l’analisi Il
rischio è una trappola della liquidità
DI GIUSEPPE PENNISI
L a politica monetaria è diventata leggermente più espansiva, più «accomodante», in termini tecnici, ossia maggiormente diretta a sostenere obiettivi di crescita. La Banca centrale europea riuscirà nell’intento? In effetti, l’Eurotower non ha mai fatto mancare liquidità al sistema. Da febbraio i principali indicatori di offerta di moneta mostrano una leggera accelerazione (crescono ad un tasso attorno al 2,5-3% l’anno, mentre l’economia reale dell’eurozona ristagna e in numerosi Stati membri è in recessione).
Ieri mattina la Bce ha diramato un’analisi da cui si deduceva che in maggio (ultimo mese per il quale si dispone di consuntivi) la situazione dei tassi effettivi praticati dalle banche a famiglie e imprese non è sostanzialmente mutata: i tassi restano bassi.
Negli Anni Settanta, quando in Italia, si guardava alla Banca d’Itlaia per uscire dalla recessione, l’allora governatore Guido Carli dava conto delle misure di stimolo prese aggiungendo: «Il cavallo non beve ». D’altronde lo stesso John Maynard Keynes, in alcune pagine della Teoria Generale, aveva esaminato casi di cosiddetta «trappola della liquidità»: individui, famiglie e imprese mettono sotto il materasso lla liquidità loro offerta perché prefigurano tempi bui in cui ne avranno esigenza. Tesorizzano invece di investire o migliorare livello e qualità dei consumi.
L’attuale recessione è differente rispetto a quelle di cui abbiamo avuto esperienza nel secondo Dopoguerra. Non è stata determinata da un rallentamento, prima, e da un crollo, poi, della produzione. Oppure da un’improvvisa contrazione dei consumi. Nell’eurozona (e negli Stati Uniti) si è alle prese con quella che Richard C. Koo – economista nippo-americano che guida da anni il servizio studi del Nomura Research Institute – chiama acutamente una balance sheets recession, ovvero una recessione dei conti profitti e perdite. Ciò si verifica quando alcuni asset perdono drasticamente di valore, causando crisi debitorie più o meno gravi, e gli obiettivi d’investimento di individui, famiglie e imprese mutano drasticamente: dalla «massimizzazione del profitto» si passa alla «minimizzazione dell’indebitamento » (per timore di nuove crisi debitorie). Per questo motivo la crisi è tanto grave e la stagnazione, accompagnata da momenti di recessione, minaccia di essere duratura.
Di fronte a recessioni di questa natura – lo prova l’alto debito pubblico giapponese e il fatto che nelle Isole del Sol Levante ci siano stati per decenni tassi d’interessi reali negativi – una politica monetaria «accomodante» incide poco. Indubbiamente, è migliore di una restrittiva che potrebbe scatenare la recessione in depressione.
L’Italia non è in una «balance sheets recession» particolarmente acuta a ragione della prudenza e del proprio sistema bancario e delle famiglie. Ma è contornata da Paesi che lo sono (Francia, Spagna, Grecia, Portogallo, anche parte della Germania). È un vaso di coccio tra vasi di ferro. Dato il forte grado d’integrazione europea, viene trascinata dagli altri: la nostra recessione tradizionale dipende in gran misura dalle recessioni altrui. Inoltre, l’aumento della pressione fiscale rischia di trasformare in depressione la recessione.
Per tornare a crescere ci vorrebbero un’iniezione di fiducia, un obiettivo condiviso in cui credere, una liberalizzazione dei mercati protetti, un miglioramento della qualità delle risorse umane – gli ingredienti che fanno crescere competitività e produttività.
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Di fronte a recessioni in cui i consumi sono stagnanti e manca la fiducia, anche una politica monetaria accomodante incide poco
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