PER USCIRE DALLA CRISI,
OCCORRE CONOSCERLA
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completa
Roma - Forse a ragione della “Pax
Olimpica” (ossia dell’armistizio sui mercati anche perché i “mercatisti” sono
più occupati dai giochi in corso a Londra), pare essersi allentata la
discussione su come uscire dalla crisi pur se le previsioni del Fondo monetario
internazionale e dei 20 maggiori istituti di ricerca – quelli del “consensus” –
non annuncino nulla di buono.
In questa pausa arriva nelle librerie un breve libro di Massimo Calvi (Capire La Crisi, Rubettino 2012, euro 10) che vale la pena leggere tutto d’un fiato (è di 121 paginette) e portarsi in vacanza per il Ferragosto al fine di meditarlo. Non è una ricetta su quale sarà il mondo dopo la crisi o come tirarsi fuori dalle difficoltà – al pari di un saggio di un pari numero di pagine prodotto da Jacques Attali per dare lezioni all’universo “ed all’altre stelle”. Non è un lavoro tecnico: ne esistono a dozzine e da due anni ogni sera la rivista telematica “Journal of Economic Crisis” fornisce, a chi è interessato, tanto gli abstracts quanto i testi integrali degli studi di peso usciti nelle ultime 24 ore. È una riflessione scritta da un giornalista (Calvi è redattore capo del quotidiano Avvenire) con una formazione di studi letterari. Dato che per vedere come uscire dalla crisi, occorre, innanzitutto, capire di che si tratta, è un libro utile sia a chi fa politica sia alle massaie che si chiedono come il mondo si sia cacciato in tale “pasticciaccio brutto”. Il saggio è, in primo luogo, un racconto: prende l’avvio dalla bolla dei mutui americani (e delle determinanti alla sua base) per arrivare ai nodi del debito sovrano europeo. È un racconto semplice che ha il pregio, soprattutto, di illustrare in modo facilmente comprensibile avvenimenti contorti. Calvi mette correttamente l’accento (in pillole) su due filoni relativamente nuovi del pensiero economico: la teoria economica dell’informazione (ossia come l’informazione incide sui comportamenti economici) e la neuro-economia (ossia il nesso tra psicologia e comportamenti economici).
È anche un libro a tesi: alla base della crisi ci sarebbe “l’avidità”, il volersi arricchire unicamente per il piacere di arricchirsi. “Non è la ricchezza a dovere essere temuta, ma il modo in cui viene realizzata e le sue finalità”. In altri termini, per uscire dalla crisi occorre tornare al mondo dei Buddenbrook che hanno fortuna quando si arricchiscono non per il loro tornaconto ma per il bene di Lubecca (la comunità in cui vivono) ma decadono quando vengono motivati solo dai loro interessi. La discesa dei Buddenbrook – vale la pena rammentarlo – inizia con una speculazione ostentativo-immobiliare: l’acquisto di una grande casa da sogno.
È una tesi per alcuni aspetti discutibile. Oltre vent’anni fa, chiesi all’economista Uri Dadush (ora con il Carnegie Endowment for Peace ma allora autore di un documento fondamentale della Banca Mondiale sulla povertà) quale fosse a suo avviso la molla per uscire dall’indigenza. Si parlava in privato, a cena a casa mia a Roma. Disse brutalmente: “Greed”, un termine più forte di “avidità” e cugino quasi di “rapacità”. I due vocaboli hanno anche connotazioni differenti: l’“avido” opera a spese del prossimo, il “greedy” ha una voglia inarrestabile di successo e ricchezza e non si cura del prossimo anche se non cerca necessariamente di approfittarsene. Senza dubbio, “l’avidità” o “the greed” vanno temperati da senso sociale, da controllo sociale e da regole condivise.
Tuttavia, non è questo il nodo centrale: il brillante saggio di Calvi (e il 95 per cento della letteratura sulla crisi iniziata alla metà del primo decennio di questo secolo) non tratta della profonda trasformazione economica mondiale in corso dalla metà degli anni Novanta. Dal 1830 (quando il 43 per cento del Pil mondiale era prodotto da India e Cina e oltre il 90 per cento della popolazione mondiale era in mera sussistenza) alla fine del secolo scorso, il progresso tecnologico è stato monopolio dei Paesi atlantici e di pochi altri. Nella secondo metà degli anni novanta, tale monopolio è stato perso e mentre gli ex-monopolisti entravano in crisi circa un miliardo di uomini e donne uscivano dalla povertà assoluta. È in corso un riassetto dell’economia mondiale in tutti i suoi aspetti (produzione, consumi) di cui è difficile vedere dimensioni e profondità. Quando tra il 1830 e il 1880, si affermò il progresso tecnologico (e il relativo monopolio) – ricordiamolo – ci fu uno sconvolgimento profondo: nacquero – è vero – le democrazie liberali ma per due secoli circa ci furono guerre dopo guerre sia nel gruppo dei monopolisti sia per conquistare spazi nel resto del mondo. Per grave che sia, la crisi di oggi è poca cosa rispetto a quella sofferta per un secolo e mezzo circa.
Per uscirne occorre riflettere anche su queste dimensioni. (ilVelino/AGV)
In questa pausa arriva nelle librerie un breve libro di Massimo Calvi (Capire La Crisi, Rubettino 2012, euro 10) che vale la pena leggere tutto d’un fiato (è di 121 paginette) e portarsi in vacanza per il Ferragosto al fine di meditarlo. Non è una ricetta su quale sarà il mondo dopo la crisi o come tirarsi fuori dalle difficoltà – al pari di un saggio di un pari numero di pagine prodotto da Jacques Attali per dare lezioni all’universo “ed all’altre stelle”. Non è un lavoro tecnico: ne esistono a dozzine e da due anni ogni sera la rivista telematica “Journal of Economic Crisis” fornisce, a chi è interessato, tanto gli abstracts quanto i testi integrali degli studi di peso usciti nelle ultime 24 ore. È una riflessione scritta da un giornalista (Calvi è redattore capo del quotidiano Avvenire) con una formazione di studi letterari. Dato che per vedere come uscire dalla crisi, occorre, innanzitutto, capire di che si tratta, è un libro utile sia a chi fa politica sia alle massaie che si chiedono come il mondo si sia cacciato in tale “pasticciaccio brutto”. Il saggio è, in primo luogo, un racconto: prende l’avvio dalla bolla dei mutui americani (e delle determinanti alla sua base) per arrivare ai nodi del debito sovrano europeo. È un racconto semplice che ha il pregio, soprattutto, di illustrare in modo facilmente comprensibile avvenimenti contorti. Calvi mette correttamente l’accento (in pillole) su due filoni relativamente nuovi del pensiero economico: la teoria economica dell’informazione (ossia come l’informazione incide sui comportamenti economici) e la neuro-economia (ossia il nesso tra psicologia e comportamenti economici).
È anche un libro a tesi: alla base della crisi ci sarebbe “l’avidità”, il volersi arricchire unicamente per il piacere di arricchirsi. “Non è la ricchezza a dovere essere temuta, ma il modo in cui viene realizzata e le sue finalità”. In altri termini, per uscire dalla crisi occorre tornare al mondo dei Buddenbrook che hanno fortuna quando si arricchiscono non per il loro tornaconto ma per il bene di Lubecca (la comunità in cui vivono) ma decadono quando vengono motivati solo dai loro interessi. La discesa dei Buddenbrook – vale la pena rammentarlo – inizia con una speculazione ostentativo-immobiliare: l’acquisto di una grande casa da sogno.
È una tesi per alcuni aspetti discutibile. Oltre vent’anni fa, chiesi all’economista Uri Dadush (ora con il Carnegie Endowment for Peace ma allora autore di un documento fondamentale della Banca Mondiale sulla povertà) quale fosse a suo avviso la molla per uscire dall’indigenza. Si parlava in privato, a cena a casa mia a Roma. Disse brutalmente: “Greed”, un termine più forte di “avidità” e cugino quasi di “rapacità”. I due vocaboli hanno anche connotazioni differenti: l’“avido” opera a spese del prossimo, il “greedy” ha una voglia inarrestabile di successo e ricchezza e non si cura del prossimo anche se non cerca necessariamente di approfittarsene. Senza dubbio, “l’avidità” o “the greed” vanno temperati da senso sociale, da controllo sociale e da regole condivise.
Tuttavia, non è questo il nodo centrale: il brillante saggio di Calvi (e il 95 per cento della letteratura sulla crisi iniziata alla metà del primo decennio di questo secolo) non tratta della profonda trasformazione economica mondiale in corso dalla metà degli anni Novanta. Dal 1830 (quando il 43 per cento del Pil mondiale era prodotto da India e Cina e oltre il 90 per cento della popolazione mondiale era in mera sussistenza) alla fine del secolo scorso, il progresso tecnologico è stato monopolio dei Paesi atlantici e di pochi altri. Nella secondo metà degli anni novanta, tale monopolio è stato perso e mentre gli ex-monopolisti entravano in crisi circa un miliardo di uomini e donne uscivano dalla povertà assoluta. È in corso un riassetto dell’economia mondiale in tutti i suoi aspetti (produzione, consumi) di cui è difficile vedere dimensioni e profondità. Quando tra il 1830 e il 1880, si affermò il progresso tecnologico (e il relativo monopolio) – ricordiamolo – ci fu uno sconvolgimento profondo: nacquero – è vero – le democrazie liberali ma per due secoli circa ci furono guerre dopo guerre sia nel gruppo dei monopolisti sia per conquistare spazi nel resto del mondo. Per grave che sia, la crisi di oggi è poca cosa rispetto a quella sofferta per un secolo e mezzo circa.
Per uscirne occorre riflettere anche su queste dimensioni. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe
Pennisi) 30 Luglio 2012 19:47
ioni.
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