LA TERZA ONDATA DELLE PRIVATIZZAZIONI ED IL SILENZIO ASSORDANTE DELL’ITALIA
Giuseppe Pennisi
Premessa
Nel novembre 2013
il Governo Letta ha iniziato un programma di valorizzazione e privatizzazione
del patrimonio pubblico con il duplice obiettivo: a) destinarne il gettito alla
riduzione del debito pubblico; b) aumentare l’efficienza del sistema economico
in termini di produttività e competitività e contribuire, quindi, (dopo sette
anni di recessione e circa dieci di stagnazione) alla crescita economica. Nel
febbraio 2014, nella presentazione del proprio programma di governo al
Parlamento, l’Esecutivo Renzi (che è succeduto a quello guidato da Enrico
Letta) , ha manifestato la volontà di accentuare quanto delineato da chi lo ha
preceduto. Questa analisi viene redatta mentre il nuovo Esecutivo sta compiendo
i primi passi. Di conseguenza, più che un esame di quanto fatto, è
un’indicazione di quanto si deve fare in materia di privatizzazioni, qualsiasi
altra azione di politica economica venga presa – per rendere l’Italia più
libera e facilitare, in tal modo, il ritorno su un percorso di crescita
economica, civile e sociale.
“Un programma coerente di privatizzazioni –
scrive Privatization
Barometer Report (Fondazione Eni Enrico Matteo, 2013) riduce
progressivamente l’ambito di discrezionalità della politica sulle imprese,
aumenta la credibilità della politica economica e quindi da ultimo migliora il rating di mercato dello Stato ,con
ricadute positive sugli spreads.” Non a caso, l’UE ha preteso dal
Governo greco un ambizioso piano di privatizzazioni per dare via libera alla
nuova tranche di aiuti “.
Un programma breve
termine (12-18 mesi) per l’Italia è stato delineato nel discorso del Presidente
del Consiglio Letta alle Camere e precisato complessivamente la cessione di
quote societarie dovrebbe far entrare tra i 10 e i 12 miliardi di euro nelle casse dello Stato nel 2014.
Le prime dismissioni avrebbero riguardato riguardano una partecipazione di controllo di Poste
Italiane e Enav (deliberata il 24 gennaio 2014 dal Consiglio dei Ministri) a
cui faranno seguito, nei prossimi mesi, quelle
di Sace e Grandi Stazioni (partecipata al 59,99%
dalle Ferrovie dello Stato Italiane), ei quote non di maggioranza di Stm, Fincantieri e Cdp
Reti, nonché di Eni. A queste indicazioni, occorre aggiungere la
privatizzazione per almeno 500 milioni l’anno di patrimonio immobiliare.
Secondo un’analisi effettuata dall’Università Bocconi (Puato,2013), l’ipotesi
di ricavi dalla cessione di quote societarie dello Stato può potenzialmente
raggiungere i 90 miliardi di euro (ovviamente su un arco pluriennale); ciò non
tiene conto di circa 6000 Spa, Srl, Fondazioni ed altro partecipato da un
numero analogo di enti locali. Di recente Glocus e l’Istituto Bruno Leoni hanno
tracciato un percorso possibile per attuare un programma di denazionalizzazioni
più ambizioso di quello sino ad ora annunciato dal Governo (Lanzillotta,
Stagnaro 2013). Queste indicazioni suggeriscono che dopo tre anni di virtuale
stasi nel programma di privatizzazioni , si sta creando il clima e ponendo le
basi per un rilancio della nazionalizzazione del patrimonio pubblico – quanto
meno di quello ‘statale’ – sia delle partecipazioni societarie sia delle
proprietà immobiliari.
Il discorso programmatico del Presidente del Consiglio Renzi non ha
indicato esplicitamente le privatizzazioni tra le priorità del Governo
evidenziate invece come miglioramento della scuola, riforma della normativa sul
lavoro , riduzione del cuneo fiscale, saldo dei debiti della pubblica
amministrazione nei confronti delle imprese, riassetto del sistema giudiziario
e importanti cambiamenti istituzionali anche costituzionali. E’ probabile che
abbia recepito non scartato le indicazioni del precedente Esecutivo. Al momento
in cui viene scritto questo capitolo non è possibile formulare un giudizio.
La terza ondata delle
privatizzazioni
Ciò si inquadra in un contesto in cui, analizzando i lavori dell’Ocse, del Privatization Watch, della Fraser Foundation, del Privatization Barometer e della Banca mondiale (per una sintesi, oltre ai documenti delle organizzazioni citate, la sintesi in’State Owned Assets 2014, ed in Obinger , Schmitt e Zohlnofer, 2013), è in corso, a livello mondiale, una terza “fase” od “ondata” di denazionalizzazioni. La prima fu essenzialmente europea; iniziò sulla scia delle politiche liberiste del Governo Thatcher all’inizio degli anni Ottanta, anche se arrivò in Italia solamente circa dieci anni più tardi, in parallelo, almeno temporale, con quella nei Paesi dell’Europa Orientale e nella stessa Russia. La seconda è avvenuta all’inizio del ventunesimo secolo, dopo la breve crisi delle Borse coincidente l’esplosione della bolla “dot.com economy” e prima della più vasta e più profonda iniziata nel 2007 e da cui non siamo ancora usciti. La terza è in atto da un paio di anni e ha varie determinanti: la politica monetaria espansionista negli Usa e in Europa per controbilanciare la crisi finanziaria ed agevolare la riprese dell’economia reale, i fondi sovrani di Stati con ampie riserve minerarie, il disavanzo dei conti delle partite correnti Usa che gonfia le bilance dei pagamenti altrui, l’esigenza (specialmente in Europa) di smaltire il debito sovrano.
Nel
corso del 2010, a livello globale i governi hanno incassato circa 160 miliardi
di euro. Si tratta di uno dei valori più alti mai registrati nella storia,
secondi solo ai 184 miliardi di euro incassati nel 2009, un valore allora
comunque da interpretare con cura poiché include il riacquisto delle azioni da
parte delle banche americane che da solo valeva 118 miliardi di euro. Nel mondo
intero, il 2010 è comunque l’anno che sembrava
un record difficilmente superabile: la cessione del 15% di Petrobras,
che ha fruttato al governo brasiliano 52,4 miliardi di euro, è la più grande
offerta pubblica di tutti i tempi, così come l’offerta pubblica iniziale di
Agricultural Bank of China per 16,5 miliardi di euro. Il collocamento da 15
miliardi di euro di General Motors, che ritorna sul mercato dopo la
nazionalizzazione del 2008, è la più grande IPO mai realizzata sulle borse
americane. Se guardiamo gli aggregati, in vetta alla classifica ci sono gli
Stati Uniti, con quasi 36 miliardi di privatizzazioni, ma davanti a tutti ci
sono i BRICs (Brasile, Russia, India, Cina), con 80 miliardi, la metà del
totale . I paesi dell’UE hanno realizzato operazioni per 33,1 miliardi di euro,
pari al 20,6% del totale. La Francia dei “campioni nazionali” è il Paese
europeo che ha privatizzato di più; nel corso del 2010, con circa 10,5 miliardi
di euro di cessioni, seguita dalla Polonia e dal Regno Unito. Soprattutto
analisi monografica degli effetti delle privatizzazioni in America Latina
(Afonso, Romeru-Baruttiera, Consalve, 2014;) ed in Russia (Radygiyn, 2014)
fanno toccare con mano i benefici delle privatizzazioni sulla crescita. Studi
monografici stranieri, al tempo stesso, mostrano i limiti delle
‘privatizzazioni parziali’ quali realizzate in certi settori in Italia ( Asquer,
2014).
L’unico
operazione significativa su cui può contare l’Italia è la citata cessione del
30% di Enel Green Power che con un controvalore di 2,6 miliardi di euro . Nel
2012, mentre in Italia il Governo Monti le provava tutte per privatizzare
l’Ente Ufficiali in congedo (senza peraltro riuscirvi), nel resto del mondo sono state
realizzate denazionalizzazioni per circa 250 miliardi, superando il record del
2010; oltre dieci volte, in termini nominali, di quanto realizzato nel 1998,
considerato nei testi universitari “l’anno d’oro” della prima ondata.
E’
utile mettere in relazione il ritorno delle privatizzazioni nel mondo con le
tendenze profonde delle economie emergenti. I governi dei Paesi emergenti
approfittano delle buone condizioni di mercato e della forte crescita delle
loro economie per valorizzare attraverso le privatizzazioni le loro imprese
pubbliche, aprendole ulteriormente al capitale privato nazionale e
internazionale, rendendole più solide finanziariamente e quindi più
competitive. Le privatizzazioni dei paesi avanzati sono invece legate alla
debolezza della congiuntura e alle conseguenti condizioni critiche della
finanza pubblica. A fronte del rischio di insolvenza degli stati sovrani, i
governi occidentali rilanciano quindi le privatizzazioni, unica politica che
consente di realizzare il necessario deleveraging
(riduzione dell’indebitamento) senza incidere sulla spesa pubblica e sul
welfare, fondamentale per la tenuta sociale in tempi di crisi.
Questa
‘terza ondata’ ha due caratteristiche che la differenziano dalle due
precedenti: a) il ruolo dei Paesi emergenti; b) la cessione di patrimonio immobiliare
e demaniale.
Per quanto
riguarda i Paesi emergenti, ad esempio, la Cina ha messo in vendita quote di
minoranza di banche, imprese del settore energetico, società di engineering ed
anche dell’audivisivo. Il Brasile sta venendo quote di aeroporti per finanziare
un programma d’investimenti di 20 miliardi di dollari Usa equivalenti.
Secondo
un’analisi comparata del Fondo monetario internazionale, in Italia il valore
degli asset non finanziari sotto il controllo delle pubbliche
amministrazioni ammonta all’80% del Pil; la metà è nelle mani delle autonomie
locali. È un campo dove non è facile muoversi, come dimostrano , tra l’altra, i
numerosi tentativi effettuati in Italia. Negli Stati Uniti, guidati da Barack
Obama (il quale non ha certo la reputazione di essere iper-liberista), il
Federal Bureau of Land Management ha recentemente pubblicato una mappa del
demanio federale da considerarsi in vendita; alcuni dei singoli Stati
dell’Unione hanno fatto molto di più, cedendo (con le dovute garanzie ambientali),
anche aree ‘protette’ sotto il profilo ambientale. In Gran Bretagna, dall’8 di
gennaio si possono acquistare terreni e immobili demaniali sul mercato aperto
tramite un meccanismo di aste telematiche.
Questo quadro indica che l’Italia rischia di
arrivare tardi, quanto meno sotto il profilo finanziario. Non si può pensare
che l’attuale situazione mondiale di liquidità resti a lungo – ci sono già
cenni di aumento dei tassi d’interesse. Arrivare quando il fiume dell’equity diventa secco, vuol dire non vendere
o mettere il banchetto dei supersaldi.
Un’occhiata a ritroso al ‘caso Italia’
E’
utile, a questo punto, dare un’occhiata a ritroso sul processo di
privatizzazioni in Italia, utilizzando , in gran misura, i rapporti annuali che
da quasi tre lustri produce Società
Libera. Non sono certo mancate altre analisi,
italiane e straniere; ad esempio, la Fondazione Eni Enrico Mattei ha condotto
periodicamente studi di qualità in materia e, prima delle elezioni del 2008,
l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato un Manuale
delle Riforme per la XVI Legislatura (che faceva perno su privatizzazioni e
liberalizzazioni. I rapporti di Società
Libera hanno il vantaggio della continuità e della omogeneità di approccio.
Anche
in Italia, prima della nascente ‘terza fase’, ci sono state due fasi che hanno
marcato il processo di privatizzazioni negli Anni Novanta: quella dal 1992 al
1995 di approntamento degli strumenti e quella dal 1996 al 2001 di
realizzazione della riduzione del peso delle imprese a controllo e
partecipazione statale nell’economia. All’inizio di questo secolo, ossia nel
2000 a dieci anni circa dall’avvio del
programma molto restava ancora da
cedere, in termini sia di partecipazioni di controllo, sia di quote
minoritarie. Lo Stato – stimava Società Libera- “potrebbe ottenere circa 108.000 miliardi
dalla vendita delle quote ancora detenute in società solo in parte cedute, ed
un ricavo nettamente più elevato dalla
cessione delle partecipazioni di maggioranza in altre aziende, quali le imprese
operanti nei settori della cantieristica navale, navigazione e difesa, le
Ferrovie, le Poste, e la Rai”. Naturalmente, queste stime presupponevano che si
fosse superata la fase di cedimento dei mercati azionari su scala mondiale, allora in corso a ragione
dell’implosione della bolla della “dot.com
economy”.
Nell’ipotesi
in cui fosse stata portata a compimento la cessione delle attività produttive
commerciabili, lo Stato avrebbe potuto chiudere l’era delle partecipazioni
statali con un guadagno molto consistente, anche se calcolato al netto
dell’indebitamento dalle stesse indotto. Inoltre, avrebbe potuto disporre di
mezzi per abbassare il debito pubblico in essere per un importo stimabile
attorno al 10 %, senza contare i proventi di un’eventuale vendita delle aziende
per i servizi pubblici locali. Ma perché ciò si realizzasse sarebbe stata necessaria, a parte un miglioramento delle
condizioni di mercato, una forte determinazione a dismettere la proprietà e a
reinterpretare il ruolo dello Stato nell’economia. Per riprendere un verso
cruciale tra i 12.000 di cui si compone il Faust
di Wolfgang Goethe Es irtt der
Mensch/solang’ er strebt – l’uomo può sbagliare nell’”impegno totale”, ma per
raggiungere obiettivi concreti è essenziale tale impegno. Utile sottolineare
che streben
è un verbo tedesco per cui non esiste un equivalente italiano: vuole dire
darsi da fare con una tenacia che rasenta la cocciutaggine.
Allora il Governo in
carica sembrava intenzionato ad andare avanti in queste direzioni: il Dpef 2001 -2003 prevedeva, infatti, di realizzare
120.000 miliardi di introiti nel corso del quinquennio che stava per iniziare,
un programma graduale giustificato alla
luce degli obiettivi che si è posto di “rafforzare gli assetti produttivi
nazionali” e di realizzare guadagni di efficienza nelle società da porre in
vendita. “Un programma di gradualità nelle vendite va, pertanto, bilanciato –
avvertiva Società Libera – con un
maggiore impegno nel superare le manchevolezze del contesto economico ed
istituzionale emerse nel processo di privatizzazione”. Prima fra esse era la
sperequazione esistente in termini di assetto concorrenziale nei settori in cui
le imprese pubbliche continuavano a godere di un rilevante potere di mercato.
Maggiori benefici per l’economia sarebbero potuti derivare da una politica
attiva volta a favorire l’ingresso di nuovi concorrenti sul mercato e a
livellare le posizioni concorrenziali.
Altre carenze andavano sanate su tre
fronti: contendibilità della proprietà delle società, trasparenza
dell’informazione disponibile per i mercati e protezione degli azionisti di
minoranza. Una revisione dei vincoli all’OPA e dei limiti di possesso
azionario, un’integrazione delle regole di controllo societario al fine di
ottenere completezza, tempestività e trasparenza nell’informazione diretta ai
mercati, e un potenziamento dei poteri d’intervento della Consob, inclusi
alcuni poteri di sanzione, apparivano passi necessari per elevare l’efficienza
allocativa dei mercati. In questa azione sarebbe auspicabile che si perseguisse
l’allineamento delle regole interne alle best
practices in vigore tra i paesi dell’euro; ancor più desiderabile sarebbe
un approccio diretto a stabilire a livello di area dell’euro un unico modello
generale di corporate governance per
le società. Verso le imprese ancora da privatizzare si richiedeva, invece,
un’azione più intensa volta a responsabilizzare il management nel perseguimento
dell’efficienza, benché sia difficile attendersi salti di produttività, data la
debolezza dei meccanismi di responsabilizzazione del management, quando sono in
mano politica. Nel settore bancario, il problema di una maggiore efficienza
nell’allocazione delle risorse si intrecciava tra l’altro con il nodo del ruolo
ancora preponderante delle fondazioni. Allora non si avvertivano quelle
barriere ideologiche, sociali e strutturali che negli anni Novanta avevano reso
arduo e a tratti impervio il cammino verso le privatizzazioni. Ma stava anche venendo meno la forte spinta esterna ad andare
avanti. Rimaneva una pressione indiretta, meno evidente, che derivava
dall’inarrestabile processo di apertura dei nostri mercati, e che non
necessariamente nel breve periodo spingeva a ricercare maggiore efficienza e
competitività a livello sia di impresa sia di sistema.
Come indicato nei Rapporti precedenti, i 13 anni appena conclusi possono essere divisi in due fasi. Nella prima, il Governo ed
il resto società hanno cercato di chiudere un capitolo importante dell’irta via
delle privatizzazioni. Si è portata a conclusione la liquidazione dell’IRI, si
è definito il nuovo regolamento delle fondazioni bancarie e soprattutto si è
fatto ricorso a tecniche innovative per predisporre la cessione a privati,
anche in campi come la vendita di immobili di proprietà pubblica ed ad
utilizzare lo strumento dei fondi pensione (allora in via di costituzione e
regolamentazione) pure al fine di favorire le denazionalizzazioni. La strada
sembrava, ed era, tutta in salita ma era promettente anche in quanto il Dpef
2003-2006 indicava quattro precise direzioni di marcia: a)vendita entro 18 mesi
dell’insieme delle partecipazioni ritenute non strategiche; b) cessione di una
quota delle partecipazioni più importanti che non intacchi il controllo sulle
imprese; c) ristrutturazione delle aziende ancora in mano pubblica per prepararle
alla vendita nel medio periodo; d) interventi per promuovere e tutelare la
concorrenza, specialmente nel settore dei servizi di pubblica utilità. Non
venia esplicitata la ponderazione tra questi quattro principali obiettivi,
ossia quella che gli economisti chiamo la funzione-obiettivo
di una politica economica , sia essa nazionale o di settore oppure ancora
attinente ai fattori. Inoltre, ci sarebbe
voluta tenacia e coraggio ( e cocciutaggine nei confronti di interessi
particolaristici costituiti, anche legittimo) per portare avanti un programma
di tale sorta. Ma, come si è detto, il verbo
streben non ha equivalenti in italiano.
Il 2007 sarebbe dovuto essere l’anno (ove non del completamento) quanto
meno di un considerevole progresso nel processo di privatizzazione iniziato
negli Anni Novanta. E’ stato, invece l’anno delle privatizzazioni mancate a ragione della crisi economica
internazionale che, cominciata negli Stati Uniti, ha comportato un ritorno alla
grande dell’intervento pubblico, in una prima fase, nel settore bancario e,
successivamente, nel resto dell’economia. Non sono mancati spiragli ed
opportunità nelle strategie di uscita dalla crisi economica , nonché
suggerimenti e proposte su come tornare a privatizzare.
Tuttavia, le Relazioni annuali sulle privatizzazioni al Parlamento del
Ministero dell’Economia e delle Finanze, MEF; mostrano una tendenza marcatamente
decrescente: la più recente, purtroppo, copre il periodo 2007-2010 riguarda principalmente vendite di
diritti di opzione nell’ambito di operazioni di aumento di capitale (Finmeccanica,
Enel, Seat), scambi di azioni tra Ministero e Cassa Depositi e Prestiti , e
cessioni d parte del Gruppo Fintecna per un totale di poco meno di un miliardo
di euro nei quattro anni presi in considerazione – appena 12 milioni circa nel
2010 (senza contare la cessione del 30% di Enel Green Power non trattata nella
Relazione in quanto non riguarda una privatizzazione in senso stretto). Nel
2011, nel nostro Paese le privatizzazioni sono state insignificanti : non si
sono trovati acquirenti per la Tirrenia e l’apertura al mercato del settore dei
servizi pubblici locali è stata bloccato da un referendum che ha lasciato il
comparto in un guazzabuglio normativo. Nel 2012 è stata tentata, ma non
realizzata, la privatizzazione dell’Ente Ufficiali in Congedo. Nel 2013 non ci
sono stati neppure tentativi, nonostante il record finanziario delle
privatizzazioni a livello mondiale.
Come
spesso accade, l’Italia è un caso a sé stante. L’esito del cosiddetto
referendum sulla privatizzazione dell’acqua, nonostante gli ottimi risultati di
gestione delle acque da parte di imprese private nella vicina Francia, ha reso più difficile la riapertura del fascicolo
‘privatizzazioni’ paradossalmente proprio nel momento,in cui un piano aggressivo
di privatizzazioni avrebbe dovuto essere in cima alla lista per risolvere , o
almeno alleviare, il nodo dello stock di debito pubblico e rimettere in moto
l’economia italiana.
Necessità di
una nuova ondata italiana di privatizzazioni?
E’ iniziata nel gennaio 2014 una
‘nuova ondata italiana delle privatizzazioni”?
Il
Consiglio dei Ministri del 24 gennaio 2014 ha deciso – dopo due anni di letargo in
materia di denazionalizzazioni – di dare l’avvio ad una fase di
‘privatizzazioni’, iniziando da quote di
minoranza di Poste Italiane ed Enav e facendo intendere tra breve verranno
cedute nuove quote dell’Eni.
Invece,
prendendo a prestito il titolo di un libro di René Dumont degli Anni Sessanta
Dumont, 1962) , occorre dire che ancora una volta L’Italie est mal partie perché le due parziali ‘privatizzazioni’
non contribuiscono che in misura insignificante alla riduzione dello stock di
debito pubblico, mantengono saldamente in mano pubblica la gestione dei due enti (non dando, quindi,
neanche l’illusione di un possibile miglioramento dell’efficienza), viene
ignorato l’unbundling (ossia la
necessità di separare attività distinte in aziende anche esse distinte: è
necessario per Poste Itraliane, di una netta separazione tra la linea d’affari
tradizionale (recapitare lettere e colli) e le attività bancarie- finanziarie,
nonché quelle commerciali. C’è il pericolo che si ripetano tutti gli errori
compiuti nelle denazionalizzazioni dei Paesi in via di sviluppo nella ‘ prima
ondata’ di privatizzazioni e documentate nel volume del 2002 della Banca
Mondiale ‘Bureaucrats in Business: the
Economics and Politics of Government Ownership’ (World Bank, 2002) Con
l’aggravante che la ‘privatizzazione’ di Poste Italiane, così come prospettata,
ha tutto il sapore di un’operazione finalizzata a celare alle autorità europee
aiuti di Stato ad un’Alitalia, che a detta di dirigenti (che vogliono restare
anonimi) ha in cassa liquidità per arrivare solo al 28 febbraio. Quindi, per
alimentare altri ‘bureaucrats in
business’, che hanno indossato la casacca di patrioti nella speranza che qualche Emiro li tragga d’impaccio.
Non propongo la lettura dello studio della Banca
Mondiale per celia. Leggendo il volume di dodici anni fa, si possono
individuare i correttivi per fare sì che operazioni, pur nate con il piede sbagliato, vengano messe su
un percorso positivo.
In
primo luogo, occorre pensionare il gruppo dirigente di due enti, particolarmente di Poste Italiane , bureaucrats troppo a lungo in business.In secondo luogo, l’unbundling è
essenziale. E’ chiara per percorso. Un lavoro dell’IBL (Stagnaro 2014)dettaglia
:“la privatizzazione di
Poste Italiane è certamente possibile e auspicabile, ma di non semplice
realizzabilità, perché la sua natura conglomerale costituisce un ostacolo alla
vendita immediata e integrale, che richiederebbe uno “spezzatino””.
Lo si può tramite “una trasparente societarizzazione delle diverse attività –
attualmente Bancoposta è separato dai servizi postali solo dal punto di vista
contabile – con un chiaro ruolo attribuito alla rete degli uffici postali, vero
asset strategico del gruppo attraverso cui vengono commercializzati prodotti e
servizi”. Altri Paesi che hanno proceduto alla privatizzazione
dell’operatore postale pubblico, che presentavano però un business postale in
forte attivo, hanno creato un sistema di governance con una rete di uffici
postali separata dalle società di business che commercializza, non
necessariamente in esclusiva, i prodotti e i servizi di tali società. Tale
soluzione non implicherebbe la trasformazione di Bancoposta in una banca tout court, evitando
così “il passaggio assai
oneroso dei dipendenti degli uffici postali al settore bancario, e lascerebbe
allo Stato la possibilità di sfruttare la rete postale per erogare propri
servizi ai cittadini“.
E la conclamata ‘partecipazione dei
lavoratori’ all’azionariato? In primo luogo, la privatizzazione delle Poste, se
effettiva avrà un effetto positivo sulla compagnia ed ai suoi azionisti, se le apre
effettivamente accesso ai capitali privati e se di saranno aumenti di
competitività trasformando, anche grazie ad Internet, il servizio in una vasta
operazione di logistica integrata ad alta tecnologia. Altrimenti i
lavoratori-azionisti rischieranno di trovarsi con un palmo di naso, come
avvenne ai lavoratori ed ai correntisti di diverse banche quando vennero
collocate sul mercato. In secondo luogo, se non pensiona il management e non si
cambia la governance i lavoratori rischieranno di fare le comparse.
Quando veniva insediato il Governo Renzi, era lecito e
doveroso chiedersi che fine stesse facendo il programma di privatizzazioni
delineato lo scorso novembre dal Governo Letta. Era un programma timido che
avrebbe dovuto fare entrare nelle casse dello stato tra i 10 e i 12 miliardi di
euro, di cui la metà sarebbe stata destinata a ridurre lo stock di debito
pubblico e l’altra metà a ricapitalizzare la Cassa depositi e prestiti. Il 12
febbraio, il ministro dell’Economia e delle Finanze uscente, Fabrizio
Saccomanni, sul punto quasi di lasciare il dicastero, stimava in 8-9 miliardi i
ricavi possibili da privatizzazioni nel 2014. Nelle 57 pagine del documento Impegno
Italia, presentato sempre il 12 febbraio, alle privatizzazioni è dedicato
un cenno fugace (senza quantizzazioni) al par. 31 (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, 2014). Ciò vuole dire che nell’arco di meno di due mesi, le
privatizzazioni si sono “rimpicciolite”.
Se ne è soprattutto ridotta la sfera di azione.
Riprendendo la documentazione diffusa a fine novembre, il programma sarebbe
dovuto decollare con la cessione delle partecipazioni di controllo di Sace e
Grandi Stazioni (partecipata, a sua volta, al 59,99% dalle Ferrovie
dello Stato), seguite da quote non di maggioranza di Enav, Stm,
Fincantieri e Cdp Reti. Inoltre, si sarebbe ceduto un pacchetto del 3% di
Eni - “ci consente di mobilizzare 2 miliardi senza scendere sotto il
30% e senza dunque perdere il controllo della società”, è stato detto il 21
novembre. In “secondo turno” si sarebbe messo mano a Poste e Fs. La via più
probabile da percorrere, in questo caso, sarebbe stata la quotazione in Borsa
delle società o soltanto di una parte, che nel caso di Fs sarebbe il
Frecciarossa, ovvero l’alta velocità.
Secondo le dichiarazioni del 12 febbraio -,
l’attenzione sembra essere solo su Poste ed Enav. La “privatizzazione” verrebbe
effettuata non tramite la strada principe della quotazione in Borsa, ma
attraverso la cessione di quote ai dipendenti (i cui rappresentanti
entrerebbero negli organi di gestione), secondo uno schema tipico, e vetusto, di quello che un quarto di secolo fa
veniva considerato il “capitalismo renano” (Albert 1991).
In effetti, il tema delle privatizzazioni si sta
intrecciando con quello di circa 600 cariche in scadenza in enti e società a
partecipazione pubblica. Saccomanni ha dato incarico a due imprese
internazionali di “cacciatori di teste” di cercare canditati con le qualifiche
appropriate in tutti gli Stati dell’Unione europea. Inoltre, un comitato di tre
saggi di alto spicco avrebbe vagliato il lavoro dei “cercatori di teste” ed
esaminato in particolare l’onorabilità dei potenziali candidati.
Il nuovo Esecutivo avrebbe in mente una strada differente:
un’agenzia “indipendente” alla quale affidare il compito di valutare il
patrimonio netto delle aziende al 31 dicembre 2013 e confrontarlo con il valore
che avevano a inizio mandato, nonché identificare conflitti di interesse
passati e presenti. Queste informazioni dovrebbero essere messe a disposizione
di una commissione composta da due rappresentanti del governo, due rappresentanti
delle commissioni Bilancio di Camera e Senato e tre rappresentanti dei
consumatori. Senza entrare nel merito di questa procedura (rispetto a quella
già in corso), sembra evidente che comporterà tempi piuttosto lunghi - mentre
le 600 cariche sono in scadenza tra aprile e maggio e la normativa sulla
“prorogatio” prevede un termine di 45 giorni.
L’accavallarsi della “ondata” di nomine con le
privatizzazioni, potrebbe fare sì che le seconde subiscano rinvii. O più
esattamente che vengano realizzate unicamente la cessioni di quote (di
minoranza) di Poste ed Enav.
È il caso di stappare bottiglie di champagne? Forse di
prosecco, che il Governo Monti non è riuscito a privatizzare neanche l’Ente
Ufficiali in Congedo. Ma si tratta di vere privatizzazioni se le burocrazie
statali (e le correnti politiche) mantengono il controllo? Inoltre, senza unbundling,
Poste continua ad assomigliare a un coreano chaebol. Ed Enav è un
monopolio tecnico.Quindi, siamo alle prese con privatizzazioni finte o, al
meglio, “desaparecide”. È comunque “desaparecido” il Comitato per le
Privatizzazioni, istituto con quel decreto legge “Salva Roma” che ha avuto
maligna sorte.
Privatizzazione Rai: la madre di tutte le
denazionalizzazioni
Nell’ipotesi il Governo Renzi segua
l’impostazione del suo predecessore in materia di privatizzazioni, e ,
auspicalmente, la ‘road map’ tracciata dall’Istituto Bruno Leoni e da Glocus,
ci sono due comparti che devono essere aggiunti con urgenza a quanto già
indicato : la Rai ed il ‘capitalismo regionale e municipale.
Quella della Rai è ‘la madre di tutte le
privatizzazioni’ per il ruolo che ha l’informazione nel mercato. Se un tempo ,
la statalizzazione della Rai poteva essere giustificata come monopolio tecnico
da forze politiche non democratiche, il passaggio dall’analogico al digitale
terrestre ha reso questo argomento risibile. Lo ha ribadito lo stesso Romano
Prodi il 25 febbraio in un convegno a Bologna nel corso del quale ha ricordato
i tentativi fatti nel 1997 , falliti a ragione dell’opposizione del ‘partito
Rai’. In nessun Paese, neanche nelle dittature dell’Asia centrale, esiste una
radio-tv di Stato con 15 canali; la stessa BBC (che ha governance ben
differente da quella della Rai ed un pubblico mondiale dato che opera in
inglese) ha soltanto cinque canali e pochissima pubblicità.
Sono decenni che la pubblicistica
europea si esprime in materia (Wildman, S. S.; Siwek, S. E, 1987) . In edizioni
precedenti di questo Rapporto abbiamo
illustrato le proposte formultate Steve H. Hanke. I suoi titoli includono;
Professore di Economia applicata e Direttore dell’Istituto di Economia
applicata, Economia internazionale e Imprese alla Johns Hopkins University di
Baltimora; Senior Fellow e Direttore del Progetto “Troubled Currencies” (valute
malate) al Cato Institute di Washington, D.C.; Senior Advisor alla Renmin
University dell’International Monetary Research Institute cinese a Beijing;
Special Counselor del Center for Financial Stability a New York; soprattutto è
noto come specialista in privatizzazioni. Si devono a lui, tra l’altro, i
programmi che hanno portato alla denazionalizzazioni di televisioni e radio in
numerosi Paesi. E’ certamente distinto e distante dalle nostre beghe.
Una SpA di Statoper la tv , come si è detto, era comprensibile come monopolio tecnico sino
all’inizio degli anni cinquanta. Da allora non lo è più. Tanto meno lo è da quando
il digitale terrestre rende possibile centinaia di canali per svolgere
“servizio pubblico” in linea con le esigenze dei territori. Non solo per
finanziare la Rai si utilizza l’imposta di scopo - il canone - più odiata dagli
italiani, ma, voltate le spalle a una funzione sociale e culturale, alla stessa
funzione di intrattenimento gli italiani hanno risposto voltando loro le spalle
alla Rai, come dimostrato dagli ascolti all’ultimo (costosissimo) Festival di
Sanremo. La stesse liti tra dirigenti Rai non interessano più nessuno, come
mostrato dal poco spazio dedicato all’ultima dalla stampa nazionale.
Può essere il momento di riproporre
un’idea che con Steve H. Hanke lanciai (senza grande successo) alcuni anni fa.
Visto il tracollo dei conti e degli ascolti, e il vento di novità, ora ha
maggiori chance. Nella situazione attuale - ammettiamolo con franchezza - la
Rai avrebbe difficoltà a trovare altri acquirenti che non fossero la Croce
Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas o simili (sempre che l’avessero a
prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di
un’azienda per decenni in monopolio e desiderosa di tornare a essere la sola
del settore in Italia, in Europa e - perché no?- nell’universo mondo).
Il
primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla
nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani, le cui pensioni
Inps sembrano essere sempre più striminzite. Il secondo consiste nel renderla
una vera public company. Il Partito democratico tanto si è speso per il secondo
pilastro previdenziale e per le public company che dovrebbe esserne lieto. Il
precedente importante è il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni
e i fondi pensioni in vaste aree dell’America Latina, dell’Europa Centro
Orientale e dell’Asia.
In pratica, ciò vuol dire dare azioni Rai a tutti gli
italiani. Seguendo quale metodo? Uno semplicissimo: l’età anagrafica, quanto
più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro,
Baudo, Carrà e quant’altro), avendo, dunque, titolo a un risarcimento con
azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un
lasso di tempo - ad esempio, cinque anni - a non essere poste sul mercato ma a
essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta
dell’interessato, il quale, però, manterrebbe tutti i diritti (elezione degli
organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti)
di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno).
Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti.
Unica regola: pareggio di bilancio. Il management
dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passibile di azione
di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se
l’indebitamento supera certi parametri la liquidazione diventerebbe
obbligatoria. E il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada
Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità
Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e
contro-informazione pullulano - tanto generalisti quanto specializzati.
Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il Partito
Rai vorrebbe tornare a tempi staraciani o leninisti, come la protagonista del
film “Goodbye, Lenin” di una ventina
d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno
imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo
azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a
canali culturali digitali).
In alternativa, si potrebbero prevedere agevolazioni
tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata)
che scelgono. Oppure ancora adottare forme di “tax credit” per chi produce
prodotti televisivi culturali - come avviene con successo nel settore del
cinema.
È un miraggio? No. È la modernizzazione, bellezza!
Il
‘socialismo reale’ comunale e regionale
Anche questo è tema affrontato nei
precedenti Rapporti . E’ urgente dare
al governo della Nazione gli strumenti per agire nella selva oscura del
“capitalismo regionale e comunale”, nell’ipotese che quello provinciale chiuda
con le Province a cui è collegato. Nessuno sa quante sono le società, le
aziende e gli enti partecipati da Regioni ed autonomie locali. Secondo le stime
più accreditate quelle “primarie” sarebbero almeno 6000. Ci sono poi le società
di secondo grado, “figlie” delle prime, in merito al cui numero gli istituti di
analisi e ricerca hanno rinunciato ad azzardare stime.
Si pensa male, ma probabilmente ci
si azzecca, se si ritiene che la ragion d’essere di numerose di queste società
figlie sia quella di aggirare (entro certi limiti) la normativa su appalti e
commesse. Alcuni “scandali” e vicende giudiziarie recenti suggeriscono che questa
interpretazione non è tanto lontana dalla realtà. Occorre aggiungere che in
molti casi, i sindacati non sono usciti particolarmente bene da queste storie;
anche su insistenza sindacale, i documenti del CNEL in questa materia auspicano
non la privatizzazione (linea tenuta dall’OCSE) ma la liberalizzazione del
“capitalismo regionale e comunale”.
La situazione non sarebbe
preoccupante se come auspicato da Giovanni Montemartini in età giolittiana le
“municipalizzate” o simile portassero un flusso di cassa positivo netto con il
quale Regioni e Comuni potessero dedicare risorse ai più deboli e poveri.
Sembrano, invece, essere una fucina di debiti. Secondo la banca dati del
Dipartimento della Funzione Pubblica (consultabile on line) i risultati
economici delle imprese del settore sono
crollati del 77%: nel solo 2011, ultimo anno monitorato, solo il 56% delle
società locali ha chiuso in utile, e meno del 7% degli utili è stato generato
da aziende interamente pubbliche. Secondo la Corte dei Conti ed il dossier predisposto
dal servizio studi della Camera dei Deputati (Camera dei Deputati 2012),
l’indebitamento netto di questo “capitalismo delle autonomie locali” si
porrebbe sui 35-40 miliardi, un fardello non indifferente.
I vari tentativi di porre rimedio
hanno fatto un buco nell’acqua. Lo scorso autunno i Comuni fino a 30mila
abitanti, cioè 96 municipi su 100, avrebbero dovuto privatizzare le proprie
società, ma questa ondata di cessioni non c’è stata. Troppe resistenze, troppe
regole contraddittorie, il solito valzer delle interpretazioni ha bloccato
tutto per l’ennesima volta. Tra le tante, la storia di questa mancata riforma è
esemplare della parabola vissuta da tante leggi di casa nostra.
La regola che vieta questa forma di
“socialismo reale” a livello locale dei
Comuni medio- piccoli è in «Gazzetta Ufficiale» dal 2010, quando la manovra
estiva firmata da Giulio Tremonti diede un ordine draconiano: fino a 30mila
abitanti non si possono costituire società partecipate, e i Comuni che le hanno
le devono cedere entro il 31 dicembre. Come sempre, a una legge così diretta è
seguita la pioggia di correttivi, che hanno preso il testo originario e l’hanno
diluito, prorogato, e soprattutto snaturato. La legge oggi in vigore salva
prima di tutto le società con i conti in ordine, per cui impone di vendere solo
quelle che zoppicano, e magari hanno subito negli ultimi anni perdite tali da
portare il capitale sotto i minimi di legge. Ovviamente, se messe in vendita,
quelle nei guai nessuno le compra. Se ne dovrebbe imporre la liquidazione.
Vicende
analoghe hanno avuto i tentativi di porre ordine nelle società “strumentali”,
cioè quelle che lavorano quasi esclusivamente per l’ente pubblico che le ha
create. A prenderle di mira è stata la spending
review: le ‘strumentali’ non servono a nulla e vanno vendute, perché è
meglio acquistare i servizi dal mercato. In questo caso i termini erano doppi:
la privatizzazione doveva avvenire entro il 30 giugno scorso, mentre a dicembre
dovrebbero chiudere i battenti quelle che non sono state privatizzate. Poi è
arrivata la solita proroga, al 31 dicembre, ma la Corte costituzionale,
chiamata in causa da Friuli Venezia Giulia, Campania, Puglia e Sardegna, a
luglio ha stabilito che, in base all’attuale Titolo V, la regola è
incostituzionale per le tutte le Regioni e per i Comuni nei territori a Statuto
speciale. A fare crescere il numero ed il peso delle società “strumentali”, è
stato anche un insieme di regole che hanno spinto le esternalizzazioni anche in
base al malinteso che «azienda» e «società», anche se emanazione diretta degli
enti pubblici, fossero sinonimo di modernità ed efficienza. Almeno fino al
2006, il Patto di stabilità interno sembrava costruito apposta per ingigantire
il fenomeno, che permetteva di far uscire dal bilancio dell’ente spese e
assunzioni in slalom rispetto ai vincoli di finanza pubblica.
Il
Presidente del Consiglio in carica è
stato Presidente di provincia e Sindaco di una grande città. Ha quindi
esperienza di questo comparto. Se non la coniuga con l’ambizione di modernizzare
l’Italia, diventerà poco più che un numero: una vittima in più del “socialismo
reale” a livello locale.
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