Il "downgrade" della Merkel fa più male di quello di Moody's
martedì 17 luglio 2012
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Il doppio downgrading dei titoli
pubblici italiani da parte di Moody’s - e la probabilità che Fitch, Standard
& Poor’s e di Dagong (la sempre più importante agenzia di rating
cinese) facciano altrettanto - non è da prendersi sottogamba. Sarebbe errato
credere che i suoi effetti si siano esauriti in poche ore perché l’asta dei Btp
triennali è andata meglio delle previsioni e perché gli stessi eurocrati di
Bruxelles hanno mostrato segni d’indignazione sulla tempistica della
pubblicazione della notizia. Prova ne é che ieri lo spread tendeva a
raggiungere la soglia dei 500 punti base. Ancora più sbagliato mettere il
downgrading di Moody’s in rapporto con indagini giudiziarie per
aggiotaggio da parte di alcune procure.
Gli effetti del credit rating sono come
un’onda lunga che, nel caso dell’Italia, potrà sferrare i suoi primi colpi
venerdì 20 luglio ed estendersi durante un’estate che si presenta rovente e
che, se non vengono prese misure adeguate di politica interna (non solo di
politica economica), sarà caratterizzata da forte volatilità. La Cancelliera
tedesca Angela Merkel ha già metabolizzato le analisi di Moody’s ricordando che
così come non ci sono pasti gratis, non si può pensare ad aiuti senza adeguato
monitoraggio. Come dice il proverbio americano, beggars cannot be choosy -
chi tende la mano per chiedere non può essere selettivo oppure mostrarsi
addirittura con la puzza sotto il naso.
Andiamo con ordine. In altra sede si è raccontato
come il rating nasca in Olanda nel Seicento in parallelo con la
nascita di intraprese (come la Compagnie delle Indie) che si finanziavano con
emissione d’obbligazioni e come John Moody abbia iniziato la sua attività nel
1910 a ragione del caos nei debiti sovrani emessi da numerosi Stati
dell’Unione; allora Moody venne visto come un benefattore che offriva, da
privato, un “bene pubblico” di cui c’era una forte esigenza per orientare
famiglie e imprese.
Un lavoro recente di Stéphane Destraz e Raphaël
Lahaye della paludata Ecole Superieure de Commerce et de Management (Escem),
due specialisti francesi che non hanno mostrato grande simpatie per agenzie
prevalentemente anglosassoni, ricorda come gli accordi di Basilea sulla
capitalizzazione delle istituzioni finanziarie hanno aumentato il ruolo delle
tre maggiori agenzie, un triopolio dominante sul mercato sino all’arrivo di
Dagong sulla scena internazionale. Ci sono state anche proposte di farle
diventare “pubbliche”, incoraggiarne una fusione e dare all’organizzazione
risultante uno stato analogo a quello delle istituzioni finanziarie
internazionali. Il lavoro è sui tavoli dei principali Governi dell’eurozona;
speriamo sia stato letto anche a Via Venti Settembre.
Oggi si spara sul pianista e si enfatizzano gli
errori di giudizio commessi da questa o quella agenzia nelle prime fasi della
crisi finanziaria. L’analisi di Stéphane Destraz e Raphaël Lahaye si basa su un
notevole apparato statistico e documenta che c’è una forte correlazione tra le
insolvenze effettive e le insolvenze anticipate dalle agenzie, anche quando i
“fondamentali” macro-economici paiono essere stati messi sul percorso giusto.
Nell’immaginario generale si pensa che le agenzie
utilizzino raffinati strumenti tecnici per orientare (e a volte manipolare) i
mercati. Le loro analisi, invece, tengono conto soprattutto del “rischio
politico” come determinante della solvibilità. Dato che i sovrani europei avevano
la brutta abitudine di non pagare i propri debiti, se le Repubbliche che
componevano gli Usa ne avessero seguito l’esempio, non sarebbe mai esistito,
in Nord America e nel resto del mondo, un mercato dei capitali funzionante. Una
percentuale importante dei dipendenti delle agenzie sono analisti politici con
studi in Scienze politiche. Molti miei studenti alla School of Advanced
International Studies della Università Johns Hopkins hanno trovato lavoro a
Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s.
In effetti, ciò che può preoccupa dell’Italia non
è questo o quel numeretto sull’andamento dei conti pubblici, ma la
frammentazione politica e la mancanza di una visione condivisa su dove andare e
come andarci. Nel contempo, il Pil ha perso 12 punti percentuali dall’inizio
della crisi, siamo all’87simo posto (su 183 economie) delle classifiche della
Banca mondiale in materia di disciplina giuridica delle imprese (ma al 158simo
per la tutela della correttezza dei contratti ed al 134simo per la tassazione),
siamo secondi solo alla Turchia in termini di violazioni dei diritti umani, non
riusciamo a trovare un’intesa su come contare i voti di elezioni che avranno
luogo tra pochi mesi, proponiamo programmi di privatizzazioni identici a quelli
che hanno fatto cilecca solo pochi anni fa, alcuni vagheggiano ascese al
Quirinale e concentrano i propri sforzi in campagne mediatiche nonostante pare
che anche le timide misure del decreto legge sulla spesa del 6 luglio verranno
annacquate (così come è successo al tanto vantato “Cresci Italia”).
In questo contesto, dobbiamo rimborsare 70
miliardi di titoli pubblici entro il 15 settembre. I potenziali acquirenti
guarderanno agli indici sintetici di Moody’s e degli altri; si spaventerebbero
forse ancora di più se esaminassero il “sottostante” di cui si sono tracciati i
lineamenti principali. Gridare contro la speculazione in un’estate che
s’annuncia bollente è come lanciare gli strilli “all’untore” di manzoniana
memoria.
Il primo colpo - si è detto - lo avremo il 20
luglio quando i Ministri europei dovrebbero cominciare ad affinare le misure anti-spread.
Il downgrading di Moody’s rafforza le posizioni di coloro che pensano
che l’anti-spread sia solo una perdita di tempo. Ove non una foglia di
fico di un’Italia senza bussola. La Cancelliera Angela Merkel - lo abbiamo
ricordato in apertura - lo ha già detto chiaro e forte.
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