tracia steso sul palcoscenico, diventando toccante in Quale onor di te fia degno ed in Possente spirto, e leggerissimo in quella che in nuce la cavatina Rosa del ciel. Marie-Claude Chappuis svetta in In un fiorito prato. Di grande livello il Caronte di Konstantine Wolff, specialmente in O tu ch’innanzi a morte in queste rive .
René Jacobs preferisce una direzione tersa ed essenziale che nulla concede ai barocchismi di maniera. Crea però effetti stereofonici, disponendo a tratti gli strumenti in varie parti della sala. Tra gli ottoni, spiccano le trombe, tra gli archi la viola d’amore , tre la corde il chitarrone.
L’EDIZIONE DEL 2008 A BOLOGNA
Deludente invece la versione francese del 1774
presentata a Bologna nel 2008 (ad inaugurazione di stagione) in un adattamento
(non filologico) dell’Opéra National di Monptellier che ha viaggiato in altri
teatri. Le differenze (rispetto alla versione viennese) sono molteplici: Gluck
ampliò l’orchestrazione, aggiunse arie e soprattutto riscrisse il ruolo del
protagonista – un castrato a Vienna ed un tenore dalla tessitura ampia (dal sol
al re acuto), ma prevalentemente alta, a Parigi. L’interesse dello spettacolo
è, da un lato, la rarità di esecuzioni basate sulla versione del 1774 e,
dall’altro, il fatto che il tenore Roberto Alagna è affiancato dai propri fratelli
(David, regia e Frédéric scene).
Alagna avrebbe dovuto cantare il ruolo negli Anni
Novanta, quando era il tenore lirico leggero dalla voce vellutata che incantò
in una “Bohème” co-prodotta dal Maggio fiorentino e dall’Opéra di Parigi. Non è
l’età che gli ha appesantito il timbro (e lo pone in difficoltà con il registro
previsto per la parte) ma la sua ostinazione a perseguire ruoli da tenore
“spinto”; una vocalità più adatta ad Orphée è quella di John Osborn (che lo ha
sostituto in alcune repliche). Alagna ottiene applausi grazie alla recitazione
impeccabile ed all’avvenenza (nonostante il passare degli anni). Serena
Gamberoni (Eurydice) conferma di essere un soprano lirico puro di livello. Il
ruolo della Guida nell’Aldilà (composto per un soprano) è affidato, per
esigenze di regia, a Marc Barrad, un buon baritono di agilità. Efficace il coro
guidato da Paolo Vero. Asciutta anche troppo la concertazione Giampaolo
Bisanti.
L’”adattamento” si prende molte libertà: tagli di numeri importanti, modifiche alla tessitura delle voci, interpolazioni. E’ stato curato da David Alagna a servizio della sua regia – una messa in scena (contestata da parte del pubblico) ma che rappresenta uno degli aspetti interessanti dello spettacolo. Il mito di Orfeo viene trasportato in una morbosa (ed un po’ pecoreccia) provincia francese degli Anni 70 dove si respirano atmosfere alla Louis Malle. Euridyce muore in un incidente d’auto (dopo una festa nuziale piuttosto libidinosa). Dato che Orphée non si rivolta a guardala (nell’uscire dall’Ade) fa l’amore con la Guida quasi di fronte al marito. Anche il finale è differente da quello della “tragédie” di Gluck che, secondo le convenzioni dell’epoca, doveva essere lieto: Orphée non diventa una costellazione ma finisce nella bara con la consorte (defunta per la seconda volta). Questa chiave di lettura può non piacere ma è portata avanti con rigorosa coerenza e sobrietà anche scenica (elemento utile a portare lo spettacolo in diversi teatri).
L’”adattamento” si prende molte libertà: tagli di numeri importanti, modifiche alla tessitura delle voci, interpolazioni. E’ stato curato da David Alagna a servizio della sua regia – una messa in scena (contestata da parte del pubblico) ma che rappresenta uno degli aspetti interessanti dello spettacolo. Il mito di Orfeo viene trasportato in una morbosa (ed un po’ pecoreccia) provincia francese degli Anni 70 dove si respirano atmosfere alla Louis Malle. Euridyce muore in un incidente d’auto (dopo una festa nuziale piuttosto libidinosa). Dato che Orphée non si rivolta a guardala (nell’uscire dall’Ade) fa l’amore con la Guida quasi di fronte al marito. Anche il finale è differente da quello della “tragédie” di Gluck che, secondo le convenzioni dell’epoca, doveva essere lieto: Orphée non diventa una costellazione ma finisce nella bara con la consorte (defunta per la seconda volta). Questa chiave di lettura può non piacere ma è portata avanti con rigorosa coerenza e sobrietà anche scenica (elemento utile a portare lo spettacolo in diversi teatri).
LA REGIA DI KRIEF
Denis Krief, drammaturgo e regista oltre che autore di
scene e costumi, dell’edizioe in scena dall’8 giugno a Firenze vede il mito
come quello di un amore che sovverte le leggi della Natura, commuove gli dei,
vince anche la morte. Il nuovo allestimento firmato dal regista Premio Abbiati
Denis Krief e propone Anna Bonitatibus nel ruolo del protagonista al cui
suadente canto si placano persino le fiere infernali; Hélène Guilmette, che
ricordiamo alla Scala nel Dialogues des Carmelites diretto da Muti è Euridice.
La direzione è affidata all’esperta bacchetta di Federico Maria Sardelli.
FOTO
Maestoso finale: «Trionfi Amore, e il mondo intiero serva all’impero della beltà» © Copyright Simone Donati / TerraProject / Contrasto
Maestoso finale: «Trionfi Amore, e il mondo intiero serva all’impero della beltà» © Copyright Simone Donati / TerraProject / Contrasto
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