SPENDING REVIEW/ Ecco perché i
tagli del governo non bastano
mercoledì 4 luglio 2012
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Quelli
che Richard Nixon chiamava “gli gnomi di Zurigo” e che oggi vengono, molto più
appropriatamente, chiamati “i mercati” guardano all’inizio zoppicante della spending review. In effetti, il riassetto quantitativo e qualitativo
della spesa pubblica è uno dei punti centrali del “sottostante” che governa gli
spread (si veda quanto scritto su queste pagine lo scorso 23 giugno). Dopo
tanta attesa, la prima “uscita pubblica” non è andata bene: minacce di scioperi
generali, linguaggio da trivio alla Camera dei Deputati. Non certo ciò che
l’Esecutivo Monti e i Commissari chiamati a coadiuvarlo auspicavano o si
attendevano.
Il
primo “round” non è andato bene per ragioni sia di procedura, sia soprattutto
di sostanza. Le ragioni di procedura riguardano l’avere, incautamente, attivato
il processo di consultazione con le Parti sociali e le autonomie locali quale
delineato nel “Patto Sociale” del 1993. Ciò che andava bene 19 anni fa in un
contesto in cui c’era una prospettiva di entrare da protagonisti in Europa non
funziona necessariamente oggi. Purtroppo gran parte di coloro che siedono nei
banchi del Governo sono reduci di quella stagione e se ne sono innamorati tanto
quanto i “legionari” del Carnaro si erano innamorati del “Natale di sangue”
nell’avventura fiumana.
Non
hanno metabolizzato che la giovinezza è l’unica stagione che non ritorna.
Riproporre ora quanto funzionò quattro lustri fa è come se i nostri eroi ormai
in gran misura prossimi alla settantina tentassero corteggiamenti con gli
aperitivi e le musiche di fine Novecento-inizio Ventunesimo secolo. Andrebbero
certamente in bianco. L’aspetto è tanto più curioso perché un Governo
“tecnico”, retto da una “strana maggioranza”, non deve seguire alcun rito
“concertatorio”. Basta che presenti un programma ben articolato di misure al
Parlamento, lasciando alle Camere decidere se approvarlo o se prendersi la
responsabilità di chiedere al “popolo sovrano”, andando al più presto alle
urne.
A
questo errore procedurale si aggiunge il fatto che le misure proposte
assomigliano non tanto al risultato di una review, quanto
alla consueta manovra estiva, fatta di aumenti di pressione tributaria (il
paziente, l’Italia, già moribondo, darebbe l’ultimo respiro) ma di “tagli” non
molto differenti di quelli di tremontiana memoria. Il colto e l’inclito (dalle
Parti sociali a molti parlamentari) non capisce perché utilizzare termini in
inglese per servire la solita zuppa. Quindi, si inalbera. Pure scostumatamente.
Sarebbe bastato porre l’accento su the quality of spending - parallelo di scienza delle finanze della quality of mercy con cui, travestita da avvocato, Porzia scioglie i
vari nodi ne Il mercante
di Venezia di William Shakespeare.
Non
basta tagliare le spese pubbliche con bassa utilità per la collettività.
Occorre migliorare la qualità della spesa sia complessivamente, sia nei singoli
comparti. Il primo passo consiste in un migliore equilibrio tra spese pubbliche
di parte corrente per consumi collettivi e spesa pubblica in conto capitale
tale da attivare, in fase di cantiere, capacità produttiva non utilizzata (un
tasso di disoccupazione al 10% delle forze lavoro indica che in Italia ce n’è,
purtroppo, a iosa) e di aumentare la capacità produttiva multifattoriale grazie
al miglioramento del capitale fisso sociale.
L’emergenza
è duplice: da un lato, l’investimento pubblico in percentuale del Pil è giunto
all’1,2% (rispetto a una media europea attorno al 2,5%), da un altro è dagli
anni Ottanta che non si aggiornano parametri di valutazione e criteri di scelta
per le spese pubbliche. In breve, da recenti studi della Banca d’Italia e da un
documento di Osservazioni e Proposte del Cnel, emergono questi temi:
1-
Le politiche e gli investimenti privati (sempre più chiamati a partecipare al
finanziamento di infrastrutture) devono remunerare gli investitori a un tasso
che non sia inferiore al costo opportunità del capitale. Quali misure adottare
quando una politica o un investimento ha un valore economico per la
collettività nel lungo periodo (una gamma di investimenti che va dalla tutela
del patrimonio artistico e paesaggistico alla televisione digitale terrestre),
ma potrebbe avere risultati insoddisfacenti nel breve periodo? In passato, il
divario veniva colmato da varie forme di aiuto di Stato - oggi non più
contemplabili a ragione non solo della normativa Ue, ma anche dei vincoli di
bilancio. Occorre, quindi, pensare di colmare il divario con la regolazione,
nazionale o europea? I grandi investimenti europei - ad esempio le reti
transeuropee - non dovrebbero essere il grimaldello per una regolazione
europea? Specialmente una “regolazione” che dia certezze di stabilità e di non
essere frequentemente mutata sotto la spinta di interessi particolaristici pure
di breve periodo.
2 -
Le politiche e le spese pubbliche pure di parte corrente (a supporto del
miglioramento della qualità della vita) avranno effetti anche sulle generazioni
future, che in molti casi ne saranno le principali beneficiarie. Ciò solleva
due ordini di interrogativi. In primo luogo, secondo Ocse e Banca mondiale, il
tasso di attualizzazione utilizzato per valutare l’investimento pubblico in
molti Paesi Ue (a lungo la Francia è stata un’eccezione) e dalla Commissione
europea riflette il vincolo di bilancio pubblico e misura il declino del valore
sociale delle risorse pubbliche liberamente utilizzabili. Non è il caso di
seguire invece la più antica proposta di scegliere un tasso di attualizzazione
che rispecchi il tasso d’interesse sui consumi. Secondo stime disponibili
(anche da me effettuate), il primo approccio comporta un tasso di
attualizzazione sull’8%, il secondo sul 2,5%; il primo non “cattura” quindi costi
e benefici alla collettività nel lungo periodo. Né l’uno, né l’altro, poi,
“catturano” costi e benefici alle generazioni future: due scuole si confrontano
su “come farlo”, ambedue sono cariche di implicazioni di politica pubblica. Non
è il caso di promuovere un’intesa a livello europeo?
3 -
Le metodologie di analisi delle politiche e della spesa pubblica hanno posto
l’accento sin dagli anni Settanta su come coniugare efficienza (intensa nel
senso di redditività) con efficacia (intensa nel senso di distribuzione del
reddito e, in un secondo tempo, delle opportunità). In materia si sono
sviluppati metodi, tecniche e procedure basate sulle “ponderazioni variabili”
dei costi e dei benefici a seconda dei livelli di reddito o di consumo delle
varie categorie di soggetti coinvolti nell’“intrapresa”. Nel Ventunesimo
secolo, e in Paesi avanzati a economia di mercato, l’enfasi si deve spostare su
come coniugare il breve e medio con il lungo termine. Dato che previsioni e
scenari (specialmente se controfattuali) a lungo termine sono ardui da
costruire con un grado realistico di accuratezza, non è il caso di spostare
l’accento dall’analisi del rischio all’analisi dell’incertezza?
Si
tratta d’interrogativi non solo tecnici, ma anche politici a cui la spending review avrebbe dovuto iniziare a dare una risposta sin dalla
sua prima fase. Tale risposta avrebbe costituito quelle cornice alla singole
misure che oggi pare mancare.
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