In questi giorni ricorre il centenario della concezione e commozione de “Il canto della terra” di Gustav Mahler, la cui prima esecuzione tuttavia avvenne il 20 Novembre 1911, pochi mesi dopo la morte del compositore che non era riuscito a completare la decima sinfonia e che considerava “il canto” il suo addio alla vita. Nell’immaginario del pubblico meno accorto, Mahler condivide, con Wagner, una leggenda: quella di essere stato un compositore fluviale, con partiture di lunghezza smisurata e organici orchestrali straripanti. Al pari di Wagner, Mahler compose relativamente poche ore di musica. Wagner rivoluzionò il teatro in musica, ove non la musica occidentale in tutti i suoi canoni, con 13 drammi (e pochissime composizioni orchestrali). Mahler ci ha lasciato appena dieci sinfonie (di cui l’ultima incompiuta) e 43 lieder (uno di meno di quelli contenuti nel solo ciclo del “libro dei lieder spagnoli” di Hugo Wolf) un numero comunque modesto rispetto a quelli di Schubert, Schumann e Brahms). Mahler, tuttavia, rivoluzionò la sinfonia togliendola da quelle strutture formali che erano rimaste sostanzialmente immutata da Haydn a Beethoven, aggiungendovi voci e cori e fondendola con il lied (si pensi al quarto tempo della seconda, della terza e della quarta sinfonia, nonché al quinto della terza). Nella specifica forma del lied, poi, innovò la struttura giustapponendo la voce non ad un pianoforte od ad un piccolo organico ma al grande (anzi enorme) organico orchestrale post-wagneriane tipico delle sue sinfonie. C’è un’altra dimensione: nei leider mahleriani è presente quella “musica a programma” (i “poemi sinfonici” nel lessico italiano) tipici della musica tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento che in molte polemiche accademiche e giornalistiche, Mahler affermava di respingere in toto.
Questi aspetti che potrebbero sembrare tecnici sottoindentono una dimensione spesso trascurata: i lieder sono, ancor più delle sinfonie, espressione della crisi della cultura europea in generale, e di quella Mittleuropea in particolare, in una fase a cavallo tra i due secoli. Nei lieder- dal giovanile “canto del lamento” all’estremo “canto della terra”- Mahler ricorre alla fiaba (medioevale, rinascimentale, cinese) per meditare su come egli stesso percepisce un cambiamento che avverte essere epocale ma del cui futuro non afferra i contorni (per avendo piena consapevolezza di quelli del passato e del presente). Forse proprio a ragione di questo aspetto, i lieder di Mahler sono stati relativamente poco “popolari” (almeno in Italia) per decenni, mentre adesso (in una nuova fase di transizione tra due secoli) attirano vasto pubblico, soprattutto di giovani.
Negli ultimi anni a Roma, si sono potuti ascoltare, fianco a fianco, il “canto del viandante” (o, in traduzione letterale, di “uno che va”) nella stagione dei concerti dell’Accademia di Santa Cecilia e “il canto della terra” (in quelle sia dell’Accademia di Santa Cecilia sia dell’Orchestra di Roma e del Lazio, l’Orl, sia dell’Orchestra sinfonica di Roma). Il “canto del viandante” è il risultato di un’infelice passione del compositore per una cantante. E’ un lavoro nato di getto quando il compositore era tra i 24 ed i 25 anni e si stava appena accostando alle grandi cattedrali sinfoniche. I lieder, messi in musica da Mahler su propri testi, non sono il ritrattato di un pallido innamorato schubertiano; in essi si avverte un effetto di straniamento doloroso, “fin de siècle” invece che byroniano. I colori sono già quasi quelli dell’espressionismo, più che quelli del tardo romanticismo.
.Il più conosciuto “canto della terra” è uno struggente commiato dal mondo, in chiave di trovata serenità Zen, opera di cui poco prima di morire il grande direttore d’orchestra Jascha Horenstein disse “una delle cose più tristi di lasciare il mondo è il non potere più ascoltare il Das Lied von der Erde”.
Das Lied von der Erde non richiede presentazione . Nelll’esecuzione romana più recente a cui ho assistito (il 21 aprile scorso all’Auditorium di Via della Conciliazione) Francesco La Vecchia ha superato brillantemente la maggiore difficoltà: l’equilibrio tra il vasto organico orchestrale e le due voci. Ha dato enfasi ai fiati (oboe, fagotti, controfagotti) ed alle arpe in modo da soffondere l’esecuzione di quel senso di melanconia in viaggio verso l’estrema serenità che è il tratto saliente della partitura. Kostantin Andreyev è un tenore lirico con una tessitura che gli permette ruoli spinti. E’ dotato di un timbro chiaro, trasparente, e di un legato morbido. E’ stato ascoltato di recente a Roma in “Rusalka”. Un suo limite è il volume; ha dato una lettura, nel complesso, generosa ed agile di una parte scritta, però, per un baritenore e spesso affidata ad un baritono; particolarmente brillante nel Der Trunkene in Frühling . Di grande livello Silvia Pasini (che sembra sia transitando da una vocalità da mezzosoprano ad una da contralto, come richiesto dalla partitura) specialmente nello struggente, e per l’interprete terrificante, Der Abschied finale.
martedì 30 settembre 2008
LA BUFERA SEMBRA PASSATA MA ORA LA CAI DEVE MOSTRARE DI SAPERE VOLARE L'Occidentale 30 settembre
Terminato il tormentone Alitalia (che all’inizio di novembre diventerà la sigla di una “bad company” in via di liquidazione), comincia l’avventura della Cai. Ora, la Cai deve dimostrare, a sé stessa ed al resto del mondo, di volere volare e di saperlo fare bene con una discontinuità di gestione aziendale chiara e netta rispetto a chi la ha preceduta.
La Cai nasce in un modo molto particolare. In primo luogo, nel suo certificato di nascita è scritto a tutto tondo che non si è trattato di parto naturale; è stato un parto assistito dalla volontà politica del Governo in carica (nonostante gli sforzi dell’opposizione per impedirlo all’insegna dello stalinista “tanto peggio, tanto meglio”) e soprattutto dai contribuenti. Dopo avere sovvenziato per decenni Alitalia, essi hanno dato la loro disponibilità a sobbarcarsi i costi inerenti alla “bad company” ed agli ammortizzatori sociali davvero straordinari, nel senso etimologico di “fuori dall’ordinario” , per gli esuberi. Quindi, per utilizzare il lessico di moda in questo primo scorcio di XXI secolo, la Cai ha l’onere di dare prova di “Corporate Social Responsibility” (CSR) rispetto al Paese, al sistema Italia ed ai cittadini- contribuenti. In linea con quanto sostengono i nostri amici dell’Istituto Bruno Leoni, la prima prova di CSR consiste nel fare e macinare utili, presto e bene. E’ interesse personalistico ma legittimissimo anche dei dipendenti della Cai poiché parte degli utili verranno “retrocessi” (termini tecnico per dire stornati) alle loro buste paga.
In secondo luogo, la Cai non è né una s.p.a. ad azionariato diffuso (la “public company” di cui si insegna in università) né una s.p.a. con un nocciolo duro (e potente, anche se piccolo). Nasce come una “friendly company”, una s.p.a. tra imprese “amiche” (pur se si tratta d’amorosi affetti basati su legittimi interessi finanziari). Sono tanto “friendly” e si fidano tanto gli uni degli altri che hanno sottoscritto un “patto di non bracconaggio”: nessuno farà il franco tiratore vendendo a terzi non appena si presenta la prima buona occasione, ma resteranno uniti, nello stesso letto e sotto le stesse lenzuola, per almeno cinque anni. In questo periodo, decideranno insieme chi altro accogliere sul materasso. Naturalmente, chi ha versato (o si è impegnato a versare) di più, conta anche di più di chi ha versato (o si è impegnato a versare) di meno. Negli ultimi anni, si è sviluppata una linea di letteratura d’economia e management d’impresa sulla “friendly company”; ad Oxford, si conferisce un M.Sc. su questi temi dopo un apposito corso di laurea magistrale. Le “friendly companies” tendono ad essere di più difficile gestione delle public companies e della s.p.a. in cui un nocciolo duro ha lo scettro del comando. Un apposito sito web (www.bnet.com) ne traccia meriti e difficoltà anche con un apposito forum. I processi decisionali tendono ad essere relativamente lunghi. Il tasso di differenze di punti di vista o, se vogliamo, di litigiosità tra i “friends” tende ad essere comparativamente elevato. Questi attributi poco si addicono ad una compagnia aerea che voglia volare a livello intercontinentale (e guadagnarci). In Italia, molti ricordano una “friendly company” per pubblicare un settimanale; hanno avuto breve durata tanto la “company” quanto il periodico.
La giornata si vede dal mattino. Le prime prove sono imminenti: la scelta del partner straniero e la decisione sugli hub. Tra i friends, c’è chi tira la giacchetta del management da una parte e chi la tira dall’altra. La politica politicante pare avere ripreso ad essere “pasticciona” ed “impicciona” (secondo la definizione di uno che se ne intende, il Prof. Giuliano Amato). Chi, come il vostro “choniqueur” non si intende di impicci e pasticci, ma di trasporto aereo aprirebbe le porte sia a AirFranceKlm sia a Lufthansa (pronta a entrare una volta che il Comm. Carlo Toto ha scelto di dedicarsi ad altre intraprese). Se le due compagnie straniere accettano, la Cai diventerebbe la cerniera (e la cassa di compensazione) del trasporto aereo europeo ed avrebbe due “hub” , Malpensa (rivolta al Nord) e Fiumicino (rivolta al Mediterraneo ed al Sud). Il nodo sarebbe se entrare in SkyTeam o in StarAlliance. Restare in SkyTeam sarebbe più semplice e si potrebbe trovare un accordo con StarAlliance guardando ad un futuro inevitabilmente rivolto ad una maggiore concentrazione e di compagnie e d’alleanze.
I prossimi giorni ci diranno se il volere volare della Cai è un’effettiva promessa di sviluppo.
La Cai nasce in un modo molto particolare. In primo luogo, nel suo certificato di nascita è scritto a tutto tondo che non si è trattato di parto naturale; è stato un parto assistito dalla volontà politica del Governo in carica (nonostante gli sforzi dell’opposizione per impedirlo all’insegna dello stalinista “tanto peggio, tanto meglio”) e soprattutto dai contribuenti. Dopo avere sovvenziato per decenni Alitalia, essi hanno dato la loro disponibilità a sobbarcarsi i costi inerenti alla “bad company” ed agli ammortizzatori sociali davvero straordinari, nel senso etimologico di “fuori dall’ordinario” , per gli esuberi. Quindi, per utilizzare il lessico di moda in questo primo scorcio di XXI secolo, la Cai ha l’onere di dare prova di “Corporate Social Responsibility” (CSR) rispetto al Paese, al sistema Italia ed ai cittadini- contribuenti. In linea con quanto sostengono i nostri amici dell’Istituto Bruno Leoni, la prima prova di CSR consiste nel fare e macinare utili, presto e bene. E’ interesse personalistico ma legittimissimo anche dei dipendenti della Cai poiché parte degli utili verranno “retrocessi” (termini tecnico per dire stornati) alle loro buste paga.
In secondo luogo, la Cai non è né una s.p.a. ad azionariato diffuso (la “public company” di cui si insegna in università) né una s.p.a. con un nocciolo duro (e potente, anche se piccolo). Nasce come una “friendly company”, una s.p.a. tra imprese “amiche” (pur se si tratta d’amorosi affetti basati su legittimi interessi finanziari). Sono tanto “friendly” e si fidano tanto gli uni degli altri che hanno sottoscritto un “patto di non bracconaggio”: nessuno farà il franco tiratore vendendo a terzi non appena si presenta la prima buona occasione, ma resteranno uniti, nello stesso letto e sotto le stesse lenzuola, per almeno cinque anni. In questo periodo, decideranno insieme chi altro accogliere sul materasso. Naturalmente, chi ha versato (o si è impegnato a versare) di più, conta anche di più di chi ha versato (o si è impegnato a versare) di meno. Negli ultimi anni, si è sviluppata una linea di letteratura d’economia e management d’impresa sulla “friendly company”; ad Oxford, si conferisce un M.Sc. su questi temi dopo un apposito corso di laurea magistrale. Le “friendly companies” tendono ad essere di più difficile gestione delle public companies e della s.p.a. in cui un nocciolo duro ha lo scettro del comando. Un apposito sito web (www.bnet.com) ne traccia meriti e difficoltà anche con un apposito forum. I processi decisionali tendono ad essere relativamente lunghi. Il tasso di differenze di punti di vista o, se vogliamo, di litigiosità tra i “friends” tende ad essere comparativamente elevato. Questi attributi poco si addicono ad una compagnia aerea che voglia volare a livello intercontinentale (e guadagnarci). In Italia, molti ricordano una “friendly company” per pubblicare un settimanale; hanno avuto breve durata tanto la “company” quanto il periodico.
La giornata si vede dal mattino. Le prime prove sono imminenti: la scelta del partner straniero e la decisione sugli hub. Tra i friends, c’è chi tira la giacchetta del management da una parte e chi la tira dall’altra. La politica politicante pare avere ripreso ad essere “pasticciona” ed “impicciona” (secondo la definizione di uno che se ne intende, il Prof. Giuliano Amato). Chi, come il vostro “choniqueur” non si intende di impicci e pasticci, ma di trasporto aereo aprirebbe le porte sia a AirFranceKlm sia a Lufthansa (pronta a entrare una volta che il Comm. Carlo Toto ha scelto di dedicarsi ad altre intraprese). Se le due compagnie straniere accettano, la Cai diventerebbe la cerniera (e la cassa di compensazione) del trasporto aereo europeo ed avrebbe due “hub” , Malpensa (rivolta al Nord) e Fiumicino (rivolta al Mediterraneo ed al Sud). Il nodo sarebbe se entrare in SkyTeam o in StarAlliance. Restare in SkyTeam sarebbe più semplice e si potrebbe trovare un accordo con StarAlliance guardando ad un futuro inevitabilmente rivolto ad una maggiore concentrazione e di compagnie e d’alleanze.
I prossimi giorni ci diranno se il volere volare della Cai è un’effettiva promessa di sviluppo.
L’UNIONE EUROPEA DOVRA’ RISCRIVERE LE REGOLE DEL PATTO DI STABILITA’ Libero 30 settembre
La notte tra sabato 27 e domenica 28 settembre, chi è alle redini della Bce, e delle maggiori banche centrali europee, ha dormito male. Notte agitata pure per numerosi Ministri dell’Economia e delle Finanze del Vecchio Continente. Dalle agenzie di stampa britanniche giungevano lanci sulla sempre più probabile ed imminente nazionalizzazione della Bradford & Bringley, colosso d’Oltremanica dei crediti ipotecari, le cui azioni avevano raggiunto, allo Stock Exchange di Londra, quotazioni rasoterra venerdì 26 settembre. L’insonnia e l’agitazione non erano provocate tanto dalla notizia in sé e per sé – negli ultimi due anni il Governo di Sua Maestà è intervenuto già più volte per salvataggi di questa o quella supposta “roccia” finanziaria- quanto dal ricordo della conferenza in video (riservatissima) che i Ministri economici e finanziari del G7 avevano avuto il pomeriggio di lunedì 22 settembre (ad un orario scelto per assicurare la partecipazione dei Ministri Usa e nipponico). La aveva chiesta Herny Paulson (il cui programma per tentare di uscire dal pasticciaccio brutto è stato ampliamente illustrato e commentato su queste colonne) per sollecitare gli europei ed i giapponesi a partecipare anche loro al “pacchetto”. Il Tesoro Usa avverte che il problema si manifesta in America ma ha caratteristiche mondiali (se non altro a ragione dell’integrazione dei mercati finanziari). Possibilisti i giapponesi (anche il Ministro delle Finanze in carica unicamente per gli affari correnti, poiché il nuovo titolare del dicastero, Taro Aso, è stato indicato sabato 27 settembre); negativi in linea di massima gli europei, in base all’ipotesi secondo cui la crisi è frutto di travalicamenti e trasgressioni molto “yankee” mentre la Vecchia Europa è saggia, non starnazza e non si sollazza nel “suprime” ed adotta criteri prudenziali tanto nel fare prestiti quanto nel comprare e vendere titolo strutturati di finanza derivata. La mattina di mercoledì 24 settembre, alla consueta prima colazione con il Presidente della Federal Reserve Ben Bernanke in una saletta del Cosmos Club in quel di Massachusetts Ave, N.W. della capitale Usa, Paulson si è mostrato “deluso” dalla reazione europea.
La notte tra il 27 ed il 28 settembre, “delusi” erano, invece, gli europei: la probabile nazionalizzazione di Bradford & Bringley è stata presa come una doccia fredda che ha convalidato ciò che i servizi studi dell’Ocse e del Fondo monetario (Fmi) sostengono da tempo, in analisi riservate e non pubblicate nelle collezioni dei Working Papers: la crisi scoppiata l’estate del 2007 negli Usa (ma prevista da molti, tra cui il vostro “chroniqueur” sin dall’autunno 2006) è un onda lunga il cui contagio al resto del mondo ha una linea di trasmissione molto specifica (che si aggiunge a quelle tradizionali analizzate ai tempi delle crisi latino-americana – fine anni 80- ed asiatica- fine anni 90): lo squilibrio finanziario internazionale – in parole povere, il disavanzo dei conti con l’estero Usa, con tanto di super-euro e mini-dollaro, e la crescita di sovrappiù (e di fondi sovrani per utilizzarlo) in altri Paesi. In una prima fase, le analisi di Ocse e Fmi temevano che la malattia avrebbe attaccato le banche asiatiche in quanto strettamente connesse a quelle Usa (anche a ragione della progressiva integrazione del bacino del Pacifico in atto da circa 20 anni molto più velocemente di quanto si ritenga in Europa); in effetti, proprio la settimana scorsa ci sono stati timori e tremori a Hong Kong (tra cui la corsa a ritirare depositi dalla Bank of East Asia di cui alcune agenzie di stampa specializzate avevano paventato una crisi di liquidità).
Adesso, invece, gli occhi sono puntati sull’Europa. La risposta degli europei è che si può riposare tra due guanciali poiché l’indicatore di base utilizzato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) – il rapporto medio tra capitale effettivamente versato e attività – è un comodo 8%. Si dorme, però, male se si prende un altro indicatore Bri (più eloquente nell’attuale contesto mondiale) il rapporto tra capitale e leva finanziaria: è 1,2% alla Deutsche Bank, 2,4% a Barclays e 2,1% alla Ubs – tassi da notti insonni, invece che tranquille. Il sistema bancario europeo appare ancora più vulnerabile se si tiene conto della proliferazione del “bancassurance” negli ultimi due lustri – poiché alcune attività di assicurazione (segnatamente quelle di riassicurazione delle attività bancarie hanno sovente una copertura modesta). Le banche francesi (abbastanza novizie all’internazionalizzazione) ci sono buttate alla grande, tramite il “bancassurance” dagli Anni 90; adesso alcune di loro potrebbero essere contagiate di brutto. Inoltre, se il programma all’esame del Congresso Usa va in porto, avrebbe l’effetto di ridurre drasticamente la “valorizzazione di mercato” di titoli strutturati ora nei portafogli di banche europee (quelle francesi, con vaste propaggini in Italia, ne risulterebbero, ancora una volta, particolarmente colpite). A rendere il quadro ancora più complicato (ove mai ce ne fosse bisogno), nel quarto trimestre 2008 ( e nel primo semestre 2009) giungono a maturazione, sulle piazze europee, oltre 1.000 miliardi di euro di obbligazioni bancarie; rischiano di trovare un mercato secco in quanto i risparmiatori stanno migrando, alla grande, verso titoli ipersicuri – la tipica “flight to qualità”, fuga verso chi infonde maggior sicurezza (il 24 settembre all’asta d’obbligazioni Bce la domanda è stata il triplo dell’offerta). Se da queste considerazioni generali si passa ad episodi specifici, è eloquente il versamento da parte della Kfw tedesca (istituto pubblico affine, per certi aspetti, alla nostra Cassa depositi e prestiti) di 300 milioni di euro ( per uno swap mai andato a buon fine) nelle casse di Lehman Brothers poche ore prima che quest’ultima portasse i libri in tribunale e dichiarasse fallimento. Dal dramma gotico (pieno di spettri e trabocchetti) si passa al “vaudeville”.
Un saggio di Stan Leibowitz della Università del Texas in uscita in gennaio in un lavoro collettaneo (“Anatomy of a Train Wreck: Causes of the Mortgage Meltdown”) - l’autore è lieto di offrire le bozze per commenti (liebowit@utdallas.edu) ad economisti e specialisti di finanza - analizza non solamente le radici della crisi mettendo in evidenza come le caratteristiche “yankee” del “subprime” siano una baggianata inventata in Europa da chi è, zingarellianamente parlando, ignorante di economia e finanza. Delinea come quanto esploso negli Usa rappresenta una tipologia di mina che può facilmente esplodere altrove (in quanto si annida in numerosi istituti). Il lavoro merita di essere letto nel Continente non tanto per individuare possibili paratie ma per porsi sin da oggi interrogativi che potranno essere centrali alle discussioni di politica economica (nell’Ue e nei singoli Stati membri) dei prossimi mesi.
Sono, in estrema sintesi, i seguenti: può l’Ue, ed in particolare l’area dell’euro, rispondere all’invito (o “grido di dolore” che dir si voglia) di Paulson e varare un piano di riassetto transatlantico? In caso non possa, o non voglia, farlo adesso, sarà in grado di mettere in atto qualcosa d’analogo, a livello europeo meglio se nazionale, ove e quando l’onda lunga dello tsumani finanziario arriverà sulle sponde del continente vecchio, mettendo in crisi non solo questo o quell’istituto ma i mercati finanziari in generale? Se , volente o nolente, l’Ue dovrà farlo, cosa succederà al “patto di stabilità”: Una sospensione? Per quanto tempo? Una revisione? Quando profonda?
Utilizzare la tattica dello struzzo sarebbe fatale. Il dibattito va aperto adesso.
La notte tra il 27 ed il 28 settembre, “delusi” erano, invece, gli europei: la probabile nazionalizzazione di Bradford & Bringley è stata presa come una doccia fredda che ha convalidato ciò che i servizi studi dell’Ocse e del Fondo monetario (Fmi) sostengono da tempo, in analisi riservate e non pubblicate nelle collezioni dei Working Papers: la crisi scoppiata l’estate del 2007 negli Usa (ma prevista da molti, tra cui il vostro “chroniqueur” sin dall’autunno 2006) è un onda lunga il cui contagio al resto del mondo ha una linea di trasmissione molto specifica (che si aggiunge a quelle tradizionali analizzate ai tempi delle crisi latino-americana – fine anni 80- ed asiatica- fine anni 90): lo squilibrio finanziario internazionale – in parole povere, il disavanzo dei conti con l’estero Usa, con tanto di super-euro e mini-dollaro, e la crescita di sovrappiù (e di fondi sovrani per utilizzarlo) in altri Paesi. In una prima fase, le analisi di Ocse e Fmi temevano che la malattia avrebbe attaccato le banche asiatiche in quanto strettamente connesse a quelle Usa (anche a ragione della progressiva integrazione del bacino del Pacifico in atto da circa 20 anni molto più velocemente di quanto si ritenga in Europa); in effetti, proprio la settimana scorsa ci sono stati timori e tremori a Hong Kong (tra cui la corsa a ritirare depositi dalla Bank of East Asia di cui alcune agenzie di stampa specializzate avevano paventato una crisi di liquidità).
Adesso, invece, gli occhi sono puntati sull’Europa. La risposta degli europei è che si può riposare tra due guanciali poiché l’indicatore di base utilizzato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) – il rapporto medio tra capitale effettivamente versato e attività – è un comodo 8%. Si dorme, però, male se si prende un altro indicatore Bri (più eloquente nell’attuale contesto mondiale) il rapporto tra capitale e leva finanziaria: è 1,2% alla Deutsche Bank, 2,4% a Barclays e 2,1% alla Ubs – tassi da notti insonni, invece che tranquille. Il sistema bancario europeo appare ancora più vulnerabile se si tiene conto della proliferazione del “bancassurance” negli ultimi due lustri – poiché alcune attività di assicurazione (segnatamente quelle di riassicurazione delle attività bancarie hanno sovente una copertura modesta). Le banche francesi (abbastanza novizie all’internazionalizzazione) ci sono buttate alla grande, tramite il “bancassurance” dagli Anni 90; adesso alcune di loro potrebbero essere contagiate di brutto. Inoltre, se il programma all’esame del Congresso Usa va in porto, avrebbe l’effetto di ridurre drasticamente la “valorizzazione di mercato” di titoli strutturati ora nei portafogli di banche europee (quelle francesi, con vaste propaggini in Italia, ne risulterebbero, ancora una volta, particolarmente colpite). A rendere il quadro ancora più complicato (ove mai ce ne fosse bisogno), nel quarto trimestre 2008 ( e nel primo semestre 2009) giungono a maturazione, sulle piazze europee, oltre 1.000 miliardi di euro di obbligazioni bancarie; rischiano di trovare un mercato secco in quanto i risparmiatori stanno migrando, alla grande, verso titoli ipersicuri – la tipica “flight to qualità”, fuga verso chi infonde maggior sicurezza (il 24 settembre all’asta d’obbligazioni Bce la domanda è stata il triplo dell’offerta). Se da queste considerazioni generali si passa ad episodi specifici, è eloquente il versamento da parte della Kfw tedesca (istituto pubblico affine, per certi aspetti, alla nostra Cassa depositi e prestiti) di 300 milioni di euro ( per uno swap mai andato a buon fine) nelle casse di Lehman Brothers poche ore prima che quest’ultima portasse i libri in tribunale e dichiarasse fallimento. Dal dramma gotico (pieno di spettri e trabocchetti) si passa al “vaudeville”.
Un saggio di Stan Leibowitz della Università del Texas in uscita in gennaio in un lavoro collettaneo (“Anatomy of a Train Wreck: Causes of the Mortgage Meltdown”) - l’autore è lieto di offrire le bozze per commenti (liebowit@utdallas.edu) ad economisti e specialisti di finanza - analizza non solamente le radici della crisi mettendo in evidenza come le caratteristiche “yankee” del “subprime” siano una baggianata inventata in Europa da chi è, zingarellianamente parlando, ignorante di economia e finanza. Delinea come quanto esploso negli Usa rappresenta una tipologia di mina che può facilmente esplodere altrove (in quanto si annida in numerosi istituti). Il lavoro merita di essere letto nel Continente non tanto per individuare possibili paratie ma per porsi sin da oggi interrogativi che potranno essere centrali alle discussioni di politica economica (nell’Ue e nei singoli Stati membri) dei prossimi mesi.
Sono, in estrema sintesi, i seguenti: può l’Ue, ed in particolare l’area dell’euro, rispondere all’invito (o “grido di dolore” che dir si voglia) di Paulson e varare un piano di riassetto transatlantico? In caso non possa, o non voglia, farlo adesso, sarà in grado di mettere in atto qualcosa d’analogo, a livello europeo meglio se nazionale, ove e quando l’onda lunga dello tsumani finanziario arriverà sulle sponde del continente vecchio, mettendo in crisi non solo questo o quell’istituto ma i mercati finanziari in generale? Se , volente o nolente, l’Ue dovrà farlo, cosa succederà al “patto di stabilità”: Una sospensione? Per quanto tempo? Una revisione? Quando profonda?
Utilizzare la tattica dello struzzo sarebbe fatale. Il dibattito va aperto adesso.
lunedì 29 settembre 2008
MARZANO RIPARTE DALL’EXPORT CON IL LAZIO IN PRIMA FILA
Ora che il timore del fallimento di Alitalia (e di un mancato decollo della Cai) sembrano essere dietro di noi, si può guardare al futuro di Roma e del Lazio senza il timore di un tracollo dell’occupazione e dei consumi (vedi Il Tempo del 20 e del 22 settembre). Si, dunque, può ragionare sul futuro della capitale e dell’area che la circonda guardando principalmente ai dati positivi, apparsi (tra tante notizie negative) in questi ultimi giorni.
Il più importante è l’andamento davvero straordinario (nel senso etimologico di “fuori dell’ordinario”) registrato dall’export laziale nel primo semestre del 2008: un aumento in valore del 10,8% rispetto allo stesso periodo del 2007, quasi il doppio da quanto riportato dal Belpaese nel suo complesso (5,9%). Più della metà delle vendite all’estero del Lazio è partito da Roma. Ciò è avvenuto nonostante il rallentamento del commercio mondiale in generale e la crescita pallida (ove non negativa) nelle due aree dove tradizionalmente le esportazioni italiane più si dirigono (Usa e Germania). L’economista Beniamino Quintieri, che è stato Presidente dell’Ice ed ora guida la Fondazione Manlio Masi (istituto di ricerca specializzato nei problemi del commercio internazionale) avverte che probabilmente l’exploit “molto lusinghiero” non si ripeterà nella seconda parte dell’anno, non tanto a ragione della scarsa capacità dell’industria di Roma e del suo hinterland quanto a motivo della crisi finanziaria, ed economica, in viaggio dagli Stati Uniti verso l’Europa.
Se si scava nei dati ci si accorge che a trainare l’esportazione di Roma e del Lazio (e, quindi, a creare occupazione, reddito e benessere diffuso) è stato soprattutto il polo chimico-farmaceutico a cavallo tra varie province (Frosinone e Latina oltre che la capitale) ma il cui fulcro strategico è nella città eterna. Un polo poco notato e poco conosciuto ma che dimostra , come Il Tempo, sottolinea da mesi, come lo sviluppo e la migliore distribuzione dei redditi non sono nel “modello Roma” di Disneyland sul Tevere e di Bolllywood (la Hollywood indiana attorno a Bombay) tra i Sette Colli immaginato da WV (Walter Veltroni) e soci ma in quella sinergia tra ricerca, innovazione e tecnologia in cui le università pubbliche e private ed il manifatturiero avanzato possono essere la molla. Un modello che rifiuta l’effimero. Tanto della bigiotteria quanto della moda stracciona (che in epoca veltroniana si volevano fare diventare caratteristici di Roma).
Ciò non vuole dire che il turismo, l’audiovisivo, i media ed i servizi in generale non abbiano un ruolo da giocare. Lo hanno come in tutte le metropoli che ospitano una capitale (anzi nel caso specifico due capitali, quella della Repubblica italiana e quella dello Stato Città del Vaticano). E’ difficile pensare, però, che possano essere la molla della modernizzazione senza una ricerca scientifica solida ed un’industria di punta. Sta alla Commisione Marzano, ormai in via d’insediamento, fornirci ricette puntuali.
Il più importante è l’andamento davvero straordinario (nel senso etimologico di “fuori dell’ordinario”) registrato dall’export laziale nel primo semestre del 2008: un aumento in valore del 10,8% rispetto allo stesso periodo del 2007, quasi il doppio da quanto riportato dal Belpaese nel suo complesso (5,9%). Più della metà delle vendite all’estero del Lazio è partito da Roma. Ciò è avvenuto nonostante il rallentamento del commercio mondiale in generale e la crescita pallida (ove non negativa) nelle due aree dove tradizionalmente le esportazioni italiane più si dirigono (Usa e Germania). L’economista Beniamino Quintieri, che è stato Presidente dell’Ice ed ora guida la Fondazione Manlio Masi (istituto di ricerca specializzato nei problemi del commercio internazionale) avverte che probabilmente l’exploit “molto lusinghiero” non si ripeterà nella seconda parte dell’anno, non tanto a ragione della scarsa capacità dell’industria di Roma e del suo hinterland quanto a motivo della crisi finanziaria, ed economica, in viaggio dagli Stati Uniti verso l’Europa.
Se si scava nei dati ci si accorge che a trainare l’esportazione di Roma e del Lazio (e, quindi, a creare occupazione, reddito e benessere diffuso) è stato soprattutto il polo chimico-farmaceutico a cavallo tra varie province (Frosinone e Latina oltre che la capitale) ma il cui fulcro strategico è nella città eterna. Un polo poco notato e poco conosciuto ma che dimostra , come Il Tempo, sottolinea da mesi, come lo sviluppo e la migliore distribuzione dei redditi non sono nel “modello Roma” di Disneyland sul Tevere e di Bolllywood (la Hollywood indiana attorno a Bombay) tra i Sette Colli immaginato da WV (Walter Veltroni) e soci ma in quella sinergia tra ricerca, innovazione e tecnologia in cui le università pubbliche e private ed il manifatturiero avanzato possono essere la molla. Un modello che rifiuta l’effimero. Tanto della bigiotteria quanto della moda stracciona (che in epoca veltroniana si volevano fare diventare caratteristici di Roma).
Ciò non vuole dire che il turismo, l’audiovisivo, i media ed i servizi in generale non abbiano un ruolo da giocare. Lo hanno come in tutte le metropoli che ospitano una capitale (anzi nel caso specifico due capitali, quella della Repubblica italiana e quella dello Stato Città del Vaticano). E’ difficile pensare, però, che possano essere la molla della modernizzazione senza una ricerca scientifica solida ed un’industria di punta. Sta alla Commisione Marzano, ormai in via d’insediamento, fornirci ricette puntuali.
domenica 28 settembre 2008
IL”BELCANTO” FA IL GIRO DEL MONDO E NON VA INCONTRO A NESSUNA CRISI, L'Occidentale 28 settembre
E’ in atto una forte ripresa d’interesse , specialmente da parte del pubblico giovane, per il “belcanto” , modo di fare il teatro in musica che ebbe il suo fulgore tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento e che premia la vocalità, utilizzando orchestra ed orchestrazione a supporto della voce. Bellini, Rossini e in parte Donizetti ne furono i protagonisti. E’ un fenomeno internazionale che si può toccare con mano, ad esempio, scorrendo i programmi dei teatri asiatici (disponibili, ad esempio, sul sito www.operabase.com). Perché non lanciare una strategia del “recitare cantando” mutuando il motto “recitar cantando” coniato dalla Camerata fiorentina circa 400 anni fa? Oltre il 30% circa degli abbonati al mensile di divulgazione musicale “L’Opera”, scritta in italiano e per italiani, è all’estero; il 20% in Giappone e Corea. Stanno crescendo anche gli abbonati in Cina. L’italiano del teatro d’opera è diventato la seconda lingua franca – dopo l’inglese – in gran parte dell’Asia dove il pubblico è assetato dal desiderio d’opera italiana. Le convenzioni del teatro in musica nostrano (dal barocco al melodramma al verismo ed anche alla contemporaneità più sfrenata) non sono molto dissimili da quelle del “Gran Kabuki” giapponese e di alcune delle numerosissime forme d’opera cinese: di norma, c’è un intreccio più o meno complicato che viene declinato coniugando parole con canto ed accompagnamento musicale, nonché danza ed effetti speciali. A questo scopo, in tutte le maggiori città asiatiche sono state costruiti nuovissimi teatri d’opera (uno dei più recenti e dei più avveniristici è quello di Singapore); i sovrintendenti locali stanchi di ingaggiare compagnie dell’Asia centrale a basso prezzo (e scarsa qualità), invitano con sempre maggiore frequenza le produzioni dei nostri teatri, mentre i loro conservatorii e le loro scuole di canto addestrano i loro connazionali. Non è un caso che il tenore di maggior successo (anche in Italia) di questi ultimi anni è il giovane Francesco Hong –un coreano- riconosciuto internazionalmente come uno dei pochi in grado di cantare “Il Trovatore” così come Verdi lo scrisse.
In questo quadro, di grande interesse“I Puritani” di Vincenzo Bellini, di cui ha debuttato a Palermo un nuovo allestimento co-prodotto dai teatri di Bologna e Cagliari e destinato ad andare al Festival di Savonlinna prima ed in tournée in Giappone. Uno sforzo comune di tre fondazioni per potare in giro per il mondo l’opera belliniana rifulge in tutto il suo splendore. Raramente rappresentata proprio per le difficoltà vocali che presenta (le acrobazie del soprano nella “scena della pazzia”, i do acuti ed i re maggiore del tenore, i duetti, terzetti e quartetti che scivolano in concertati). Ultima opera di Bellini, è apoteosi del “belcanto”, è basata su un libretto piuttosto improbabile in cui amori, intrighi, tradimenti (finti o presunti), e pazzia ai tempi delle guerre Cromwell con colpo di scena e lieto fine L’allestimento di Pier’Alli è concepito per essere adattato a palcoscenici differenti-Il grigio domina i primi due atti, mentre il verde e l’azzurro caratterizzano il terzo. Sotto il profilo musicale, la concertazione di Friederich Haider (autore di una buona incisione dell’opera), dilata i tempi per dare risalto all’atmosfera melanconica (di un Bellini 35nne ma già molto malato). Grande successo della protagonista la bella e giovanissima Désirée Rancatore già da diversi anni sulla scena internazionale; palermitana: il pubblico le concede più applausi a scena aperta di quelli che le attribuirebbe il critico. Sublime in certi momenti, ma un po’ sciatta in altri; sulla cresta dell’onda da quando aveva 20 anni (e debuttò all’improvviso nel “Rosenkavalier”) dovrebbe contenere le offerte che le giungono da tutto il mondo ed evitare ruoli (quelli verdiani) ancora poco adatti alla sua vocalità “belcantistica”. Ottimo il registro, la tessitura, il fraseggio e la sparata dei “do” e dei “re” di José Bros nel primo atto, ma una stecca nel duetto del terzo atto lo ha costretto a rifuggiarsi nel falsetto, scontentando, e scatenando, il pubblico. Nelle repliche ed in tournée, senza lo stress della “prima”, potrà evitare i numerosi trabocchetti di un ruolo terrificante. Carlo Colombara conferma di essere un basso di coloratura di livello. Marco De
Chi perde lo spettacolo a Palermo (in scena sino al 28 settembre) può gustarlo a Bologna, a Cagliari. O in giro per il mondo.
In questo quadro, di grande interesse“I Puritani” di Vincenzo Bellini, di cui ha debuttato a Palermo un nuovo allestimento co-prodotto dai teatri di Bologna e Cagliari e destinato ad andare al Festival di Savonlinna prima ed in tournée in Giappone. Uno sforzo comune di tre fondazioni per potare in giro per il mondo l’opera belliniana rifulge in tutto il suo splendore. Raramente rappresentata proprio per le difficoltà vocali che presenta (le acrobazie del soprano nella “scena della pazzia”, i do acuti ed i re maggiore del tenore, i duetti, terzetti e quartetti che scivolano in concertati). Ultima opera di Bellini, è apoteosi del “belcanto”, è basata su un libretto piuttosto improbabile in cui amori, intrighi, tradimenti (finti o presunti), e pazzia ai tempi delle guerre Cromwell con colpo di scena e lieto fine L’allestimento di Pier’Alli è concepito per essere adattato a palcoscenici differenti-Il grigio domina i primi due atti, mentre il verde e l’azzurro caratterizzano il terzo. Sotto il profilo musicale, la concertazione di Friederich Haider (autore di una buona incisione dell’opera), dilata i tempi per dare risalto all’atmosfera melanconica (di un Bellini 35nne ma già molto malato). Grande successo della protagonista la bella e giovanissima Désirée Rancatore già da diversi anni sulla scena internazionale; palermitana: il pubblico le concede più applausi a scena aperta di quelli che le attribuirebbe il critico. Sublime in certi momenti, ma un po’ sciatta in altri; sulla cresta dell’onda da quando aveva 20 anni (e debuttò all’improvviso nel “Rosenkavalier”) dovrebbe contenere le offerte che le giungono da tutto il mondo ed evitare ruoli (quelli verdiani) ancora poco adatti alla sua vocalità “belcantistica”. Ottimo il registro, la tessitura, il fraseggio e la sparata dei “do” e dei “re” di José Bros nel primo atto, ma una stecca nel duetto del terzo atto lo ha costretto a rifuggiarsi nel falsetto, scontentando, e scatenando, il pubblico. Nelle repliche ed in tournée, senza lo stress della “prima”, potrà evitare i numerosi trabocchetti di un ruolo terrificante. Carlo Colombara conferma di essere un basso di coloratura di livello. Marco De
Chi perde lo spettacolo a Palermo (in scena sino al 28 settembre) può gustarlo a Bologna, a Cagliari. O in giro per il mondo.
sabato 27 settembre 2008
L’AMERICA BATTE CASSA: ORA TOCCA ALL’EUROPA, Il Tempo 27 settembre
Il Congresso americano ha oggi dato (non senza contrasti) il primo via al piano presentato dal Tesoro Usa per ampliare (a 700 miliardi di dollari) le misure di salvataggio per il sistema finanziario del Paese. In parallelo le maggiori banche centrali si sono mosse per dare iniettare maggiore e tentare, in tal modo, di superare il clima di sfiducia creatosi, prima tra gli operatori finanziario al dettaglio, tra le stesse maggiori banche e finanziarie. Si sono mosse all’unisono la Fed, la Bce, Banca d'Inghilterra e la Banca Nazionale Svizzera. La sola capacità di intervento della Fed sale a 290 miliardi di dollari (ripetiamo in attesa del più vasto programma al vaglio delle Camere).
Che significa tutto ciò per famiglie ed imprese lontane da Wall Street e dai suoi complicati strumenti? In primo luogo, ciò vuol dire ciò che i servizi studi del Fondo monetario e della Bce dicono da tempo: la crisi finanziaria non sarà solamente lunga (le stime indicano che durerà sino a tutto il 2009) ma anche profonda e larga – ossia, tra alcuni mesi (nonostante le dichiarazioni confortanti che vengono pronunciate un giorno sì ed uno no) toccherebbe grandi istituzioni finanziarie europei che hanno nei loro portafogli proporzioni anche importanti di titoli strutturati di cui oggi nessuno sa quale il valore. Ciò non potrà non avere effetti sull’economia reale che in Europa già batte la fiacca (per l’area dell’euro si stima una crescita dello 0,9% per il 2009 con un ulteriore rallentamento rispetto all’1,3% previsto per l’anno in corso). I Ministri economici e finanziari del G7 (ed i loro sherpa) sono in stretto contatto in vista della riunione in programma il 10 ottobre a Washington (ma che potrebbe essere anticipata).
In secondo luogo, dal Tesoro Usa parte non un appello ma un invito molto forte agli europei: siano sulla stessa barca e, di conseguenza, dovete mettervi a remare anche voi ( a suon di miliardi di dollari). Questa è la terza fase di una strategia per cercare di risolvere la crisi. La prima, nell’estate 2007, ha riguardato una forte iniezione di liquidità (molti commentatori la hanno salutata come risolutiva) . La seconda (attuata prima in Gran Bretagna e poi negli Usa) si è articolata in aiuti pilotati verso alcune istituzioni particolarmente nei guai (in certi casi gli aiuti sono diventati nazionalizzazioni). La terza, l’attuale, è generalizzata ed ha dimensioni mai viste in precedenze: ha l’ambizione di rimettere a fare funzionare il mercato cercando di scoprire quale è il valore (ossia il prezzo) di titoli complicati ed opachi da cui tutti rifuggono ma qualcosa pur varranno in quanto combinati con azioni, obbligazioni ed ipoteche di buona qualità. Nessuno sa quante risorse sono necessarie per andare sino al punto in cui il mercato (dei titoli) ricominciare a funzionare.
L’Ue (specialmente l’area dell’euro) è di fonte ad un dilemma: se risponde “no” non potrà contare sulla solidarietà del resto del mondo se e quando il terremoto arriverà da noi; se risponde “sì” dà un lungo addio al patto di stabilità.
Che significa tutto ciò per famiglie ed imprese lontane da Wall Street e dai suoi complicati strumenti? In primo luogo, ciò vuol dire ciò che i servizi studi del Fondo monetario e della Bce dicono da tempo: la crisi finanziaria non sarà solamente lunga (le stime indicano che durerà sino a tutto il 2009) ma anche profonda e larga – ossia, tra alcuni mesi (nonostante le dichiarazioni confortanti che vengono pronunciate un giorno sì ed uno no) toccherebbe grandi istituzioni finanziarie europei che hanno nei loro portafogli proporzioni anche importanti di titoli strutturati di cui oggi nessuno sa quale il valore. Ciò non potrà non avere effetti sull’economia reale che in Europa già batte la fiacca (per l’area dell’euro si stima una crescita dello 0,9% per il 2009 con un ulteriore rallentamento rispetto all’1,3% previsto per l’anno in corso). I Ministri economici e finanziari del G7 (ed i loro sherpa) sono in stretto contatto in vista della riunione in programma il 10 ottobre a Washington (ma che potrebbe essere anticipata).
In secondo luogo, dal Tesoro Usa parte non un appello ma un invito molto forte agli europei: siano sulla stessa barca e, di conseguenza, dovete mettervi a remare anche voi ( a suon di miliardi di dollari). Questa è la terza fase di una strategia per cercare di risolvere la crisi. La prima, nell’estate 2007, ha riguardato una forte iniezione di liquidità (molti commentatori la hanno salutata come risolutiva) . La seconda (attuata prima in Gran Bretagna e poi negli Usa) si è articolata in aiuti pilotati verso alcune istituzioni particolarmente nei guai (in certi casi gli aiuti sono diventati nazionalizzazioni). La terza, l’attuale, è generalizzata ed ha dimensioni mai viste in precedenze: ha l’ambizione di rimettere a fare funzionare il mercato cercando di scoprire quale è il valore (ossia il prezzo) di titoli complicati ed opachi da cui tutti rifuggono ma qualcosa pur varranno in quanto combinati con azioni, obbligazioni ed ipoteche di buona qualità. Nessuno sa quante risorse sono necessarie per andare sino al punto in cui il mercato (dei titoli) ricominciare a funzionare.
L’Ue (specialmente l’area dell’euro) è di fonte ad un dilemma: se risponde “no” non potrà contare sulla solidarietà del resto del mondo se e quando il terremoto arriverà da noi; se risponde “sì” dà un lungo addio al patto di stabilità.
MASCHI “PIU’ CASALINGHI” PER FARE SALIRE IL PIL Libero 27 settembre
E’ utile allontanare gli occhi da tante notizie ed analisi riguardanti il breve periodo (crisi dell’Alitalia, tracollo dei colossi finanziari Usa) per mettere il cannocchiale e scrutare il medio e lungo periodo, in particolare i nessi tra crescita economica e demografia. Specialmente, se c’è qualcosa di nuovo sull’argomento. Da tre lustri, l’Italia è il fanalino di coda dell’Ue in generale e dell’area dell’euro in particolare. Mentre la crescita potenziale di un’economia matura (come la nostra) dovrebbe situarsi sul 2,5% l’anno (il tasso di crescita di lungo periodo di Francia, Germania, Benelux ed Austria), facciamo fatica a raggiungere l’1% e la stessa Commissione Europea stima all’1,3% il nostro potenziale. Le determinanti sono molteplici. Spiccano, tra esse, l’andamento demografico ed il progressivo invecchiamento della popolazione: da Paese caratterizzato da famiglie numerose ci siamo assestati ad un tasso di fertilità dell’1,3% (il numero di figli per donna in età appropriata per la procreazione). Ciò comporta una graduale riduzione della popolazione (oltre che un’età mediana sempre più avanzata, tale da impedire riforme – come quella della previdenza- essenziali e da incidere negativamente sulla produttiva, sul tasso di risparmio e sulla tipologia degli investimenti). Gli anziani – si sa – raramente amano innovare e rischiare.
Il declino del tasso di fertilità (sottolinea uno studio pubblicato nell’ultimo fascicolo del “Journal of Economic Perpectives , Vol. 22, N. 3 pp.3-23) non è una caratteristica unicamente dell’Italia. Ha dimensioni analoghe in Giappone e Germania e riguarda in misura preoccupante, anche Irlanda, Spagna e Portogallo. In Europa solamente in Francia , dopo una contrazione del tasso di fertilità (dal 2,7% nel 1955 all’1,7% nel 1995) si è riusciti a fare marcia indietro ed ora il saggio è tornato all’1,9%. Uno strumento utilizzato Oltralpe è un forte incremento degli assegni familiari (dall’equivalente di $ 1,800 dollari per figlio/anno nel 1980 a $ 3000 dollari per figlio/ anno, a prezzi costanti nel 2000). E’ questa la molla che ha modificato la tendenza? Senza dubbio è un aspetto a cui si guarda molto nell’elaborazione della politica per la famiglia in Italia.
Lo studio citato- ne sono autori - James Freyer, Bruce Service e Ariel Dora Stern del Darmouth College – getta una nuova luce: gli assegni familiari (ed altri supporti ai nuclei) sono elemento essenziale ma non la determinante principale per incidere sui tassi di fertilità. La vera leva è fare sì che i partner maschili modifichino i loro comportamenti, specialmente in materia di tempo e sforzo impegnato nelle cure delle faccende domestiche e nell’attenzione ai figli. L’analisi contiene a riguardo una rassegna delle letteratura ed una serie di verifiche econometriche: i Paesi a fertilità elevata (Danimarca, Norvegia, Nuova Zelanda, Usa) sono quelli in cui c’è una divisione del lavoro paritetica tra uomini e donne nei lavori tra le mura di casa e nella cura della prole. Tra i tanti indicatori, uno è specialmente eloquente: in Italia le donne sbrigano circa il 73% delle attività attinenti alla cura dei figli, mentre negli Usa tale percentuale sfiora il 60%. Un’analisi controfattuale econometrica rivela che se gli uomini italiani si assestassero al livello degli americani, in Italia il tasso di fertilità passerebbe dall’1,3% all’1,8% per donna (diventando molto vicino a quello della Francia anche se inferiore al tasso di sostituzione, 2,1%, necessario per mantenere stabile la popolazione). Ciò non vuole dire che altre misure (assegni familiari e soprattutto asili nido) non sono necessari; avrebbero, però, effetti limitati se i maschi non mutano comportamenti: una maggiore spesa pubblica per la famiglia (indica l’analisi econometrica) è efficace laddove tale cambiamento avviene. In ogni caso, i dati non ci dicono se assegni familiari, servizi alle famiglie (quali gli asili nido) e gli sgravi fiscali sono lo strumento che funziona meglio.
A conclusioni simili si giunge da uno studio della Banca d’Italia (Temi di discussione n. 684) il 20% delle donne che lavorano prima della nascita di un figlio, smettono di lavorare per un anno e mezzo; il 14% dà le dimissioni. Il quadro sarebbe differente se ci fosse una migliore divisione del lavoro (a casa) tra i generi. Stesse risposte da una ricerca dell’Università d’Amsterdam (Timbergen Institute Discussion Paper N. 8-079/3) sull’allocazione del tempo tra genitori e dall’Istituto federale tedesco di studi sul lavoro (IZA Working Paper N. 3272).
C’è un consenso, quindi, sul fatto che sta all’uomo di darsi una mossa ed adattarsi alle mutate condizioni economiche, tecnologiche e sociali. In questo panorama, però, c’è una voce dissonante: nell’ultimo fascicolo della “Review of Income and Wealth” (Vol. 54, pp. 350-372) Rafael Gòmez e Pablo Hernandez De Cos, due economisti latino americani, sostengono (con un titolo provocatorio) che l’invecchiamento fa bene alla crescita economica. Se si legge il saggio con cura, ci si accorge che si riferisce ad un invecchiamento molto, ma davvero molto, limitato. La demografia tira il pil quando la popolazione nell’età più produttiva (prime age: 35-54 anni) è pari alla fascia più giovane della popolazione in età da lavoro (16-34 anni). Indicazione utile per l’America centrale e meridionale ma non per l’Italia.
Il declino del tasso di fertilità (sottolinea uno studio pubblicato nell’ultimo fascicolo del “Journal of Economic Perpectives , Vol. 22, N. 3 pp.3-23) non è una caratteristica unicamente dell’Italia. Ha dimensioni analoghe in Giappone e Germania e riguarda in misura preoccupante, anche Irlanda, Spagna e Portogallo. In Europa solamente in Francia , dopo una contrazione del tasso di fertilità (dal 2,7% nel 1955 all’1,7% nel 1995) si è riusciti a fare marcia indietro ed ora il saggio è tornato all’1,9%. Uno strumento utilizzato Oltralpe è un forte incremento degli assegni familiari (dall’equivalente di $ 1,800 dollari per figlio/anno nel 1980 a $ 3000 dollari per figlio/ anno, a prezzi costanti nel 2000). E’ questa la molla che ha modificato la tendenza? Senza dubbio è un aspetto a cui si guarda molto nell’elaborazione della politica per la famiglia in Italia.
Lo studio citato- ne sono autori - James Freyer, Bruce Service e Ariel Dora Stern del Darmouth College – getta una nuova luce: gli assegni familiari (ed altri supporti ai nuclei) sono elemento essenziale ma non la determinante principale per incidere sui tassi di fertilità. La vera leva è fare sì che i partner maschili modifichino i loro comportamenti, specialmente in materia di tempo e sforzo impegnato nelle cure delle faccende domestiche e nell’attenzione ai figli. L’analisi contiene a riguardo una rassegna delle letteratura ed una serie di verifiche econometriche: i Paesi a fertilità elevata (Danimarca, Norvegia, Nuova Zelanda, Usa) sono quelli in cui c’è una divisione del lavoro paritetica tra uomini e donne nei lavori tra le mura di casa e nella cura della prole. Tra i tanti indicatori, uno è specialmente eloquente: in Italia le donne sbrigano circa il 73% delle attività attinenti alla cura dei figli, mentre negli Usa tale percentuale sfiora il 60%. Un’analisi controfattuale econometrica rivela che se gli uomini italiani si assestassero al livello degli americani, in Italia il tasso di fertilità passerebbe dall’1,3% all’1,8% per donna (diventando molto vicino a quello della Francia anche se inferiore al tasso di sostituzione, 2,1%, necessario per mantenere stabile la popolazione). Ciò non vuole dire che altre misure (assegni familiari e soprattutto asili nido) non sono necessari; avrebbero, però, effetti limitati se i maschi non mutano comportamenti: una maggiore spesa pubblica per la famiglia (indica l’analisi econometrica) è efficace laddove tale cambiamento avviene. In ogni caso, i dati non ci dicono se assegni familiari, servizi alle famiglie (quali gli asili nido) e gli sgravi fiscali sono lo strumento che funziona meglio.
A conclusioni simili si giunge da uno studio della Banca d’Italia (Temi di discussione n. 684) il 20% delle donne che lavorano prima della nascita di un figlio, smettono di lavorare per un anno e mezzo; il 14% dà le dimissioni. Il quadro sarebbe differente se ci fosse una migliore divisione del lavoro (a casa) tra i generi. Stesse risposte da una ricerca dell’Università d’Amsterdam (Timbergen Institute Discussion Paper N. 8-079/3) sull’allocazione del tempo tra genitori e dall’Istituto federale tedesco di studi sul lavoro (IZA Working Paper N. 3272).
C’è un consenso, quindi, sul fatto che sta all’uomo di darsi una mossa ed adattarsi alle mutate condizioni economiche, tecnologiche e sociali. In questo panorama, però, c’è una voce dissonante: nell’ultimo fascicolo della “Review of Income and Wealth” (Vol. 54, pp. 350-372) Rafael Gòmez e Pablo Hernandez De Cos, due economisti latino americani, sostengono (con un titolo provocatorio) che l’invecchiamento fa bene alla crescita economica. Se si legge il saggio con cura, ci si accorge che si riferisce ad un invecchiamento molto, ma davvero molto, limitato. La demografia tira il pil quando la popolazione nell’età più produttiva (prime age: 35-54 anni) è pari alla fascia più giovane della popolazione in età da lavoro (16-34 anni). Indicazione utile per l’America centrale e meridionale ma non per l’Italia.
IL “BELCANTO” E’ ANCORA TRA NOI Il Domenicale 27 settembre
Chi avrebbe mai immaginato che il 15 settembre alla Sala Petrassi del Parco della Musica a Roma, ci si sarebbero state ovazioni da stadio al concerto di Mariella Devia, accompagnata da Rosetta Cucchi al pianoforte, “Scene da Prima Donna”, basato su arie di Rossini, Bellini e Donizetti? Le ovazioni si sono verificate non solo al termine del concerto ma anche durante?: Qualcosa di analogo il 12 settembre al concerto dei “tre tenori del belcanto” con cui si è aperto il festival, per l’appunto, del “belcanto” che terminerà, nella capitale, con due esecuzioni, in forma di concerto, di “Norma” di Vincenzo Bellini il 26 ed il 29 settembre.
In parallelo, a Palermo viene messa in scena “I Puritani”, opera in cui, secondo il musicolo Friederich Lippmam, “la melodia belliniana rifugge in tutto il suo splendore, nella sua ricchezza di sfumature”. Raramente rappresentata proprio per le difficoltà vocali che presenta (le acrobazie del soprano nella “scena della pazzia”, i do acuti ed i re maggiore del tenore),il nuovo allestimento palermitano si vedrà a Bologna il febbraio prossimo, a Cagliari in primavera avanzata, al Festival di Sanvonlinna in Filanda in luglio e successivamente a Tokio- un vero esempio di quell’”esportar cantando” del made in Italy promosso parallelamente da Sandro Bondi al Collegio Romano e da Adolfo Urso a Viale Boston (Commercio con l’Estero). Nel contempo un’altra nuova produzione de “I Puritani” prende il via a Bergamo in ottobre per approdare a Sassari ed in altre città. In parallelo, sempre in ottobre un’altra opera belcantisca “La sonnambula” è a Cagliari ed a Bergamo si è appena ascoltata una delle prove più belcantistiche di Gaetano Donizetti, “La favorite”. Un rientro, quindi, in grande stile dopo una lunga fase in cui, con l’eccezione di pochi titoli, sembrava apparire di rado nei teatri ed interessare specialmente il pubblico anziano.
Non esiste una definizione puntuale di cosa è il “belcanto”. Premia la vocalità ed utilizza orchestra ed orchestrazione a supporto della voce, senza necessariamente “impastarsi” con essa. Spesso – scrive il musicologo H.C. Robbins Laddon – l’orchestrazione finisce per essere trascurata, come indicano , ad esempio, errori nella scrittura per timpani nella stessa “Norma” – “avrebbero spaventato i sensibili orecchi di Haydn e di Mozart”. Si può fare risalire il “belcanto” all’inizio del Settecento e considerarlo, in Italia, in vita sino al melodramma verdiano – nel resto d’’Europa venne spazzato via dalla vera e propria rivoluzione di Wolfgang A. Mozart. In Italia, da Verdi. In una visione più restrittiva, quale quella accolta dal festival romano, lo si accosta all’inizio dell’Ottocento, alla fine delle varie esperienze neo-classiche ed all’inizio del romanticismo: Non per nulla, Bellini e Rossini sono i protagonisti del festival al Parco della Musica, con altri autori (sempre delle prime decadi del XIX secolo) quasi esclusivamente nel concerto di Cecilia Bartoli, con l’orchestra La Scintilla del Teatro dell’Opera di Zurigo, in programma per la sera del 25 settembre nella sala più grande del Parco della Musica – quella per 2800 posti (mentre il “belcanto” è stato concepito per sale di 600-1000 posti quali quella , a Zurigo, dove la Bartoli si esibisce normalmente).
Soffermiamoci su “I Puritani”, ultima opera di Bellini, apoteosi del “belcanto”, anche in quanto basata su un libretto – del Conte Carlo Pepoli- inferiori a quelli di Felice Romani (autore preferito del compositore catanese), e la cui orchestrazione è stata curata con attenzione davvero speciale (rispetto alla prassi dell’epoca).Opera composta in Francia e per mostrare ai francesi “ciò che è canto”, caratterizzata relativamente da poche arie, brevi recitativi e numerosi numeri d’insieme (duetti, terzetti, quartetti che si sciolgono in concertati con coro), nonché soffusa di melanconia piena di anima e tale da appassionare dopo circa 200 anni tanto quanto accadde nel 1835.
L’allestimento palermitano è stato chiaramente pensato da Pier’Alli per viaggiare e per essere adattato a palcoscenici di differenti dimensioni. “I Puritani” è un’”opera ad imbuto”; un’ora e mezzo per il primo atto, tre quarti d’ora per il secondo e mezz’ora per il terzo (tecnica molto moderna, si pensi alle opere del contemporaneo Eotvos). Nei primi due atti domina il grigio; accompagna amori, intrighi, tradimenti (finti o presunti), anche follia in una vicenda situata ai tempi delle guerre di religione Cromwell; nel terzo, dove con un colpo di scena inatteso giunge il lieto fine, dominano il verde e l’azzurro. Siparietti e proiezioni, a budget limitato e facilmente trasportabili. La concertazione di Friederich Haider , dilatata e non enfatica, coglie l’atmosfera melanconica. La protagonista – la bella e giovanissima Désirée Mancatore già da diversi anni sulla scena internazionale – è palermitana: il pubblico le concede più applausi a scena aperta di quelli che le attribuirebbe il critico. Ottimo il registro, la tessitura, il fraseggio e la sparata dei “do” di José Bros nella prima parte, ma una stecca nel duetto del terzo atto lo costringe a rifuggiarsi nel falsetto, scontentando il pubblico. Carlo Colombara conferma di essere un basso di coloratura di livello. Buoni gli altri, specialmente il coro guidato da Miguel Fabián Martínez.
In parallelo, a Palermo viene messa in scena “I Puritani”, opera in cui, secondo il musicolo Friederich Lippmam, “la melodia belliniana rifugge in tutto il suo splendore, nella sua ricchezza di sfumature”. Raramente rappresentata proprio per le difficoltà vocali che presenta (le acrobazie del soprano nella “scena della pazzia”, i do acuti ed i re maggiore del tenore),il nuovo allestimento palermitano si vedrà a Bologna il febbraio prossimo, a Cagliari in primavera avanzata, al Festival di Sanvonlinna in Filanda in luglio e successivamente a Tokio- un vero esempio di quell’”esportar cantando” del made in Italy promosso parallelamente da Sandro Bondi al Collegio Romano e da Adolfo Urso a Viale Boston (Commercio con l’Estero). Nel contempo un’altra nuova produzione de “I Puritani” prende il via a Bergamo in ottobre per approdare a Sassari ed in altre città. In parallelo, sempre in ottobre un’altra opera belcantisca “La sonnambula” è a Cagliari ed a Bergamo si è appena ascoltata una delle prove più belcantistiche di Gaetano Donizetti, “La favorite”. Un rientro, quindi, in grande stile dopo una lunga fase in cui, con l’eccezione di pochi titoli, sembrava apparire di rado nei teatri ed interessare specialmente il pubblico anziano.
Non esiste una definizione puntuale di cosa è il “belcanto”. Premia la vocalità ed utilizza orchestra ed orchestrazione a supporto della voce, senza necessariamente “impastarsi” con essa. Spesso – scrive il musicologo H.C. Robbins Laddon – l’orchestrazione finisce per essere trascurata, come indicano , ad esempio, errori nella scrittura per timpani nella stessa “Norma” – “avrebbero spaventato i sensibili orecchi di Haydn e di Mozart”. Si può fare risalire il “belcanto” all’inizio del Settecento e considerarlo, in Italia, in vita sino al melodramma verdiano – nel resto d’’Europa venne spazzato via dalla vera e propria rivoluzione di Wolfgang A. Mozart. In Italia, da Verdi. In una visione più restrittiva, quale quella accolta dal festival romano, lo si accosta all’inizio dell’Ottocento, alla fine delle varie esperienze neo-classiche ed all’inizio del romanticismo: Non per nulla, Bellini e Rossini sono i protagonisti del festival al Parco della Musica, con altri autori (sempre delle prime decadi del XIX secolo) quasi esclusivamente nel concerto di Cecilia Bartoli, con l’orchestra La Scintilla del Teatro dell’Opera di Zurigo, in programma per la sera del 25 settembre nella sala più grande del Parco della Musica – quella per 2800 posti (mentre il “belcanto” è stato concepito per sale di 600-1000 posti quali quella , a Zurigo, dove la Bartoli si esibisce normalmente).
Soffermiamoci su “I Puritani”, ultima opera di Bellini, apoteosi del “belcanto”, anche in quanto basata su un libretto – del Conte Carlo Pepoli- inferiori a quelli di Felice Romani (autore preferito del compositore catanese), e la cui orchestrazione è stata curata con attenzione davvero speciale (rispetto alla prassi dell’epoca).Opera composta in Francia e per mostrare ai francesi “ciò che è canto”, caratterizzata relativamente da poche arie, brevi recitativi e numerosi numeri d’insieme (duetti, terzetti, quartetti che si sciolgono in concertati con coro), nonché soffusa di melanconia piena di anima e tale da appassionare dopo circa 200 anni tanto quanto accadde nel 1835.
L’allestimento palermitano è stato chiaramente pensato da Pier’Alli per viaggiare e per essere adattato a palcoscenici di differenti dimensioni. “I Puritani” è un’”opera ad imbuto”; un’ora e mezzo per il primo atto, tre quarti d’ora per il secondo e mezz’ora per il terzo (tecnica molto moderna, si pensi alle opere del contemporaneo Eotvos). Nei primi due atti domina il grigio; accompagna amori, intrighi, tradimenti (finti o presunti), anche follia in una vicenda situata ai tempi delle guerre di religione Cromwell; nel terzo, dove con un colpo di scena inatteso giunge il lieto fine, dominano il verde e l’azzurro. Siparietti e proiezioni, a budget limitato e facilmente trasportabili. La concertazione di Friederich Haider , dilatata e non enfatica, coglie l’atmosfera melanconica. La protagonista – la bella e giovanissima Désirée Mancatore già da diversi anni sulla scena internazionale – è palermitana: il pubblico le concede più applausi a scena aperta di quelli che le attribuirebbe il critico. Ottimo il registro, la tessitura, il fraseggio e la sparata dei “do” di José Bros nella prima parte, ma una stecca nel duetto del terzo atto lo costringe a rifuggiarsi nel falsetto, scontentando il pubblico. Carlo Colombara conferma di essere un basso di coloratura di livello. Buoni gli altri, specialmente il coro guidato da Miguel Fabián Martínez.
venerdì 26 settembre 2008
IL MASSIMO RISANA I CONTI CON IL RIGORE DEI PURITANI Il Velino 26 settembre
Ancora una volta la cultura e l’arte si presentano come la leva per il rilancio di un territorio. E’ questo il caso della rinascita di Palermo attorno al “suo” Massimo, il magnifico teatro costruito alla fine dell’Ottocento su un progetto dell’Architetto G.B. Filippo Basile in quella che allora era il cuore nei nuovi quartieri eleganti della città , inaugurato (con “Falstaff” di Verdi) il 16 maggio 1897, chiuso per restauri per circa un quarto di secolo e riaperto nel maggio 1997. Il Massimo è stato travagliato da deficit e debiti crescenti sino al 2004. Nel 2002 aveva un disavanzo di 13 milioni di euro ed uno stock di debito 26 milioni di euro. Cifre da minacciare commissariamento ove non sospensione delle attività. Lo stock di debito viene gradualmente ripianato tramite un mutuo (da rimborsare su un periodo di 20 anni). Da tre anni, la fondazione lirica palermitana chiude il bilancio consuntivo in utile. Nel 2007, l’attivo ha sfiorato 2 milioni di euro (di cui 800.000 di sopravvenienze straordinarie. Ciò è avvenuto nonostante un aumento dei costi per il personale (passati da 25,2 a 27 milioni di euro).
Una politica artistica basata su co-produzioni con i maggiori teatri italiani e esteri, e presentazione di “prime” assolute per l’Italia, nonché coniugata con ferree economia di gestione ha fatto sì che i conti stiano tornando in ordine. Il saldo finanziario attivo rispecchia anche l’aumento di rappresentazioni e di presenze, segno di rinnovato interesse della città per il “suo” principale teatro. Tale interesse è dimostrato dall’apporto degli sponsor. Dal 2007, inoltre, il Banco di Sicilia, eroga 1.3 milioni di euro di contributi l’anno ed è entrato come socio privato nella fondazione. Il successo del Massimo ha trascinato altre arti dal vivo: nonostante Palermo sia città in serie difficoltà di crescita del valore aggiunto e del reddito ed abbia uno tassi di disoccupazione più alti in Italia, negli ultimi anni sono stati aperti tre teatri: il Nuovo Montevergine, il Kalsart ed il Teatro del Barocco a Palazzo Bonagia. Il Sindaco Diego Cammarata sottolinea come l’affluenza sia ottima; naturalmente, le tipologie di pubblico sono differenti , elemento incoraggiante per la diffusione della cultura nei ceti più diversi.
Il nuovo allestimento di una delle opere più raramente rappresentate, anche se più belle, di Vincenzo Bellini è una chiara indicazione della strategia. Ultima opera di Bellini, “I Puritani) è apoteosi del “belcanto”, è basata su un libretto piuttosto improbabile in cui amori, intrighi, tradimenti (finti o presunti), e pazzia ai tempi delle guerre Cromwell con colpo di scena e lieto fine. De Chirico ne firmò un allestimento (rivisto a Roma alla fine degli Anni Ottanta) in cui l’astrusa vicenda era trasformata in un gioco di carte - una fazione erano i “quadri” e l’altra i”cuori”- quasi a sottolineare l’irrilevanza del testo del Conte Pepoli, patriota in esilio a Parigi. L’allestimento palermitano di Pier’Alli (in scena dal Massimo dal 21 al 28 settembre) è co-prodotto con i teatri lirici di Bologna (dove andrà in febbraio), di Cagliari (in primavera avanzata). In luglio, sarà al Festival di Sanvonlinna in Filandia in luglio e infine a Tokio nell’enorme Bunka Kaikan. E’ una messa in scena all’insegna dell’economia dei costi, delle sinergie, della qualità e dell’”esportar cantando” del “made in Italy”. Il grigio domina i primi due atti, mentre il verde e l’azzurro caratterizzano il terzo. Veloci siparietti e proiezioni facilitano l’adattamento a palcoscenici di varie dimensioni.
Sotto il profilo musicale, la concertazione di Friederich Haider dilata i tempi per dare risalto all’atmosfera melanconica (di un Bellini 35nne ma già molto malato). Grande successo della protagonista la bella e giovanissima Désirée Rancatore già da diversi anni sulla scena internazionale; palermitana: il pubblico le concede più applausi a scena aperta di quelli che le attribuirebbe il critico. Sublime in certi momenti, ma un po’ sciatta in altri; sulla cresta dell’onda da quando aveva 20 anni (e debuttò all’improvviso a Palermo nel “Rosenkavalier” nel 1998 ) dovrebbe contenere le offerte che le giungono da tutto il mondo ed evitare ruoli (quelli verdiani) ancora poco adatti alla sua vocalità “belcantistica”. Ottimo il registro, la tessitura, il fraseggio e la sparata dei “do” e dei “re” di José Bros. Carlo Colombara conferma di essere un basso di coloratura di livello. Marco De Felice di essere un baritono di cui si parlerà nei prossima anni. Buoni gli altri, specialmente il coro guidato da Miguel Fabián Martínez. Chi perde lo spettacolo a Palermo (in scena sino al 28 settembre) può gustarlo a Bologna, a Cagliari. O in giro per il mondo.
Una politica artistica basata su co-produzioni con i maggiori teatri italiani e esteri, e presentazione di “prime” assolute per l’Italia, nonché coniugata con ferree economia di gestione ha fatto sì che i conti stiano tornando in ordine. Il saldo finanziario attivo rispecchia anche l’aumento di rappresentazioni e di presenze, segno di rinnovato interesse della città per il “suo” principale teatro. Tale interesse è dimostrato dall’apporto degli sponsor. Dal 2007, inoltre, il Banco di Sicilia, eroga 1.3 milioni di euro di contributi l’anno ed è entrato come socio privato nella fondazione. Il successo del Massimo ha trascinato altre arti dal vivo: nonostante Palermo sia città in serie difficoltà di crescita del valore aggiunto e del reddito ed abbia uno tassi di disoccupazione più alti in Italia, negli ultimi anni sono stati aperti tre teatri: il Nuovo Montevergine, il Kalsart ed il Teatro del Barocco a Palazzo Bonagia. Il Sindaco Diego Cammarata sottolinea come l’affluenza sia ottima; naturalmente, le tipologie di pubblico sono differenti , elemento incoraggiante per la diffusione della cultura nei ceti più diversi.
Il nuovo allestimento di una delle opere più raramente rappresentate, anche se più belle, di Vincenzo Bellini è una chiara indicazione della strategia. Ultima opera di Bellini, “I Puritani) è apoteosi del “belcanto”, è basata su un libretto piuttosto improbabile in cui amori, intrighi, tradimenti (finti o presunti), e pazzia ai tempi delle guerre Cromwell con colpo di scena e lieto fine. De Chirico ne firmò un allestimento (rivisto a Roma alla fine degli Anni Ottanta) in cui l’astrusa vicenda era trasformata in un gioco di carte - una fazione erano i “quadri” e l’altra i”cuori”- quasi a sottolineare l’irrilevanza del testo del Conte Pepoli, patriota in esilio a Parigi. L’allestimento palermitano di Pier’Alli (in scena dal Massimo dal 21 al 28 settembre) è co-prodotto con i teatri lirici di Bologna (dove andrà in febbraio), di Cagliari (in primavera avanzata). In luglio, sarà al Festival di Sanvonlinna in Filandia in luglio e infine a Tokio nell’enorme Bunka Kaikan. E’ una messa in scena all’insegna dell’economia dei costi, delle sinergie, della qualità e dell’”esportar cantando” del “made in Italy”. Il grigio domina i primi due atti, mentre il verde e l’azzurro caratterizzano il terzo. Veloci siparietti e proiezioni facilitano l’adattamento a palcoscenici di varie dimensioni.
Sotto il profilo musicale, la concertazione di Friederich Haider dilata i tempi per dare risalto all’atmosfera melanconica (di un Bellini 35nne ma già molto malato). Grande successo della protagonista la bella e giovanissima Désirée Rancatore già da diversi anni sulla scena internazionale; palermitana: il pubblico le concede più applausi a scena aperta di quelli che le attribuirebbe il critico. Sublime in certi momenti, ma un po’ sciatta in altri; sulla cresta dell’onda da quando aveva 20 anni (e debuttò all’improvviso a Palermo nel “Rosenkavalier” nel 1998 ) dovrebbe contenere le offerte che le giungono da tutto il mondo ed evitare ruoli (quelli verdiani) ancora poco adatti alla sua vocalità “belcantistica”. Ottimo il registro, la tessitura, il fraseggio e la sparata dei “do” e dei “re” di José Bros. Carlo Colombara conferma di essere un basso di coloratura di livello. Marco De Felice di essere un baritono di cui si parlerà nei prossima anni. Buoni gli altri, specialmente il coro guidato da Miguel Fabián Martínez. Chi perde lo spettacolo a Palermo (in scena sino al 28 settembre) può gustarlo a Bologna, a Cagliari. O in giro per il mondo.
MISSA SOLEMNIS di BEETHOVEN , Musica ottobre
BEETHOVEN. Missa Solemnis M. Riedler, H. Haselblöck, W: Wittekind, L. Li. Orchestra Haydn di Bolzano e Trento diretta da Gustav Kuhn Accademia Corale del Festival del Titolo diretta da Martin Steidler.
Perugina, Teatro Morlacchi 13 settembre .
Dopo alcuni anni in cui la Sagra Umbra pareva avere perso il proprio carattere originario di festival di musica dello spirito (pur mantenendo una qualità di rilievo), con l’edizione 2008 non solamente ritorna alle origini ma ha un tema puntuale: Dante. La Sagra si estende in tutte le principali città della regione con un programma incentrato su musica che trae la sua ispirazione dalla Divina Commedia: dal canto devozionale umbro, a Vivaldi, a Beethoven, a Liszt, a Sciarrino (quindi dal Medio Evo alla contemporainetà), a film muti del 1910 o giù di lì appena restaurati dalla Filmoteca Vaticana. Il 12 e 13 ottobre, la sagra è iniziata con i cori devozionali umbri a Spello e con la Missa Solemnis di Beethoven al Teatro Morlacchi di Perugia, eseguita dall’orchestra Haydn di Trento e Bolzano guidata da Gustan Kuhn. Suggestivi i canti devozionali pure se il maltempo ha costretto di ridurre all’osso la parte più attesa (processioni delle congregazioni nelle vie di Spello) ed ad eseguire lo spettacolare concerto nella Chiesa di Sant’Andrea. Di grande interessa la Missa Solemnis, vero e proprio contraltare religioso alla laicissima Nona Sinfonia, composta più o meno nello stesso periodo. La partitura originale, indica , con una frase manoscritta dell’autore, che la Missa deve essere eseguita “con devozione” ed il suo ascolto deve portare “dal cuore ai cuori”. E’ concepita per essere suonata e cantata in Chiesa non in sale da concerto od in teatri. Nel lavoro (come nella Nona), Beethoven fa emergere una grandiosa visione dell’universo in una forma carica di tradizione e di storia in cui si avverte un dissidio tra la dimensione della polifonia antica e quella di una religiosità intima che riesce ad esprimere in un linguaggio nutrito di Lied e di corale. Il fulcro è l’ “uomo che lotta e soffre in un tempo di cambiamento”. Il Papa Benedetto XVI, appassionato di musica, la ha chiamata “una toccante testimonianza sempre nuova di una fede che cerca, che non si lascia sfuggire Dio e che attraverso la preghiera dei secoli lo raggiunge nuovamente”.
Gustav Kuhn ha posto l’accento sul carattere devozionale, imprimendo, al tempo stresso, quel piglio melodrammatico, ove non da grand-opéra, a lui consueto (e frutto della lunga prassi esecutiva di Verdi e Wagner. Ha evitato enfasi eccessive nel “Gloria”.L’”Agnus Dei”, con cui termina il lavoro, è stato davvero struggente: il canto (anche corale) del penitente alla ricerca della Grazia. L’orchestra ha confermato di essere tra le formazioni migliori d’Italia. Di gran livello il coro guidato da Martin Steidler. Molto apprezzato il violinista Mario Mandolini a cui è stato affidato il delicatissimo “asolo”, I solisti non sono stati posti sul boccascena (accanto al maestro concertatore), come di solito avviene in esecuzioni di concerto, ma nella prima fila del coro. Le loro voci sono risultavano, quindi, un po’ schiacciate tra Coro e Orchestra. Ha spiccato, su tutti, il basso cinese Lang Li, noto in Germania e al debutto in Italia. Il tenore Wolfram Witteking aveva poco volume , ma un buon registro e fraseggio. Il soprano Monika Riedler ed il mezzo soprano Hermine Haselblöck hanno mostrato un forte temperamento drammatico che ha accentuato le notazioni quasi sceniche (più che ecclesiastiche) dell’esecuzione (disponibile in un cd della casa discografico Col Legno).
Perugina, Teatro Morlacchi 13 settembre .
Dopo alcuni anni in cui la Sagra Umbra pareva avere perso il proprio carattere originario di festival di musica dello spirito (pur mantenendo una qualità di rilievo), con l’edizione 2008 non solamente ritorna alle origini ma ha un tema puntuale: Dante. La Sagra si estende in tutte le principali città della regione con un programma incentrato su musica che trae la sua ispirazione dalla Divina Commedia: dal canto devozionale umbro, a Vivaldi, a Beethoven, a Liszt, a Sciarrino (quindi dal Medio Evo alla contemporainetà), a film muti del 1910 o giù di lì appena restaurati dalla Filmoteca Vaticana. Il 12 e 13 ottobre, la sagra è iniziata con i cori devozionali umbri a Spello e con la Missa Solemnis di Beethoven al Teatro Morlacchi di Perugia, eseguita dall’orchestra Haydn di Trento e Bolzano guidata da Gustan Kuhn. Suggestivi i canti devozionali pure se il maltempo ha costretto di ridurre all’osso la parte più attesa (processioni delle congregazioni nelle vie di Spello) ed ad eseguire lo spettacolare concerto nella Chiesa di Sant’Andrea. Di grande interessa la Missa Solemnis, vero e proprio contraltare religioso alla laicissima Nona Sinfonia, composta più o meno nello stesso periodo. La partitura originale, indica , con una frase manoscritta dell’autore, che la Missa deve essere eseguita “con devozione” ed il suo ascolto deve portare “dal cuore ai cuori”. E’ concepita per essere suonata e cantata in Chiesa non in sale da concerto od in teatri. Nel lavoro (come nella Nona), Beethoven fa emergere una grandiosa visione dell’universo in una forma carica di tradizione e di storia in cui si avverte un dissidio tra la dimensione della polifonia antica e quella di una religiosità intima che riesce ad esprimere in un linguaggio nutrito di Lied e di corale. Il fulcro è l’ “uomo che lotta e soffre in un tempo di cambiamento”. Il Papa Benedetto XVI, appassionato di musica, la ha chiamata “una toccante testimonianza sempre nuova di una fede che cerca, che non si lascia sfuggire Dio e che attraverso la preghiera dei secoli lo raggiunge nuovamente”.
Gustav Kuhn ha posto l’accento sul carattere devozionale, imprimendo, al tempo stresso, quel piglio melodrammatico, ove non da grand-opéra, a lui consueto (e frutto della lunga prassi esecutiva di Verdi e Wagner. Ha evitato enfasi eccessive nel “Gloria”.L’”Agnus Dei”, con cui termina il lavoro, è stato davvero struggente: il canto (anche corale) del penitente alla ricerca della Grazia. L’orchestra ha confermato di essere tra le formazioni migliori d’Italia. Di gran livello il coro guidato da Martin Steidler. Molto apprezzato il violinista Mario Mandolini a cui è stato affidato il delicatissimo “asolo”, I solisti non sono stati posti sul boccascena (accanto al maestro concertatore), come di solito avviene in esecuzioni di concerto, ma nella prima fila del coro. Le loro voci sono risultavano, quindi, un po’ schiacciate tra Coro e Orchestra. Ha spiccato, su tutti, il basso cinese Lang Li, noto in Germania e al debutto in Italia. Il tenore Wolfram Witteking aveva poco volume , ma un buon registro e fraseggio. Il soprano Monika Riedler ed il mezzo soprano Hermine Haselblöck hanno mostrato un forte temperamento drammatico che ha accentuato le notazioni quasi sceniche (più che ecclesiastiche) dell’esecuzione (disponibile in un cd della casa discografico Col Legno).
STABAT MATER di PERGOLESI in MUSICA Ottobre
PERGOLESI Stabat Mater D.Mazzola Gavazzeni, E. Zilio, H.Olivi. Direttore d’Orchestra Federico Longo Orchestra dell’Impresario.
In occasione della ricorrenza di San Roberto Bellarmino, la Chiesa eponima di Roma ha organizzato una serie di celebrazioni solenne aperte con questo concerto. Lo “Stabat Mater” è l’ultima composizione di Giovanni Battista Draghi (o secondo alcuni Drago) detto Pergolesi che a 26 anni in un convento di Pozzuoli stava morendo di tubercolosi tra forti sofferenze e premonizioni della fine della sua giovane vita. Opera quasi parallela (o immediatamente successiva) di quell’”Adriano in Siria” che nel 2007 è stato ascoltato al Festival Pergolesiano di Jesi e lo scorso luglio a quello di opera barocca di Beaune. Proprio il confronto con “Adriano in Siria” mostra, da un lato, la fretta con cui lo “Stabat Mater” venne composto (significativo il “finis, laudo Deo” manoscritto nell’ultima pagina della partitura) e, dall’altro, il rifiuto netto di qualsiasi abbellimento e fioritura. Cronologicamente appartiene al barocco napoletano, ma musicalmente anticipa di quasi 50 anni la “tragédie lyrique”: una melodia struggente a due voci, supportate da un piccolo organico orchestrale, in cui si canta la morte (e non si intravede la Resurrezione). Opera scarna ma di grande impatto drammatico e vocale. Ottime le due voci (specialmente il contralto Elena Zilio, che si è usi a vedere, in teatri lirici, principalmente in opere comiche). Di resa efficace l’orchestra che,guidata con puntualità da Federico Longo, utilizza o strumenti d’epoca o copie fedeli. Poco felice l’idea di intercalare i 12 brevi numeri musicali di Pergolesi con brani tratti da prediche o da scritti ascetici di San Roberto Bellarmino affidati ad una voce recitante con l’esito di frammentare una partitura che, pur se non perfetta, ha una grande unità drammatica e farla durare quanto il primo atto del wagneriano “Parsifal”.
Chiesa di San Roberto Bellarmino, Roma 17 settembre ’08
IL BEL CANTO TORNA IN SCENA, Milano Finanza 26 settembre
Il belcanto torna in scena Di Giuseppe Pennisi Musica Da Roma a Palermo il genere settecentesco ritrova consenso dopo un lungo oblioNe I Puritani Haider coglie malinconia e luce della melodia belliniana Nessuno avrebbe immaginato che nella Sala Petrassi del Parco della Musica a Roma il concerto di Mariella Devia, accompagnata da Rosetta Cucchi al pianoforte con Scene da Prima Donna, basato su arie di Rossini, Bellini e Donizetti sarebbe stato accolto da ovazioni. Qualcosa di analogo è accaduto al concerto con cui si è aperto il festival del belcanto che terminerà, nella capitale, con due esecuzioni, in forma di concerto, di Norma di Vincenzo Bellini previste per stasera e per il 29 settembre.
In parallelo, a Palermo viene messa in scena I Puritani, opera in cui, secondo il musicologo Friederich Lippmam, «la melodia belliniana rifulge in tutto il suo splendore, nella sua ricchezza di sfumature». Raramente rappresentata, proprio per le difficoltà vocali che presenta, come le acrobazie del soprano nella scena della pazzia, i do acuti e i re maggiore del tenore, il nuovo allestimento palermitano sarà a Bologna il febbraio prossimo, a Cagliari in primavera, al Festival di Sanvonlinna in Finlandia in luglio e successivamente a Tokyo. Si tratta di un vero esempio di quell'«esportar cantando» made in Italy promosso parallelamente da Sandro Bondi al Collegio Romano e da Adolfo Urso a Viale Boston (Commercio con l'Estero). Nel contempo un'altra nuova produzione de I Puritani prende il via a Bergamo in ottobre per approdare a Sassari e in altre città. In parallelo, sempre in ottobre, un'altra opera belcantistica, La sonnambula, è a Cagliari, mentre a Bergamo è stata appena messa in scena una delle prove più belcantistiche di Gaetano Donizetti, La favorite. Un rientro, quindi, in grande stile per il belcanto dopo una lunga fase in cui, con l'eccezione di pochi titoli, sembrava apparire di rado nei teatri e interessare specialmente il pubblico anziano.
Questo genere premia la vocalità e utilizza orchestra e orchestrazione a supporto della voce. «Spesso», scrive il musicologo H.C. Robbins Laddon, «l'orchestrazione finisce per essere trascurata, come indicano, per esempio, errori nella scrittura per timpani nella stessa Norma che avrebbero spaventato i sensibili orecchi di Haydn e di Mozart». Il belcanto si può far risalire all'inizio del Settecento e si può trovare in Italia fino al melodramma verdiano, mentre nel resto d'Europa venne spazzato via dalla rivoluzione di Wolfgang A. Mozart. In una visione più restrittiva, quale quella accolta dal festival romano, lo si accosta all'inizio dell'Ottocento, alla fine delle esperienze neo-classiche e all'inizio del romanticismo. I Puritani, ultima opera di Bellini e apoteosi del belcanto, è basata su un libretto del Conte Carlo Pepoli e su un'orchestrazione curata con attenzione speciale. È caratterizzata da poche arie, brevi recitativi e numerosi numeri d'insieme (duetti, terzetti, quartetti che si sciolgono in concertati con coro) ed è piena di melanconia,, di anima e tale da appassionare dopo circa 200 anni così come accadde nel 1835. L'allestimento palermitano è stato chiaramente pensato da Pier'Alli per viaggiare e per essere adattato a palcoscenici di differenti dimensioni. L'opera è a imbuto: un'ora e mezzo per il primo atto, tre quarti d'ora per il secondo e mezz'ora per il terzo. Nei primi due atti domina il grigio; accompagna amori, intrighi, tradimenti e follia. Nel terzo, dove con un colpo di scena inatteso giunge il lieto fine, dominano il verde e l'azzurro. La concertazione di Friederich Haider, dilatata e non enfatica, coglie l'atmosfera melanconica. La protagonista, la giovanissima Désirée Mancatore, già da diversi anni sulla scena internazionale, è palermitana. Il pubblico le concede quindi più applausi a scena aperta di quelli che le attribuirebbe il critico. Ottimi il registro, la tessitura, il fraseggio e la sparata dei do di José Bros nella prima parte, ma una stecca nel duetto del terzo atto lo costringe a rifugiarsi nel falsetto, scontentando il pubblico. Carlo Colombara conferma di essere un basso di coloratura di livello. Marco De Felice di essere un baritono di cui si parlerà nei prossimi anni. Buoni gli altri, specialmente il coro guidato da Miguel Fabián Martínez.
In parallelo, a Palermo viene messa in scena I Puritani, opera in cui, secondo il musicologo Friederich Lippmam, «la melodia belliniana rifulge in tutto il suo splendore, nella sua ricchezza di sfumature». Raramente rappresentata, proprio per le difficoltà vocali che presenta, come le acrobazie del soprano nella scena della pazzia, i do acuti e i re maggiore del tenore, il nuovo allestimento palermitano sarà a Bologna il febbraio prossimo, a Cagliari in primavera, al Festival di Sanvonlinna in Finlandia in luglio e successivamente a Tokyo. Si tratta di un vero esempio di quell'«esportar cantando» made in Italy promosso parallelamente da Sandro Bondi al Collegio Romano e da Adolfo Urso a Viale Boston (Commercio con l'Estero). Nel contempo un'altra nuova produzione de I Puritani prende il via a Bergamo in ottobre per approdare a Sassari e in altre città. In parallelo, sempre in ottobre, un'altra opera belcantistica, La sonnambula, è a Cagliari, mentre a Bergamo è stata appena messa in scena una delle prove più belcantistiche di Gaetano Donizetti, La favorite. Un rientro, quindi, in grande stile per il belcanto dopo una lunga fase in cui, con l'eccezione di pochi titoli, sembrava apparire di rado nei teatri e interessare specialmente il pubblico anziano.
Questo genere premia la vocalità e utilizza orchestra e orchestrazione a supporto della voce. «Spesso», scrive il musicologo H.C. Robbins Laddon, «l'orchestrazione finisce per essere trascurata, come indicano, per esempio, errori nella scrittura per timpani nella stessa Norma che avrebbero spaventato i sensibili orecchi di Haydn e di Mozart». Il belcanto si può far risalire all'inizio del Settecento e si può trovare in Italia fino al melodramma verdiano, mentre nel resto d'Europa venne spazzato via dalla rivoluzione di Wolfgang A. Mozart. In una visione più restrittiva, quale quella accolta dal festival romano, lo si accosta all'inizio dell'Ottocento, alla fine delle esperienze neo-classiche e all'inizio del romanticismo. I Puritani, ultima opera di Bellini e apoteosi del belcanto, è basata su un libretto del Conte Carlo Pepoli e su un'orchestrazione curata con attenzione speciale. È caratterizzata da poche arie, brevi recitativi e numerosi numeri d'insieme (duetti, terzetti, quartetti che si sciolgono in concertati con coro) ed è piena di melanconia,, di anima e tale da appassionare dopo circa 200 anni così come accadde nel 1835. L'allestimento palermitano è stato chiaramente pensato da Pier'Alli per viaggiare e per essere adattato a palcoscenici di differenti dimensioni. L'opera è a imbuto: un'ora e mezzo per il primo atto, tre quarti d'ora per il secondo e mezz'ora per il terzo. Nei primi due atti domina il grigio; accompagna amori, intrighi, tradimenti e follia. Nel terzo, dove con un colpo di scena inatteso giunge il lieto fine, dominano il verde e l'azzurro. La concertazione di Friederich Haider, dilatata e non enfatica, coglie l'atmosfera melanconica. La protagonista, la giovanissima Désirée Mancatore, già da diversi anni sulla scena internazionale, è palermitana. Il pubblico le concede quindi più applausi a scena aperta di quelli che le attribuirebbe il critico. Ottimi il registro, la tessitura, il fraseggio e la sparata dei do di José Bros nella prima parte, ma una stecca nel duetto del terzo atto lo costringe a rifugiarsi nel falsetto, scontentando il pubblico. Carlo Colombara conferma di essere un basso di coloratura di livello. Marco De Felice di essere un baritono di cui si parlerà nei prossimi anni. Buoni gli altri, specialmente il coro guidato da Miguel Fabián Martínez.
mercoledì 24 settembre 2008
LA SAGRA RIVOLTA ALL’ALTO, Il Velino del 24 settembre
Nell’Umbria si svolge sino al 26 settembre la 63sima edizione (12-26 settembre) è sempre stata dedicata alla musica dello spirito. Il calendario specifico è a www.perugiamusicaclassica.it. . La sagra si estende in tutte le principali città della regione (dotata di splendidi teatri, oltre che di belle chiese) con un programma annunciato la scorsa ed incentrato sulla musica che trae la sua ispirazione dalla Divina Commedia di Dante: dal canto devozionale umbro, a Vivaldi,a Beethoven, a Liszt, a Sciarrino (quindi dal Medio Evo alla contemporainetà), a film muti del 1910 o giù di lì appena restaurati dalla Filmoteca Vaticana. Il 12 e 13 ottobre, la sagra è iniziata con i cori devozionali umbri a Spello e con la Missa Solemnis di Beethoven al Teatro Morlacchi di Perugia, eseguita dall’orchestra Haydn di Trento e Bolzano guidata da Gustan Kuhn. Molto suggestivi i canti devozionali anche se il maltempo ha costretto di ridurre all’osso la parte più attesa (processioni delle congregazioni nelle vie di Spello) ed ad eseguire lo spettacolare concerto nella Chiesa di Sant’Andrea.
. La partitura originale, indica , con una frase manoscritta dell’autore, che la Missa deve essere eseguita “con devozione” ed il suo ascolto deve portare “dal cuore ai cuori”. E’ concepita per essere suonata e cantata in Chiesa non in sale da concerto od in teatri. Nel lavoro (come nella Nona), Beethoven fa emergere una grandiosa visione dell’universo in una forma carica di tradizione e di storia in cui si avverte un dissidio tra la dimensione della polifonia antica e quella di una religiosità intima che riesce ad esprimere in un linguaggio nutrito di Lied e di corale. Il fulcro è l’ “uomo che lotta e soffre in un tempo di cambiamento”. Il Papa Benedetto XVI, appassionato di musica, la ha chiamata “una toccante testimonianza sempre nuova di una fede che cerca, che non si lascia sfuggire Dio e che attraverso la preghiera dei secoli lo raggiunge nuovamente”.
Gustav Kuhn ha posto l’accento sul carattere devozionale, imprimendo, al tempo stresso, quel piglio melodrammatico, ove non da grand-opéra, a lui consueto (e frutto della lunga prassi esecutiva di Verdi e Wagner. Ha evitato enfasi eccessive nel “Gloria”.L’”Agnus Dei”, con cui termina il lavoro, è stato davvero struggente: il canto (anche corale) del penitente alla ricerca della Grazia. L’orchestra ha confermato di essere tra le formazioni migliori d’Italia. Di gran livello il coro guidato da Martin Steidler. Molto apprezzato il violinista Mario Mandolini a cui è stato affidato il delicatissimo “asolo”, I solisti non sono stati posti sul boccascena (accanto al maestro concertatore), come di solito avviene in esecuzioni di concerto, ma nella prima fila del coro. Le loro voci sono risultavano, quindi, un po’ schiacciate tra Coro e Orchestra. Ha spiccato, su tutti, il basso cinese Lang Li, noto in Germania e al debutto in Italia. Il tenore Wolfram Witteking aveva poco volume , ma un buon registro e fraseggio. Il soprano Monika Riedler ed il mezzo soprano Hermine Haselblöck hanno mostrato un forte temperamento drammatico che ha accentuato le notazioni quasi sceniche (più che ecclesiastiche) dell’esecuzione (disponibile in un cd della casa discografico Col Legno).
Tra gli spettacoli in programma, specialmente interessante il confronto tra i madrigali di Gesualdo da Venosta e quelli di Sciarrino a cura del Neue Vocalsolisten di Stoccarda.
. La partitura originale, indica , con una frase manoscritta dell’autore, che la Missa deve essere eseguita “con devozione” ed il suo ascolto deve portare “dal cuore ai cuori”. E’ concepita per essere suonata e cantata in Chiesa non in sale da concerto od in teatri. Nel lavoro (come nella Nona), Beethoven fa emergere una grandiosa visione dell’universo in una forma carica di tradizione e di storia in cui si avverte un dissidio tra la dimensione della polifonia antica e quella di una religiosità intima che riesce ad esprimere in un linguaggio nutrito di Lied e di corale. Il fulcro è l’ “uomo che lotta e soffre in un tempo di cambiamento”. Il Papa Benedetto XVI, appassionato di musica, la ha chiamata “una toccante testimonianza sempre nuova di una fede che cerca, che non si lascia sfuggire Dio e che attraverso la preghiera dei secoli lo raggiunge nuovamente”.
Gustav Kuhn ha posto l’accento sul carattere devozionale, imprimendo, al tempo stresso, quel piglio melodrammatico, ove non da grand-opéra, a lui consueto (e frutto della lunga prassi esecutiva di Verdi e Wagner. Ha evitato enfasi eccessive nel “Gloria”.L’”Agnus Dei”, con cui termina il lavoro, è stato davvero struggente: il canto (anche corale) del penitente alla ricerca della Grazia. L’orchestra ha confermato di essere tra le formazioni migliori d’Italia. Di gran livello il coro guidato da Martin Steidler. Molto apprezzato il violinista Mario Mandolini a cui è stato affidato il delicatissimo “asolo”, I solisti non sono stati posti sul boccascena (accanto al maestro concertatore), come di solito avviene in esecuzioni di concerto, ma nella prima fila del coro. Le loro voci sono risultavano, quindi, un po’ schiacciate tra Coro e Orchestra. Ha spiccato, su tutti, il basso cinese Lang Li, noto in Germania e al debutto in Italia. Il tenore Wolfram Witteking aveva poco volume , ma un buon registro e fraseggio. Il soprano Monika Riedler ed il mezzo soprano Hermine Haselblöck hanno mostrato un forte temperamento drammatico che ha accentuato le notazioni quasi sceniche (più che ecclesiastiche) dell’esecuzione (disponibile in un cd della casa discografico Col Legno).
Tra gli spettacoli in programma, specialmente interessante il confronto tra i madrigali di Gesualdo da Venosta e quelli di Sciarrino a cura del Neue Vocalsolisten di Stoccarda.
martedì 23 settembre 2008
ALITALIA A SECCO RISCHIA DAVVERO DI RESTARE A TERRA L'Occidentale del 23 settembre
Ancora una volta, siamo giunti alla settimana “decisiva” per il futuro dell’aeronautica italiana. Da quando, su L’Occidentale commentiamo le vicende della compagnia, di settimane “decisive” ce ne state molte. E si è sempre trovato modo di rinviare, mandando il conto a Pantalone. Adesso, però, il “decisivo” dipende dal fatto, oggettivo, che le casse sono vuote e non c’è più nessuno istituto , fornitore o anche passeggero-mecenate disposto a fare credito. Neanche il solito Pantalone. Ove ciò non bastasse, l’ente preposto alla regolazione del traffico aereo (l’Enac) ha annunciato che, ove entro giovedì la compagnia (al momento titolare di una licenza “parziale”) non potesse fornire prove oggettive della capacità di operare per i prossimi 12 mesi, dal 30 settembre Alitalia non sarà autorizzata ad operare; quindi, aerei a terra e lettere di licenziamento ai dipendenti (con la prospettiva di non più di 18 mesi di indennità di disoccupazione).
Guglielmo Epifani aveva pensato di essersi ritagliato il ruolo di protagonista, avendo come suggeritore WV (Walter Veltroni), prodigo di telefonate da New York (dove era per un periodo di meritata vacanza e di contatti, peraltro senza grande successo, con un Barack Obama impegnato in campagna elettorale e poco interessato a farsi vedere con un leader straniero sconfitto). Epifani ha assunto toni tanto di tragedia greca quanto di dramma pirandelliano. La tragedia greca, in effetti, si addice più agli altri (ai vedi addetti al settore, a coloro che rischiano di restare con una magra indennità di disoccupazione per 18 mesi ed all’indotto, specialmente romano) che a lui: pare che WV gli abbia già assicurato un pluriprebendato seggio al Parlamento Europeo, ossia un lauto pensionamento. I toni pirandelliano calzano meglio la situazione ed il personaggio poiché sino all’ultimo momento non si saprà cosa è il reale e cosa l’immaginario. Non si tratta, però, del Pirandello di “Enrico IV”. Epifani non ha alcuna intenzione di andare a Canossa ed aspettare, nudo sotto la neve, che la Marchesa gli apra il portone del Castello. Conduce il negoziato (vero o finto che sia) con il tono dei principali personaggi del “Giulio Cesare” di Shakespeare: “A Filippi!, A Filippi!” – ossia al regolamento dei conti definitivo per assicurare l’incisività del sindacato sulla politica economica italiana, ove non la cogestione di una delle maggiori aziende, ora che le prospettive di mettere il Governo in crisi si sono rivelate un’illusione (neanche tanto pia).
Non solo Ottaviano, ma anche e soprattutto Marc’Antonio lanciava, esaltato, l’appello “A Filippi! A Filippi!”. Era convinto della superiorità, in mare, delle forze della sua compagna (ed alleata) Cleopatra. Sappiamo come andò; le navi di Cleopatra (gli storici ancora non sanno bene perché) si sfilarono all’improvviso. Le truppe di Marc’Antonio vennero sconfitte. Al loro leader non restò che il suicidio nel Mausoleo di Tolomeo. Cleopatra tentò di conquistare Ottaviano ma non si era informata bene: il vincitore si era di norma interessato ai giovanotti, qualche volta a ragazze molto giovani, mai ad ex-belle donne (pur se con un passato glorioso di seduttrici a go-go).
Epifani rischia la fine di Marc’Antonio. Lunedì atterravo a Fiumicino da Palermo mentre era in corso il confronto tra i suoi “petroniani” e gli altri. Indubbiamente, molti “petroniani” (o ritenuti tali) se la erano data a gambe levate. Gli altri prevalevano numericamente e vocifericamente. La notte tra il 22 ed il 23 settembre, in un talk show del TG3 (notoriamente simpatetico a chi si colloca bene a sinistra, Enrico Letta scaricava Epifani.
Il Commissario Fantozzi non aveva potuto che aprire una procedura di gara pubblica: quella annunciata da Romano Prodi e TPS (Tommaso Padoa Schioppa: vi ricordate chi era costui?) il 6 dicembre 2006 ma come documentato su L’Occidentale di fatto mai iniziata (nella speranza di cedere l’azienda agli amici degli amici). A fronte di questo tentativo, nel silenzio assordante dell’industria internazionale (suvvia, chi vuole avere a che fare con gli irriducibili dell’Alitalia), un gruppo di piloti ha presentato la proposta velleitaria di mettere su una cooperativa per rilevare l’azienda (o parte di essa): con 300 milioni di euro, durerebbero qualche mese (sempre che ottenessero il carburante, i servizi aeroportuali e tante altre cose dai creditori) ma meno di una settimana se gli aventi diritto passassero all’incasso.
“A Filippi! A Filippi!”. Napoleone (uno che se ne intendeva) ripeteva che chi è uso a vincere, perde tutto alla prima battaglia da cui esce sconfitto. Epifani e la Cgil erano usi a vincere: Si sono ripresi dopo la perdita della battaglia sui punti di contingenza (con il referendum del 1985). Oggi stanno perdendo tutto perché o accettano tutte le condizioni della Cai e la stessa Cai (che ha ritirato formalmente l’offerta) viene convinta (dal Governo) a scendere di nuovo in campo oppure avranno la responsabilità della disoccupazione e del crollo dei redditi per almeno 30.000 famiglie (ex-dipendenti Alitalia ed indotto diretto).
Nelle birrerie di Bruxelles – specialmente a La Morte Subite, notorio luogo dove la “blonde” si bene a ettolitri – Epifani avrà tempo per ragionare. Può essere che decida di staccare il telefono ogni qual volta sente la voce di WV. Ascoltare le voci non ha avuto esiti positivi neanche per l’avventura terrena di Giovanna D’Arco.
Guglielmo Epifani aveva pensato di essersi ritagliato il ruolo di protagonista, avendo come suggeritore WV (Walter Veltroni), prodigo di telefonate da New York (dove era per un periodo di meritata vacanza e di contatti, peraltro senza grande successo, con un Barack Obama impegnato in campagna elettorale e poco interessato a farsi vedere con un leader straniero sconfitto). Epifani ha assunto toni tanto di tragedia greca quanto di dramma pirandelliano. La tragedia greca, in effetti, si addice più agli altri (ai vedi addetti al settore, a coloro che rischiano di restare con una magra indennità di disoccupazione per 18 mesi ed all’indotto, specialmente romano) che a lui: pare che WV gli abbia già assicurato un pluriprebendato seggio al Parlamento Europeo, ossia un lauto pensionamento. I toni pirandelliano calzano meglio la situazione ed il personaggio poiché sino all’ultimo momento non si saprà cosa è il reale e cosa l’immaginario. Non si tratta, però, del Pirandello di “Enrico IV”. Epifani non ha alcuna intenzione di andare a Canossa ed aspettare, nudo sotto la neve, che la Marchesa gli apra il portone del Castello. Conduce il negoziato (vero o finto che sia) con il tono dei principali personaggi del “Giulio Cesare” di Shakespeare: “A Filippi!, A Filippi!” – ossia al regolamento dei conti definitivo per assicurare l’incisività del sindacato sulla politica economica italiana, ove non la cogestione di una delle maggiori aziende, ora che le prospettive di mettere il Governo in crisi si sono rivelate un’illusione (neanche tanto pia).
Non solo Ottaviano, ma anche e soprattutto Marc’Antonio lanciava, esaltato, l’appello “A Filippi! A Filippi!”. Era convinto della superiorità, in mare, delle forze della sua compagna (ed alleata) Cleopatra. Sappiamo come andò; le navi di Cleopatra (gli storici ancora non sanno bene perché) si sfilarono all’improvviso. Le truppe di Marc’Antonio vennero sconfitte. Al loro leader non restò che il suicidio nel Mausoleo di Tolomeo. Cleopatra tentò di conquistare Ottaviano ma non si era informata bene: il vincitore si era di norma interessato ai giovanotti, qualche volta a ragazze molto giovani, mai ad ex-belle donne (pur se con un passato glorioso di seduttrici a go-go).
Epifani rischia la fine di Marc’Antonio. Lunedì atterravo a Fiumicino da Palermo mentre era in corso il confronto tra i suoi “petroniani” e gli altri. Indubbiamente, molti “petroniani” (o ritenuti tali) se la erano data a gambe levate. Gli altri prevalevano numericamente e vocifericamente. La notte tra il 22 ed il 23 settembre, in un talk show del TG3 (notoriamente simpatetico a chi si colloca bene a sinistra, Enrico Letta scaricava Epifani.
Il Commissario Fantozzi non aveva potuto che aprire una procedura di gara pubblica: quella annunciata da Romano Prodi e TPS (Tommaso Padoa Schioppa: vi ricordate chi era costui?) il 6 dicembre 2006 ma come documentato su L’Occidentale di fatto mai iniziata (nella speranza di cedere l’azienda agli amici degli amici). A fronte di questo tentativo, nel silenzio assordante dell’industria internazionale (suvvia, chi vuole avere a che fare con gli irriducibili dell’Alitalia), un gruppo di piloti ha presentato la proposta velleitaria di mettere su una cooperativa per rilevare l’azienda (o parte di essa): con 300 milioni di euro, durerebbero qualche mese (sempre che ottenessero il carburante, i servizi aeroportuali e tante altre cose dai creditori) ma meno di una settimana se gli aventi diritto passassero all’incasso.
“A Filippi! A Filippi!”. Napoleone (uno che se ne intendeva) ripeteva che chi è uso a vincere, perde tutto alla prima battaglia da cui esce sconfitto. Epifani e la Cgil erano usi a vincere: Si sono ripresi dopo la perdita della battaglia sui punti di contingenza (con il referendum del 1985). Oggi stanno perdendo tutto perché o accettano tutte le condizioni della Cai e la stessa Cai (che ha ritirato formalmente l’offerta) viene convinta (dal Governo) a scendere di nuovo in campo oppure avranno la responsabilità della disoccupazione e del crollo dei redditi per almeno 30.000 famiglie (ex-dipendenti Alitalia ed indotto diretto).
Nelle birrerie di Bruxelles – specialmente a La Morte Subite, notorio luogo dove la “blonde” si bene a ettolitri – Epifani avrà tempo per ragionare. Può essere che decida di staccare il telefono ogni qual volta sente la voce di WV. Ascoltare le voci non ha avuto esiti positivi neanche per l’avventura terrena di Giovanna D’Arco.
NON DEMONIZZARE I DERIVATI Libero 23 settembre
La crisi finanziaria in corso negli Usa (proprio mentre sono in atto le ultime battute della campagna elettorale per le presidenziali) sta facendo scorrere fiumi d’inchiostro sia per le dimensioni che ha raggiunto (coinvolgendo quello che era considerato il Gotha della finanza americana, ed internazionale) sia per la batteria d’interventi messi in atto dal Governo Usa per tamponarla. Noi di Libero Mercato abbiamo il triste compito di ricordare ai lettori che all’inizio di agosto avevamo delineato il processo secondo cui debitori “prime” sarebbero diventati “subprime”, tramite una vera e propria catena che minacciava di diventare una valanga. Contro la quale sono essenzialmente pochi gli strumenti a disposizione. Oggi, con il senno del poi, sono tutti pronti a fornire ricette o critiche. Mentre, in sostanza, parafrasando il titolo del capolavoro di Erich Marie Remarque c’è poco o nulla di nuovo sul fronte occidentale (la finanza Usa è a occidente dell’Europa).
Andiamo con ordine. In uno degli ultimi fascicolo della rivista “European Financial Management” (Vol. 14 , Issue 3, pp. 564-698), Matti Keloharju, un meticoloso finlandese della Università di Helsinki), analizza i 300 saggi più citati in materia di finanza dal 2000 all’agosto 2007, utilizzando una banca dati davvero straordinaria. Le conclusioni sono che le novità degli ultimi anni sono state davvero rare. Anche i tanto apprezzati (qualche anno fa) e tanto disprezzati (adesso) derivati sono antichissimi; Ernst Jeurg Weber (eweber@biz.uwa.edu.au) mi ha dato accesso ad un suo manoscritto in corso di pubblicazione: i derivati nascono in Mesopotania (in quanto futures) e si estendono all’Egitto Ellenistico, prima, all’Impero Bizantino poi e, successivamente, alla Spagna dove la finanza era gestita dai sefartiti. In seguito alla diaspora di questi ultimi, diventano uno degli strumenti finanziari principali delle Libere Province dei Paesi Bassi : nel Cinquecento ad Amsterdam viene emanata una legge di regolazione e vigilanza (sui derivati, il cui impiego si era nel frattempo esteso a Gran Bretagna e Francia – e nel XIX secolo in Germania).
Quindi, attenzione non buttiamo via il bambino (di origini mesopotane) con l’acqua sporca poiché i derivati e la stessa marcia all’abisso dei prime che diventano subprime sono unicamente una sfaccettatura della storia. E non la più importante. Il servizio studi del Fondo monetario ha appena completato un’analisi di 42 crisi bancarie in 37 Paesi dal 1970 al 2007. Nel 74% dei casi, Pantalone ha iniettano liquidità nel sistema (tramite iniezioni dirette o fideiussioni) – analogamente a quanto sta facendo oggi il Governo americano (ed a quanto fece nel 1992 il Governo italiano di fronte alla crisi dei banchi meridionali): “molto, troppo spesso –scrive lo studio- si è privilegiata la stabilità, quale che ne fosse il costo”. In termini aggregati, il costo (su 30 anni) è stato pari al 16% del pil mondiale. In più del 70% di queste crisi i derivati non erano parte del problema; lo erano le gestioni improvvide e le operazioni per compiacere politici grandi e, soprattutto, piccoli. L’Insead di Fontainbleau ha studiato un fenomeno analogo: 348 crisi valutarie in 164 Paesi (in gran misura in via di sviluppo) negli ultimi 40 anni. Il lavoro (Insead Working Paper n. 2008/EPS/MKT) mostra ancora una volta il ruolo limitato, ove non trascurabile, della finanza derivata sia nel determinare una crisi sia nel trovarne una via d’uscita. Individua, però, una serie di indicatori per prevedere l’avvicinarsi della tempesta e per contribuire a formulare strategie per uscirne.
Ci sono alcune misure che possono essere adottate per contenere le disfunzioni della finanza derivata: un saggio di Todd Zywicki e Joseph Adamson, ambedue della George Mason University (uno dei santuari liberisti per eccellenza) , in corso di pubblicazione sulla “University of Colorado Law Review” – si può chiedere a jadamson@gmu.edu – analizza il “law & economics of subprime lending”, ossia gli aspetti giuridici ed economici del suprime e delinea una serie di misure tecniche per migliorare la vigilanza. Arthur Wilmarth della Facoltà di Giurisprudenza della George Washington University della capitale Usa argomenta (nel Gwu Legal Studies Research Paper n. 436) come sia utile allontanarsi dal modello della banca universale verso cui tutti hanno corso (e mettere paratie tra istituti di credito commerciale e banche d’investimento) , ma soprattutto sottolinea come la prevenzione è in certa misura mancata a ragione della frammentazione delle attività di vigilanza. Indicazioni analoghe vengono da un pregevole volume curato da Peter Nobel e Marina Gets per la Università di San Gallo in Svizzera: l’innovazione finanziaria ha generato grandi benefici ma anche nuove sfide e nuova vulnerabilità, specialmente a ragione degli squilibri finanziari globali (leggasi disavanzo strutturale dei conti degli Usa con il resto del mondo, comparsa sulla scena di fondi sovrani, istituzioni economiche finanziarie internazionali – Fondo monetario, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio – in cerca d’autore).
Tiriamo le somme. Non c’è proprio nulla di nuovo sul fronte occidentale? L’analisi riassunta in questa nota è che si sbaglia se si cerca l’assassino nel mondo della finanza derivata. In quel mondo (quale che sia il Paese), possono essere fatti molti miglioramenti ; saranno, però, efficaci unicamente se si avvia a soluzione il nodo degli squilibri globali (e di fondi sovrani che possono fare scorrerie, per finalità non sempre economiche e finanziaria, presso questo o quell’istituto): è il compito centrale della prossima Amministrazione Usa, chiunque vinca le elezioni. Si erra se, come si sente in questi giorni, si propone di lavarsi le mani e di attribuire al Fondo monetario il compito di essere il vigilante mondiale: con una cultura radicata nella macro-economia a breve termine sarebbe il vigilante meno efficace (se del caso, qualche funzione può essere svolta dalla Banca mondiale dove vige, dal 1948, una cultura micro-economica e finanziaria). Il problema, però, non è nelle nostre stelle (come diceva Cassio a Bruto nel “Giulio Cesare” di Shakespeare) ma in noi stessi. Prima di pensare a vigilanti internazionali, mettiamo ordine nella segmentazione di quelli interni. Gli Usa ormai lo riconoscono. Noi , in Italia, non possiamo vantarci di essere di meglio.
Andiamo con ordine. In uno degli ultimi fascicolo della rivista “European Financial Management” (Vol. 14 , Issue 3, pp. 564-698), Matti Keloharju, un meticoloso finlandese della Università di Helsinki), analizza i 300 saggi più citati in materia di finanza dal 2000 all’agosto 2007, utilizzando una banca dati davvero straordinaria. Le conclusioni sono che le novità degli ultimi anni sono state davvero rare. Anche i tanto apprezzati (qualche anno fa) e tanto disprezzati (adesso) derivati sono antichissimi; Ernst Jeurg Weber (eweber@biz.uwa.edu.au) mi ha dato accesso ad un suo manoscritto in corso di pubblicazione: i derivati nascono in Mesopotania (in quanto futures) e si estendono all’Egitto Ellenistico, prima, all’Impero Bizantino poi e, successivamente, alla Spagna dove la finanza era gestita dai sefartiti. In seguito alla diaspora di questi ultimi, diventano uno degli strumenti finanziari principali delle Libere Province dei Paesi Bassi : nel Cinquecento ad Amsterdam viene emanata una legge di regolazione e vigilanza (sui derivati, il cui impiego si era nel frattempo esteso a Gran Bretagna e Francia – e nel XIX secolo in Germania).
Quindi, attenzione non buttiamo via il bambino (di origini mesopotane) con l’acqua sporca poiché i derivati e la stessa marcia all’abisso dei prime che diventano subprime sono unicamente una sfaccettatura della storia. E non la più importante. Il servizio studi del Fondo monetario ha appena completato un’analisi di 42 crisi bancarie in 37 Paesi dal 1970 al 2007. Nel 74% dei casi, Pantalone ha iniettano liquidità nel sistema (tramite iniezioni dirette o fideiussioni) – analogamente a quanto sta facendo oggi il Governo americano (ed a quanto fece nel 1992 il Governo italiano di fronte alla crisi dei banchi meridionali): “molto, troppo spesso –scrive lo studio- si è privilegiata la stabilità, quale che ne fosse il costo”. In termini aggregati, il costo (su 30 anni) è stato pari al 16% del pil mondiale. In più del 70% di queste crisi i derivati non erano parte del problema; lo erano le gestioni improvvide e le operazioni per compiacere politici grandi e, soprattutto, piccoli. L’Insead di Fontainbleau ha studiato un fenomeno analogo: 348 crisi valutarie in 164 Paesi (in gran misura in via di sviluppo) negli ultimi 40 anni. Il lavoro (Insead Working Paper n. 2008/EPS/MKT) mostra ancora una volta il ruolo limitato, ove non trascurabile, della finanza derivata sia nel determinare una crisi sia nel trovarne una via d’uscita. Individua, però, una serie di indicatori per prevedere l’avvicinarsi della tempesta e per contribuire a formulare strategie per uscirne.
Ci sono alcune misure che possono essere adottate per contenere le disfunzioni della finanza derivata: un saggio di Todd Zywicki e Joseph Adamson, ambedue della George Mason University (uno dei santuari liberisti per eccellenza) , in corso di pubblicazione sulla “University of Colorado Law Review” – si può chiedere a jadamson@gmu.edu – analizza il “law & economics of subprime lending”, ossia gli aspetti giuridici ed economici del suprime e delinea una serie di misure tecniche per migliorare la vigilanza. Arthur Wilmarth della Facoltà di Giurisprudenza della George Washington University della capitale Usa argomenta (nel Gwu Legal Studies Research Paper n. 436) come sia utile allontanarsi dal modello della banca universale verso cui tutti hanno corso (e mettere paratie tra istituti di credito commerciale e banche d’investimento) , ma soprattutto sottolinea come la prevenzione è in certa misura mancata a ragione della frammentazione delle attività di vigilanza. Indicazioni analoghe vengono da un pregevole volume curato da Peter Nobel e Marina Gets per la Università di San Gallo in Svizzera: l’innovazione finanziaria ha generato grandi benefici ma anche nuove sfide e nuova vulnerabilità, specialmente a ragione degli squilibri finanziari globali (leggasi disavanzo strutturale dei conti degli Usa con il resto del mondo, comparsa sulla scena di fondi sovrani, istituzioni economiche finanziarie internazionali – Fondo monetario, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio – in cerca d’autore).
Tiriamo le somme. Non c’è proprio nulla di nuovo sul fronte occidentale? L’analisi riassunta in questa nota è che si sbaglia se si cerca l’assassino nel mondo della finanza derivata. In quel mondo (quale che sia il Paese), possono essere fatti molti miglioramenti ; saranno, però, efficaci unicamente se si avvia a soluzione il nodo degli squilibri globali (e di fondi sovrani che possono fare scorrerie, per finalità non sempre economiche e finanziaria, presso questo o quell’istituto): è il compito centrale della prossima Amministrazione Usa, chiunque vinca le elezioni. Si erra se, come si sente in questi giorni, si propone di lavarsi le mani e di attribuire al Fondo monetario il compito di essere il vigilante mondiale: con una cultura radicata nella macro-economia a breve termine sarebbe il vigilante meno efficace (se del caso, qualche funzione può essere svolta dalla Banca mondiale dove vige, dal 1948, una cultura micro-economica e finanziaria). Il problema, però, non è nelle nostre stelle (come diceva Cassio a Bruto nel “Giulio Cesare” di Shakespeare) ma in noi stessi. Prima di pensare a vigilanti internazionali, mettiamo ordine nella segmentazione di quelli interni. Gli Usa ormai lo riconoscono. Noi , in Italia, non possiamo vantarci di essere di meglio.
lunedì 22 settembre 2008
MA IL FUTURO DI ROMA NON PUO’ DIPENDERE DAL DESTINO DELLA COMPAGNIA Il Tempo 22 settembre
Il 16 giugno, Il Tempo è stato il primo, ed il solo, quotidiano a mostrare scetticismo nei confronti della Commissione “Attali”- non per le doti scaramantiche che i francesi attribuiscono all’ingegnere minerario trasformatosi in filosofo, economista, regista cinematografico e tante altre cose ma sulla base di un parallelo con la Municipal Assistance Corporation (Mac) creata a New York, da Felix Rohatyn, con la finanza e l’imprenditoria locale ed il supporto del Governo federale Usa, per rimettere in sesto la Grande Mela. La Mac ha prodotto proposte e risultati concreti. La Commissione “Attali” ha redatto un documento così aereo e così sottile che appena il 10% delle sue raccomandazioni verranno attuate.
Oggi, dopo la vicenda Alitalia, credo che Roma abbia urgente bisogno della Commissione Marzano di cui pare si stiano delineando composizione e obiettivi specifici. Su Il Tempo del 19 settembre si sono tracciate le prime stime dell’impatto su Roma e dintorni di una crisi voluta dall’attuale opposizione che ha fomentato una strana alleanza tra la Cgil ed una delle categorie meglio retribuite dei lavoratori dipendenti europei (i piloti AZ). Difficile dire quanto questa intesa potrà durare.: numerosi dirigenti della Cgil la hanno definita “innaturale” e la poltrona di Epifani scricchiola-. La frittata, però, è fatta; basta scorrere la stampa internazionale per toccare con mano il danno alla capitale (nonché a chiunque abbia indossato la divisa Alitalia). Nuove stime parlano di 10.000 posti di lavoro che si perderanno nell’indotto oltre al tracollo dei redditi delle famiglie ex- Alitalia (a ragione dei bassi livelli delle indennità di disoccupazione e di mobilità). Con contrazione dei consumi nell’area.
A questo punto, la Commissione Marzano dovrebbe produrre non idee fumose e sofismi ma programmi concreti (meglio se dotati di analisi finanziarie ed economiche preliminari) per la trasformazione di Roma. A mio parere, Roma non ha futuro se proposta, come sostengono alcuni, alla stregua di una Disneyland archeologica e religiosa: anche prima degli ultimi sviluppi Alitalia (che incidono pesantemente sul turismo), si sarebbe trattato di una capitale a bassa tecnologia, condannata dalla “legge di Baumol” (l’economista Usa che la ha teorizzata) a perdere inesorabilmente competitività, a ridursi ai margini, non al centro, della Nazione di cui è capitale.
Le Università romane (Marzano le conosce bene per la sua lunga attività accademica), l’industria romana (Marzano è stato Ministro delle attività produttive ed in precedenza alla guida di un’importante finanziaria) hanno la capacità e gli strumenti per porre ricerca, innovazione e tecnologia come elementi portanti del futuro della città. Manca, per ora, un tassello importante: l’aeronautica. In un contesto di sviluppo orientato a ricerca, innovazione e tecnologia è più facile riprenderne i pezzi , ed attirare investitori (anche stranieri) che non abbiano paura di volare, piuttosto che in una visione ancorata su turismo e commercio.
Oggi, dopo la vicenda Alitalia, credo che Roma abbia urgente bisogno della Commissione Marzano di cui pare si stiano delineando composizione e obiettivi specifici. Su Il Tempo del 19 settembre si sono tracciate le prime stime dell’impatto su Roma e dintorni di una crisi voluta dall’attuale opposizione che ha fomentato una strana alleanza tra la Cgil ed una delle categorie meglio retribuite dei lavoratori dipendenti europei (i piloti AZ). Difficile dire quanto questa intesa potrà durare.: numerosi dirigenti della Cgil la hanno definita “innaturale” e la poltrona di Epifani scricchiola-. La frittata, però, è fatta; basta scorrere la stampa internazionale per toccare con mano il danno alla capitale (nonché a chiunque abbia indossato la divisa Alitalia). Nuove stime parlano di 10.000 posti di lavoro che si perderanno nell’indotto oltre al tracollo dei redditi delle famiglie ex- Alitalia (a ragione dei bassi livelli delle indennità di disoccupazione e di mobilità). Con contrazione dei consumi nell’area.
A questo punto, la Commissione Marzano dovrebbe produrre non idee fumose e sofismi ma programmi concreti (meglio se dotati di analisi finanziarie ed economiche preliminari) per la trasformazione di Roma. A mio parere, Roma non ha futuro se proposta, come sostengono alcuni, alla stregua di una Disneyland archeologica e religiosa: anche prima degli ultimi sviluppi Alitalia (che incidono pesantemente sul turismo), si sarebbe trattato di una capitale a bassa tecnologia, condannata dalla “legge di Baumol” (l’economista Usa che la ha teorizzata) a perdere inesorabilmente competitività, a ridursi ai margini, non al centro, della Nazione di cui è capitale.
Le Università romane (Marzano le conosce bene per la sua lunga attività accademica), l’industria romana (Marzano è stato Ministro delle attività produttive ed in precedenza alla guida di un’importante finanziaria) hanno la capacità e gli strumenti per porre ricerca, innovazione e tecnologia come elementi portanti del futuro della città. Manca, per ora, un tassello importante: l’aeronautica. In un contesto di sviluppo orientato a ricerca, innovazione e tecnologia è più facile riprenderne i pezzi , ed attirare investitori (anche stranieri) che non abbiano paura di volare, piuttosto che in una visione ancorata su turismo e commercio.
sabato 20 settembre 2008
IL VECCHIO SINDACATO PUNISCE SOLO I LAVORATORI Il Tempo 19 settembre
Quindi, la vicenda Alitalia si chiude nel modo più brutto: il leader dell’Uil Luigi Angeletti ha parlato di “catastrofe sindacale-sociale”; il leader della Cisl ha detto che “per responsabilità di pochi pagheranno in molti”; il Presidente e Amministratore Delegato di AirFrance-Klm , Jean Cyrill Spinetta (un socialista di profondo radicamento cattolico) ha indicato, in conversazioni private, che dopo l’ultimo tentativo di strappare ciò che non c’è (in un’azienda che da anni perde oltre un milione di euro al giorno), è difficile,ove non impossibile, trovare imprenditori che vogliano rischiare il proprio con un equipaggio dalla visione così miopie.
Quali le prospettive? E quali le conseguenze? Occorre distinguere le prime , attinenti a quali potrebbero essere i prossimi passi del Commissario Augusto Fantozzi e quali le reazioni degli altri soggetti economici, dalle seconde, che riguardano gli effetti su famiglie, imprese e territorio.
La prospettiva più probabile è l’attuazione di una normale procedura di liquidazione: Dato che non si è in un caso di sospensione temporanea d’attività, è difficile trovare una base giuridica per porre i lavoratori in cassa integrazione ( che per di più sarebbe interamente a carico dei contribuenti. Molto più verosimile un’asta dell’azienda o di alcuni sui rami e la messa in disoccupazione e mobilità dei suoi dipendenti (con trattamenti marcatamente inferiori a quelli della cassa integrazione).
L’implicazione è una pesante caduta di reddito nell’area (il Lazio e soprattutto Roma e dintorni, specialmente Acilia, Ostia e Fiumicino) dove sono concentrati i dipendenti (circa 10.000). Un’inchiesta de “Il Sole-24 Ore”, pubblicata il 17 settembre, stima che nell’indotto laziale i posti a rischio (nella capitale e nelle sue vicinanze) sono 3000. E’ una stima giornalistica basata principalmente sui tavoli di contrattazione per alcune imprese dell’indotto e su dati della Federlazio e sull’ipotesi che gli “esuberi” ricevano il trattamento di cassa integrazione. A mio avviso, si tratta di una stima che erra per difetto. In primo luogo, non ci sarà un numero relativamente controllabile d’esuberi (circa 2000 in Roma e dintorni) ma la dismissione graduale dell’intero personale. In secondo luogo, la perdita di reddito per ciascuna famiglia sarà molto più forte (dall’80% al 40%, mediamente, dell’ultimo stipendio) con inevitabile tracollo di consumi in alcune aree. Per una stima con un minimo d’accuratezza si dovrebbe disporre di una matrice regionale di contabilità sociale e di un modello computabile di equilibrio economico – strumenti di cui la Regione Lazio non si è mai dotata (a differenza della Toscana, dell’Emilia-Romagna e della stessa Regione Siciliana). Utilizzando parametri ricavati da quei modelli (in termini di moltiplicatore degli effetti, negativi), si arriva a circa 5-6.000 uomini e donne nell’indotto che perderebbero il lavoro (oltre ai dipendenti Alitalia) a causa delle posizione oltranziste di alcune sigle e di coloro (Cgil, PD, sinistra radicale) che hanno soffiato sul fuoco. Sono stime, ripeto, approssimative. Sarebbe auspicabile che l’Istat o le maggiori università romane ne producano di più consistenti sotto il profilo dei dati e della metodologia.
Gli interrogativi principali sono a) come cercare di evitare che la crisi locale diventi ancora più grave (anche perché avviene al momento di una crisi internazionale) e b) come ed in che tempi uscirne. Le risposte alle due domande dipendono in gran misura da come andrà la procedura di liquidazione. Per quanto riguarda gli effetti diretti (i lavoratori Alitalia e le loro famiglie) tracolli d’altre compagnie aeree hanno mostrato che sulle ceneri di quella che fallisce o ne nascono nuove o compagnie competitive ne acuiscono le attività (aerei, slots). Non è impensabile che si rifaccia vivo il gruppo AirFrance-Klm prendersi con un forte sconto (e ringraziando gli irriducibili del sindacato) parte delle attività che non è riuscito ad incorporare nove mesi fa. Oppure che parte degli investitori che avrebbero dato vita alla Cai creino una compagnia di piccolo e medio raggio. Anche per gli ex-lavoratori si tratterà di una partita nuova, con condizioni in linea con il mercato. E con datori di lavoro pronti a scegliere con oculatezza nella vasta offerta disponibile. Nell’indotto, le chances migliori sono quelle dei fornitori specializzati che serviranno a Fiumicino chi prenderà il posto di Alitalia.
Quali le prospettive? E quali le conseguenze? Occorre distinguere le prime , attinenti a quali potrebbero essere i prossimi passi del Commissario Augusto Fantozzi e quali le reazioni degli altri soggetti economici, dalle seconde, che riguardano gli effetti su famiglie, imprese e territorio.
La prospettiva più probabile è l’attuazione di una normale procedura di liquidazione: Dato che non si è in un caso di sospensione temporanea d’attività, è difficile trovare una base giuridica per porre i lavoratori in cassa integrazione ( che per di più sarebbe interamente a carico dei contribuenti. Molto più verosimile un’asta dell’azienda o di alcuni sui rami e la messa in disoccupazione e mobilità dei suoi dipendenti (con trattamenti marcatamente inferiori a quelli della cassa integrazione).
L’implicazione è una pesante caduta di reddito nell’area (il Lazio e soprattutto Roma e dintorni, specialmente Acilia, Ostia e Fiumicino) dove sono concentrati i dipendenti (circa 10.000). Un’inchiesta de “Il Sole-24 Ore”, pubblicata il 17 settembre, stima che nell’indotto laziale i posti a rischio (nella capitale e nelle sue vicinanze) sono 3000. E’ una stima giornalistica basata principalmente sui tavoli di contrattazione per alcune imprese dell’indotto e su dati della Federlazio e sull’ipotesi che gli “esuberi” ricevano il trattamento di cassa integrazione. A mio avviso, si tratta di una stima che erra per difetto. In primo luogo, non ci sarà un numero relativamente controllabile d’esuberi (circa 2000 in Roma e dintorni) ma la dismissione graduale dell’intero personale. In secondo luogo, la perdita di reddito per ciascuna famiglia sarà molto più forte (dall’80% al 40%, mediamente, dell’ultimo stipendio) con inevitabile tracollo di consumi in alcune aree. Per una stima con un minimo d’accuratezza si dovrebbe disporre di una matrice regionale di contabilità sociale e di un modello computabile di equilibrio economico – strumenti di cui la Regione Lazio non si è mai dotata (a differenza della Toscana, dell’Emilia-Romagna e della stessa Regione Siciliana). Utilizzando parametri ricavati da quei modelli (in termini di moltiplicatore degli effetti, negativi), si arriva a circa 5-6.000 uomini e donne nell’indotto che perderebbero il lavoro (oltre ai dipendenti Alitalia) a causa delle posizione oltranziste di alcune sigle e di coloro (Cgil, PD, sinistra radicale) che hanno soffiato sul fuoco. Sono stime, ripeto, approssimative. Sarebbe auspicabile che l’Istat o le maggiori università romane ne producano di più consistenti sotto il profilo dei dati e della metodologia.
Gli interrogativi principali sono a) come cercare di evitare che la crisi locale diventi ancora più grave (anche perché avviene al momento di una crisi internazionale) e b) come ed in che tempi uscirne. Le risposte alle due domande dipendono in gran misura da come andrà la procedura di liquidazione. Per quanto riguarda gli effetti diretti (i lavoratori Alitalia e le loro famiglie) tracolli d’altre compagnie aeree hanno mostrato che sulle ceneri di quella che fallisce o ne nascono nuove o compagnie competitive ne acuiscono le attività (aerei, slots). Non è impensabile che si rifaccia vivo il gruppo AirFrance-Klm prendersi con un forte sconto (e ringraziando gli irriducibili del sindacato) parte delle attività che non è riuscito ad incorporare nove mesi fa. Oppure che parte degli investitori che avrebbero dato vita alla Cai creino una compagnia di piccolo e medio raggio. Anche per gli ex-lavoratori si tratterà di una partita nuova, con condizioni in linea con il mercato. E con datori di lavoro pronti a scegliere con oculatezza nella vasta offerta disponibile. Nell’indotto, le chances migliori sono quelle dei fornitori specializzati che serviranno a Fiumicino chi prenderà il posto di Alitalia.
L'OTTOBRE ITALIANO DI GIOVANNA D'ARCO Il Domenicale 20 settembre
La pulzella d’Orléans è la protagonista dell’ottobre musicale italiano. Il primo giorno del mese, a Parma l’edizione 2008 del Festival Verdi sarà inaugurata con un nuovo allestimento di “Giovanna d’Arco” del cigno di Busseto – opera raramente eseguita (ne ricordo una messa in scena al Comunale di Bologna verso la metà degli Anni 90); la regia è di Gabriele Lavia, dirige Bruno Bartoletti, il cast è di grande rilievo (Svetla Vassilleva nel ruolo della protagonista, Evan Bowers in quello di Carlo VII e Renato Bruson in quello di Giacomo, padre di Giovanna). Il 12 ottobre, al Parco della Musica di Roma la stagione 2008-2009 si apre con la produzione semi-scenica di “Jeanne d’Arc au Bûcher” di Arthur Honneger su testo di Paul Claudel. Anche in questo caso, si tratta di un appuntamento importante: concerta Antonio Pappano; la regia (che, seguendo le intenzioni di Honneger prevede elementi cinematografici) è di Keith Warner; le scene ed i costumi sono affidati a Es Devil; il cast include, nei ruoli recitanti, Romane Bohringer e Tchéky Karyo (due noti attori di cinema) ed, in quelli cantati, Susan Gritton, Maria Radner e Donald Kaash.
Il “Dom” tratterà dell’opera verdiana in un’analisi del Festival. Il lavoro di Honneger e Claudel induce, invece, ad illustrarne l’importanza ed anche l’attualità nel panorama culturale italiano ed europeo di questo primo scorcio di XXI secolo. E’ utile ricordare che il Maggio Musicale 2008 sarebbe dovuto essere inaugurato con “Jeanne d’Arc au Bûcher”- il progetto è stato abbandonato quasi all’ultimo momento (pare per ragioni di budget). L’ultima esecuzione che ricordo è quella del 2003 al Teatro Massimo di Palermo ; la regia era di Daniele Abbado; concertava Stefan Anton Reck, protagonista Irene Jacob .
Innanzitutto, i lavori di Paul Claudel (anche quelli puramente teatrali come “L’annonce fait à Marie”, se non il suo capolavoro almeno quello più noto in Francia e nel resto del mondo) sono virtualmente spariti dalle scene italiane dalla fine degli Anni Sessanta, a ragione in gran misura di una vulgata, di origine marxista, secondo cui il poeta e drammaturgo sarebbe stato, oltre che cattolico, anche reazionario e vagamente fascista. Prima di allora, erano rappresentati con una certa frequenza – spesso l’estate sul sagrato di San Miniato ed a Roma nel piccolo, ma elegantissimo, Teatro della Cometa, all’interno di Palazzo Pecci-Blunt, di fronte al Campidoglio –diretto, per anni, da Diego Fabbri. Claudel non si considerava né un poeta né un drammaturgo: era un diplomatico – nella sua lunga carriera è stato, tra l’altro, Ambasciatore di Francia a Tokio, a Washington ed a Bruxelles (sedi tutte impegnative) che dedicava alla poesia ed alla drammaturgia un giorno la settimana. Veniva da famiglia cattolica. Diventato agnostico in adolescenza e scettico all’inizio degli anni universitari, racconta di essere tornato alla Fede all’età di venti anni durante una visita a Nôtre-Dame. Si considerava “scrittore religioso e cattolico”. Vedeva la propria missione non solo nella diplomazia a servizio della Francia ma anche e soprattutto nell’obbligo “di portare daccapo, ad un mondo corroso dal dubbio ed abbrutito dal materialismo, l’idea della gioia e dell’amore, nella certezza e nella fede di un Dio personale legato a noi da un rigoroso contratto”. A questo fine, una scelta precisa: drammi in versi in cui le pause sono determinate da ragioni liriche e la scansione è scandita dalla respirazione del dicitore. Grande accento, poi, sull’atmosfera: dal Medio-Evo denso di contrasti de “L’Annonce” alla Francia napoleonica de “L’Ôtage” ai ricordi del teatro secentesco spagnolo in “Le Soulier de Satin” e di “Christophe Colomb”, messo in musica da Darius Milhaud.
In effetti, nei suoi lavori i rapporti con l’Alto non sono né semplici né lieti: i protagonisti giungono alla verità al termine di percorsi tormentati, caratterizzati da forti conflitti tra le “dramatis personae” attorno ad un tema centrale: il sacrificio consacrato dalla Comunione (in “L’Annonce”), l’orgoglio umano (“Tête d’Or”), la follia della società per avere smarrito Dio (“La Ville”, “Le Repos du Septième Jour”), il canto della vita e della morte (“Le Soulier de Sapin”) e così via. In tal modo – come riconosce lo stesso Silvio D’Amico, che certo non può essere considerato un intellettuale cattolico, nella sua monumentale “Storia del Teatro Drammatico”- Claudel deve essere considerato non un conservatore che, nella prima metà del Novecento, guarda all’indietro – alla struttura del dramma ottocentesco – ma un innovatore che incorpora le lezioni del simbolismo e si rivolge verso un teatro del futuro – un teatro se si vuole, al tempo stesso, aristocratico (la scrittura in versi) e didascalico (il messaggio forte lanciato in ciascun dramma). Faceva parte del gruppo d’artisti innovatori e sperimentali che negli Anni Venti si erano raccolti, a Parigi, attorno al Théâtre de l’Ouvre, ma se ne distingueva per il suo forte senso di missione.
Veniamo a Honneger , il cui “Pacific 231” (una composizione per orchestra che imita la locomotiva a vapore) è ancora eseguito con una certa frequenza nelle sale da concerto. Era svizzero, anche se nato a Le Havre. Faceva parte del Gruppo dei Sei che, all’inizio del Novecento, si proponevano di rinnovare la musica francese, ma, a differenza degli altri cinque, non viaggiava verso la giocosità, ma si collegava a Debussy e a Schömberg, quindi contrappuntismo rigoroso e stile politonale. Non credeva nell’avvenire del teatro d’opera (mentre Claudel ne era convinto ma fornì un magnifico libretto a Milhaud per raccontare la conquista dell’America). Era, invece, interessato alla musica da film: è sua la colonna sonora di “Napoléon” di Abel Gance del 1927 , un colossal di oltre sei ore in cui per la sequenza del passaggio delle Alpi venivano utilizzati tre schermi simultaneamente. La sua unica opera (“L’aiglon” dal dramma di Rostand), composta a mezzadria con Ibert, è tornata di recente sulle scene (a Marsiglia) senza riscuotere un grande successo.
“Jeanne d’Arc au Bûcher”-rappresenta, quindi, l’incontro di due intellettuali di spicco di quello che è chiamato il “Novecento Storico”. Fu concepito mentre si sentiva già il rullo dei tamburi della seconda guerra mondiale. Ebbe appena un successo di stima alla prima esecuzione (in forma di concerto) a Basilea nel 1938. Esito strepitoso alla prima versione scenica, a Zurigo nel 1942, con la regia di Hans Reinhard. Alla “prima” in Francia un pubblico razzista si mostrò ostile alla protagonista, Ida Rubistein, ebrea, sulla cui interpretazione era stato, in gran misura, costruito il lavoro. Ciò nonostante, ci fu una tournée in ben 40 città della Francia di Vichy (ossia la parte non occupata) nel 1941. Il lavoro approdò a Parigi il 9 maggio 1943 (in piena occupazione). La sua risonanza mondiale, però, si ebbe alla metà degli Anni Cinquanta quando, con Roberto Rossellini registra ed Ingrid Bergman protagonista, venne presentato all’Opéra ed al San Carlo e divenne un film di successo.
Nel testo si ritrova il Claudel degli anni migliori: i protagonisti sono ispirati più dal dubbio che dal dogma. La partitura fu all’epoca considerata spregiudicata per l’uso di tecniche quasi cinematografiche (come le dissolvenze incrociate) negli 11 quadri (poco meno di un’ora e mezzo complessivamente) nel modulare una scrittura complessa ed un grande organico.
Un lavoro da ascoltare e da vedere.
Il “Dom” tratterà dell’opera verdiana in un’analisi del Festival. Il lavoro di Honneger e Claudel induce, invece, ad illustrarne l’importanza ed anche l’attualità nel panorama culturale italiano ed europeo di questo primo scorcio di XXI secolo. E’ utile ricordare che il Maggio Musicale 2008 sarebbe dovuto essere inaugurato con “Jeanne d’Arc au Bûcher”- il progetto è stato abbandonato quasi all’ultimo momento (pare per ragioni di budget). L’ultima esecuzione che ricordo è quella del 2003 al Teatro Massimo di Palermo ; la regia era di Daniele Abbado; concertava Stefan Anton Reck, protagonista Irene Jacob .
Innanzitutto, i lavori di Paul Claudel (anche quelli puramente teatrali come “L’annonce fait à Marie”, se non il suo capolavoro almeno quello più noto in Francia e nel resto del mondo) sono virtualmente spariti dalle scene italiane dalla fine degli Anni Sessanta, a ragione in gran misura di una vulgata, di origine marxista, secondo cui il poeta e drammaturgo sarebbe stato, oltre che cattolico, anche reazionario e vagamente fascista. Prima di allora, erano rappresentati con una certa frequenza – spesso l’estate sul sagrato di San Miniato ed a Roma nel piccolo, ma elegantissimo, Teatro della Cometa, all’interno di Palazzo Pecci-Blunt, di fronte al Campidoglio –diretto, per anni, da Diego Fabbri. Claudel non si considerava né un poeta né un drammaturgo: era un diplomatico – nella sua lunga carriera è stato, tra l’altro, Ambasciatore di Francia a Tokio, a Washington ed a Bruxelles (sedi tutte impegnative) che dedicava alla poesia ed alla drammaturgia un giorno la settimana. Veniva da famiglia cattolica. Diventato agnostico in adolescenza e scettico all’inizio degli anni universitari, racconta di essere tornato alla Fede all’età di venti anni durante una visita a Nôtre-Dame. Si considerava “scrittore religioso e cattolico”. Vedeva la propria missione non solo nella diplomazia a servizio della Francia ma anche e soprattutto nell’obbligo “di portare daccapo, ad un mondo corroso dal dubbio ed abbrutito dal materialismo, l’idea della gioia e dell’amore, nella certezza e nella fede di un Dio personale legato a noi da un rigoroso contratto”. A questo fine, una scelta precisa: drammi in versi in cui le pause sono determinate da ragioni liriche e la scansione è scandita dalla respirazione del dicitore. Grande accento, poi, sull’atmosfera: dal Medio-Evo denso di contrasti de “L’Annonce” alla Francia napoleonica de “L’Ôtage” ai ricordi del teatro secentesco spagnolo in “Le Soulier de Satin” e di “Christophe Colomb”, messo in musica da Darius Milhaud.
In effetti, nei suoi lavori i rapporti con l’Alto non sono né semplici né lieti: i protagonisti giungono alla verità al termine di percorsi tormentati, caratterizzati da forti conflitti tra le “dramatis personae” attorno ad un tema centrale: il sacrificio consacrato dalla Comunione (in “L’Annonce”), l’orgoglio umano (“Tête d’Or”), la follia della società per avere smarrito Dio (“La Ville”, “Le Repos du Septième Jour”), il canto della vita e della morte (“Le Soulier de Sapin”) e così via. In tal modo – come riconosce lo stesso Silvio D’Amico, che certo non può essere considerato un intellettuale cattolico, nella sua monumentale “Storia del Teatro Drammatico”- Claudel deve essere considerato non un conservatore che, nella prima metà del Novecento, guarda all’indietro – alla struttura del dramma ottocentesco – ma un innovatore che incorpora le lezioni del simbolismo e si rivolge verso un teatro del futuro – un teatro se si vuole, al tempo stesso, aristocratico (la scrittura in versi) e didascalico (il messaggio forte lanciato in ciascun dramma). Faceva parte del gruppo d’artisti innovatori e sperimentali che negli Anni Venti si erano raccolti, a Parigi, attorno al Théâtre de l’Ouvre, ma se ne distingueva per il suo forte senso di missione.
Veniamo a Honneger , il cui “Pacific 231” (una composizione per orchestra che imita la locomotiva a vapore) è ancora eseguito con una certa frequenza nelle sale da concerto. Era svizzero, anche se nato a Le Havre. Faceva parte del Gruppo dei Sei che, all’inizio del Novecento, si proponevano di rinnovare la musica francese, ma, a differenza degli altri cinque, non viaggiava verso la giocosità, ma si collegava a Debussy e a Schömberg, quindi contrappuntismo rigoroso e stile politonale. Non credeva nell’avvenire del teatro d’opera (mentre Claudel ne era convinto ma fornì un magnifico libretto a Milhaud per raccontare la conquista dell’America). Era, invece, interessato alla musica da film: è sua la colonna sonora di “Napoléon” di Abel Gance del 1927 , un colossal di oltre sei ore in cui per la sequenza del passaggio delle Alpi venivano utilizzati tre schermi simultaneamente. La sua unica opera (“L’aiglon” dal dramma di Rostand), composta a mezzadria con Ibert, è tornata di recente sulle scene (a Marsiglia) senza riscuotere un grande successo.
“Jeanne d’Arc au Bûcher”-rappresenta, quindi, l’incontro di due intellettuali di spicco di quello che è chiamato il “Novecento Storico”. Fu concepito mentre si sentiva già il rullo dei tamburi della seconda guerra mondiale. Ebbe appena un successo di stima alla prima esecuzione (in forma di concerto) a Basilea nel 1938. Esito strepitoso alla prima versione scenica, a Zurigo nel 1942, con la regia di Hans Reinhard. Alla “prima” in Francia un pubblico razzista si mostrò ostile alla protagonista, Ida Rubistein, ebrea, sulla cui interpretazione era stato, in gran misura, costruito il lavoro. Ciò nonostante, ci fu una tournée in ben 40 città della Francia di Vichy (ossia la parte non occupata) nel 1941. Il lavoro approdò a Parigi il 9 maggio 1943 (in piena occupazione). La sua risonanza mondiale, però, si ebbe alla metà degli Anni Cinquanta quando, con Roberto Rossellini registra ed Ingrid Bergman protagonista, venne presentato all’Opéra ed al San Carlo e divenne un film di successo.
Nel testo si ritrova il Claudel degli anni migliori: i protagonisti sono ispirati più dal dubbio che dal dogma. La partitura fu all’epoca considerata spregiudicata per l’uso di tecniche quasi cinematografiche (come le dissolvenze incrociate) negli 11 quadri (poco meno di un’ora e mezzo complessivamente) nel modulare una scrittura complessa ed un grande organico.
Un lavoro da ascoltare e da vedere.
IN CINA LA SCELTA FEDERALE MIGLIORERA’ LA PRODUTTIVITA' Libero 20 settembre
E’ una banalità dire, come si affrettano a fare tutti in questi giorni, che ciò che conta non è tanto il disegno di legge sul federalismo quanto i decreti delegati che verranno promulgati nei due anni dopo la sua approvazione da parte del Parlamento. Il diavolo – afferma un proverbio inglese – sta nei dettagli. E’ meno banale, però, documentarlo. E, nel contempo, documentare che il federalismo non è necessariamente connaturato alla democrazia oppure strumento per rafforzarla –come sostengono da sempre i federalisti ed ha ribadito nove mesi fa Robert Inman dell’Università di Pennsylvania in un saggio molto ricco sui valori del federalismo (con pertinente rassegna della letteratura- CESifo Economic Studies Vol. 54 , inman@wharton.upenn.edu , per avere copia del lavoro od ingaggiare un dibattito telematico con l’autore).
Veniamo, in primo luogo, alla seconda affermazione (interazione tra federalismo e democrazia). Sean Michael Dougherty (sean.dougherty@oecd.org) del servizio studi economico dell’Ocse (quindi, non un ricercatore a titolo personale) e Robert H. McGukin hanno pubblicato, in uno degli ultimi fascicoli del periodico “Management and Organization Review, Vol 4, N. 1, pp. 39-61) uno straordinario (nel senso etimologico di fuori dall’ordinario) studio empirico sugli effetti del federalismo sulla produttività delle imprese nella Repubblica Popolare Cinese (Paese che non è democratico e non aspira ad essere considerato tale – come provano le recenti Olimpiadi). L’analisi riguarda 23.000 aziende e copre il periodo 1995-2005 (quello in cui si è passati da decentramento a federalismo fiscale ed economico). Vengono utilizzati micro-dati di contabilità aziendale ed un apparato statistico imponente. Lo studio afferma che con il federalismo è migliorata la performance delle azione collettive, di quelle gestite direttamente dallo Stato (nelle sue varie articolazioni centrali e provinciali) e di quelle a proprietà mista (pubblica e privata). Gli autori concludono che l’analisi conferma il lavoro teorico sui Paesi in transizione (dal piano al mercato) anche europei. Rappresenta, in ogni caso, un’arma potente per coloro che sostengono la necessità (e la priorità) del federalismo fiscale. C’è , comunque, un “se” ed un “ma”. L’analisi di Dougherty e McGukin premette che il federalismo della Cina comunista è stato congegnato bene, nel senso che guarda alle imprese ed alla loro produttività.
Veniamo quindi al diavolo che si nasconde nei dettagli. Un lavoro ancora inedito di Lorenz Blume (blume@wirstschaft.uni-kassel.de) dell’Università di Kassel e di Stefan Voight (voigt@wiwi-margurb.de) dell’Università del Margurb fa le bucce al federalismo “made in the Federal Rebuplic of Germay”- ossia in Germania (il lavoro è in inglese e gli autori lo inviano per osservazioni a chi lo richiede). Analizza criticamente gli indicatori utilizzati più frequentemente per “valutare” questa o quella tipologia di federalismo – vere e proprie batterie di indici resi spesso promossi dalla Commissione Europea ed applicati, in Italia, dai seguaci di Robert Putman (e dei suoi lavori sulle differenze in capacità amministrative delle Regioni). Ancora una volta, è un lavoro rigorosamente statistico. La conclusione : occhio ai dettagli istituzionali ed alle “variabili latenti” che si celano dietro osservazioni spesso approssimative. Indicazioni importanti per il futuro del lavoro sul federalismo fiscale.
Veniamo, in primo luogo, alla seconda affermazione (interazione tra federalismo e democrazia). Sean Michael Dougherty (sean.dougherty@oecd.org) del servizio studi economico dell’Ocse (quindi, non un ricercatore a titolo personale) e Robert H. McGukin hanno pubblicato, in uno degli ultimi fascicoli del periodico “Management and Organization Review, Vol 4, N. 1, pp. 39-61) uno straordinario (nel senso etimologico di fuori dall’ordinario) studio empirico sugli effetti del federalismo sulla produttività delle imprese nella Repubblica Popolare Cinese (Paese che non è democratico e non aspira ad essere considerato tale – come provano le recenti Olimpiadi). L’analisi riguarda 23.000 aziende e copre il periodo 1995-2005 (quello in cui si è passati da decentramento a federalismo fiscale ed economico). Vengono utilizzati micro-dati di contabilità aziendale ed un apparato statistico imponente. Lo studio afferma che con il federalismo è migliorata la performance delle azione collettive, di quelle gestite direttamente dallo Stato (nelle sue varie articolazioni centrali e provinciali) e di quelle a proprietà mista (pubblica e privata). Gli autori concludono che l’analisi conferma il lavoro teorico sui Paesi in transizione (dal piano al mercato) anche europei. Rappresenta, in ogni caso, un’arma potente per coloro che sostengono la necessità (e la priorità) del federalismo fiscale. C’è , comunque, un “se” ed un “ma”. L’analisi di Dougherty e McGukin premette che il federalismo della Cina comunista è stato congegnato bene, nel senso che guarda alle imprese ed alla loro produttività.
Veniamo quindi al diavolo che si nasconde nei dettagli. Un lavoro ancora inedito di Lorenz Blume (blume@wirstschaft.uni-kassel.de) dell’Università di Kassel e di Stefan Voight (voigt@wiwi-margurb.de) dell’Università del Margurb fa le bucce al federalismo “made in the Federal Rebuplic of Germay”- ossia in Germania (il lavoro è in inglese e gli autori lo inviano per osservazioni a chi lo richiede). Analizza criticamente gli indicatori utilizzati più frequentemente per “valutare” questa o quella tipologia di federalismo – vere e proprie batterie di indici resi spesso promossi dalla Commissione Europea ed applicati, in Italia, dai seguaci di Robert Putman (e dei suoi lavori sulle differenze in capacità amministrative delle Regioni). Ancora una volta, è un lavoro rigorosamente statistico. La conclusione : occhio ai dettagli istituzionali ed alle “variabili latenti” che si celano dietro osservazioni spesso approssimative. Indicazioni importanti per il futuro del lavoro sul federalismo fiscale.
mercoledì 17 settembre 2008
TAN DUN PORTA SULLE ACQUE LA PASSIONE DI BACH, Il Velino 18 settembre
Chi desidera, al tempo stesso, assistere ad uno spettacolo straordinario, nel senso etimologico di “fuori dall’ordinario”, e dare una testimonianza contro i totalitarismi corra al Complesso degli Agostiniani di Rimini per la prima esecuzione scenica di “Water Passion, after Saint Mattew” (“La Passione sull’acqua, secondo San Matteo) di Tan Dun in scena (19 e 21 settembre
Ad accezione degli esperti di musica contemporanea, pochi sanno chi è Tan Dun; ne hanno una conoscenza superficiale basata sulle sue musiche da film, che gli hanno fruttato un Premio Oscar e dall’essere stato scelto come direttore musicale delle Olimpiadi di Pechino (pur se vive principalmente negli Usa – ma anche una residenza a Shangai). Nato nel 1957, in un piccolo villaggio dello Changsha apprende o dallo “shimao”, il leader religioso le regole ancestrali delle musica eseguita con pietre ed acqua. Anche bambini, finisce in un campo di lavoro durante la “rivoluzione culturale”. Ne scappa per il naufragio, con perdita di vite umane, di una compagnia d’opera. Da bracciante in risaia, diventa mozzo. La compagnia lo apprezza e lo invia a studiare al conservatorio di Pechino. Nel 1985 – grazie all’apertura della Cina al resto del mondo - arriva, con una borsa di studio, a Columbia University dove scopre la sperimentazione e la live electronics con Philip Glass, John Cage, Meredith Monk, Stev Reich. Sviluppa uno stile proprio in cui fonde quanto appreso dalla “shimao” (la musica organica) con il classicismo occidentale che permeava il Conservatorio di Pechino , e lo sperimentalismo.
La “Water Passion” è uno dei frutti più completi tale fusione di stili e di generi. Nasce da una commissione dell’accademia internazionale di Stuttgart per commemorare i 250 anni dalla nascita di Bach (Tan Dun ricorda che “Bach” in tedesco vuole dire piccolo fiume): una riscrittura in chiave moderna della “Passione secondo Matteo” di Bach .
L’organico non prevede un’orchestra vera e propria, ma un ensemble di percussionisti (che suonano su vasche, della forma di grandi insalatiere, d’acqua – 17 disposte a forma di croce), un violino, un violoncello, un coro, un soprano da coloratura ed un basso d’agilità. Non mancano, naturalmente, sintetizzatori elettronici per meglio collegare i percussionisti e le vasche d’acqua. In secondo luogo, la musica organica dell’acqua (di volta in volta accarezzata, sbattuta, sfiorata) accompagna i vari momenti del testo, dal battesimo (necessariamente nell’acqua) alla resurrezione (anche essa esaltata dalle acque). In terzo luogo, ai due solisti si richiede una vocalità virtuosistica: il soprano raggiunge tonalità altissime (toccate unicamente dalla musica barocca), il basso deve coniugare una vocalità occidentale con suoni mongoli. In quarto luogo, il violinista ed il violincellista devono piroettare alla Paganini. In quinto luogo, al coro si richiede di viaggiare da momenti che richiamano il canto gregoriano ad altri derivanti invece dal misticismo tibetano. E Bach? Emerge dalle acque, dai solisti, dal coro e dalla live eletronics tramite allusioni e citazioni.
Tan Dun afferma che la sua intenzione era quella di creare una Passione che fosse compresa dal pubblico di oggi ma restasse rigorosamente nei binari fissati da San Matteo. Ci è riuscito? Il pubblico mondiale acclama da due anni la versione da concerto. Quello italiano giudicherà l’edizione scenica.
Ad accezione degli esperti di musica contemporanea, pochi sanno chi è Tan Dun; ne hanno una conoscenza superficiale basata sulle sue musiche da film, che gli hanno fruttato un Premio Oscar e dall’essere stato scelto come direttore musicale delle Olimpiadi di Pechino (pur se vive principalmente negli Usa – ma anche una residenza a Shangai). Nato nel 1957, in un piccolo villaggio dello Changsha apprende o dallo “shimao”, il leader religioso le regole ancestrali delle musica eseguita con pietre ed acqua. Anche bambini, finisce in un campo di lavoro durante la “rivoluzione culturale”. Ne scappa per il naufragio, con perdita di vite umane, di una compagnia d’opera. Da bracciante in risaia, diventa mozzo. La compagnia lo apprezza e lo invia a studiare al conservatorio di Pechino. Nel 1985 – grazie all’apertura della Cina al resto del mondo - arriva, con una borsa di studio, a Columbia University dove scopre la sperimentazione e la live electronics con Philip Glass, John Cage, Meredith Monk, Stev Reich. Sviluppa uno stile proprio in cui fonde quanto appreso dalla “shimao” (la musica organica) con il classicismo occidentale che permeava il Conservatorio di Pechino , e lo sperimentalismo.
La “Water Passion” è uno dei frutti più completi tale fusione di stili e di generi. Nasce da una commissione dell’accademia internazionale di Stuttgart per commemorare i 250 anni dalla nascita di Bach (Tan Dun ricorda che “Bach” in tedesco vuole dire piccolo fiume): una riscrittura in chiave moderna della “Passione secondo Matteo” di Bach .
L’organico non prevede un’orchestra vera e propria, ma un ensemble di percussionisti (che suonano su vasche, della forma di grandi insalatiere, d’acqua – 17 disposte a forma di croce), un violino, un violoncello, un coro, un soprano da coloratura ed un basso d’agilità. Non mancano, naturalmente, sintetizzatori elettronici per meglio collegare i percussionisti e le vasche d’acqua. In secondo luogo, la musica organica dell’acqua (di volta in volta accarezzata, sbattuta, sfiorata) accompagna i vari momenti del testo, dal battesimo (necessariamente nell’acqua) alla resurrezione (anche essa esaltata dalle acque). In terzo luogo, ai due solisti si richiede una vocalità virtuosistica: il soprano raggiunge tonalità altissime (toccate unicamente dalla musica barocca), il basso deve coniugare una vocalità occidentale con suoni mongoli. In quarto luogo, il violinista ed il violincellista devono piroettare alla Paganini. In quinto luogo, al coro si richiede di viaggiare da momenti che richiamano il canto gregoriano ad altri derivanti invece dal misticismo tibetano. E Bach? Emerge dalle acque, dai solisti, dal coro e dalla live eletronics tramite allusioni e citazioni.
Tan Dun afferma che la sua intenzione era quella di creare una Passione che fosse compresa dal pubblico di oggi ma restasse rigorosamente nei binari fissati da San Matteo. Ci è riuscito? Il pubblico mondiale acclama da due anni la versione da concerto. Quello italiano giudicherà l’edizione scenica.
CAI SI E’ RITIRATA MA LA PARTITA E’ DAVVERO CHIUSA? L'Occidentale del 18 ottobre
Nella vicenda Alitalia sembra che si sia ormai arrivati al “fin de partie”, titolo indimenticabile di una delle più belle “pièces” di Samuel Beckett, il maestro irlandese del teatro dell’assurdo. Il “sembra” è d’obbligo poiché è possibile che gli irriducibili del sindacato cambino atteggiamento di fronte alle prospettive di disoccupazione per 20.000 persone (senza cassa integrazione sia poiché la legge consente tali interventi unicamente in caso di sospensione temporanea dal lavoro per ristrutturazione sia perché è difficile trovare una giustificazione per porre il costo di rigidità corporative a carico della collettività).
Su L’Occidentale del 12 settembre abbiamo spiegato come gli irriducibili del sindacato, ormai nell’angolo, avessero tentato un “gioco ad ultimatum”, analogo a quello di Don Giovanni con la statua del Commendatore nella convinzione, o meglio illusione, che la statua si piegasse alle loro richieste. Al pari di Don Giovanni, non hanno compreso che il mondo è, in questi lustri, cambiato. Il “Don” pensava di potere essere il “burlador” di Siviglia in un quadro che invece viaggiava già verso l’illuminismo; gli irriducibili credevano si fosse ancora nell’Italia della consociazione dove tutto è possibile purché se ne scarichi il costo sui contribuenti. Non hanno afferrato che una delle conseguenze dell’unione monetaria europea è che le prassi del passato non sono più fattibili. Ormai ci si deve comportare come il resto d’Europa e del mondo: Pantalone (anche ove volesse farlo) non può più essere torchiato. Lo Stato soprattutto non può più accettare (anche ove lo volesse) all’arma del ricatto, quali che sono le conseguenze possibili. Su L’Occidentale del 16 settembre ho raccontato l’arroganza e la cattiva educazione con cui i passeggeri (paganti € 550 per Roma-Reggio Calabria e ritorno) sono stati trattati. Alcune parti del sindacato Alitalia volevano il fallimento nell’utopia o di un miracoloso intervento pubblico o di una palingenesi della società italiana con le aziende di trasporto ormai decotte affidate ai lavoratori in nuove forme di cooperative sociali. Lo hanno avuto. Naturalmente, chi è oggi all’opposizione ha soffiato, e continuerà a soffiare, su questo fuoco.
Il “farewell” della Cai – attenzione – non riguarda il singolo episodio dell’ultimo “gioco ad ultimatum”. E’ stato chiarissimo, in conversazioni personali, Jean-Cyril Spinetta, un cattolico socialista di profonde convinzioni e di grande umanità. Quale imprenditore può permettersi di dare sempre di più a chi è già in una posizione di privilegio e lavora per un’azienda che perde oltre un milione d’euro al giorno? Quale imprenditore può accollarsi sindacati, grandi o piccoli, che puntano sempre al rialzo?
Il primo nodo è che il “gioco ad ultimatum” di una minoranza danneggia migliaia di famiglie, anche perché da oggi essere stato un ex-lavoratore Alitalia non sarà avvertito, sul mercato del lavoro, come un pregio ma come il rischio di trovarsi a che fare con mestatori di malumori.
Quale il prossimo passo prevedibile? Il Commissario Augusto Fantozzi dovrebbe verosimilmente mettere all’asta l’azienda fallita o interamente o per rami distinti. E’ possibile che alcuni imprenditori raggruppatisi nella Cai si rifacciano vivi ed assumano parte dei lavoratori inevitabilmente messi in mobilità. Il leader dell’Uil Luigi Angeletti ha parlato di “catastrofe sindacale sociale”. Il leader della Cisl ha detto che “per responsabilità di pochi pagheranno in molti”. Dalla vicenda esce sconfitta l’Italia che vuole portare indietro le lancette dell’orologio.
Su L’Occidentale del 12 settembre abbiamo spiegato come gli irriducibili del sindacato, ormai nell’angolo, avessero tentato un “gioco ad ultimatum”, analogo a quello di Don Giovanni con la statua del Commendatore nella convinzione, o meglio illusione, che la statua si piegasse alle loro richieste. Al pari di Don Giovanni, non hanno compreso che il mondo è, in questi lustri, cambiato. Il “Don” pensava di potere essere il “burlador” di Siviglia in un quadro che invece viaggiava già verso l’illuminismo; gli irriducibili credevano si fosse ancora nell’Italia della consociazione dove tutto è possibile purché se ne scarichi il costo sui contribuenti. Non hanno afferrato che una delle conseguenze dell’unione monetaria europea è che le prassi del passato non sono più fattibili. Ormai ci si deve comportare come il resto d’Europa e del mondo: Pantalone (anche ove volesse farlo) non può più essere torchiato. Lo Stato soprattutto non può più accettare (anche ove lo volesse) all’arma del ricatto, quali che sono le conseguenze possibili. Su L’Occidentale del 16 settembre ho raccontato l’arroganza e la cattiva educazione con cui i passeggeri (paganti € 550 per Roma-Reggio Calabria e ritorno) sono stati trattati. Alcune parti del sindacato Alitalia volevano il fallimento nell’utopia o di un miracoloso intervento pubblico o di una palingenesi della società italiana con le aziende di trasporto ormai decotte affidate ai lavoratori in nuove forme di cooperative sociali. Lo hanno avuto. Naturalmente, chi è oggi all’opposizione ha soffiato, e continuerà a soffiare, su questo fuoco.
Il “farewell” della Cai – attenzione – non riguarda il singolo episodio dell’ultimo “gioco ad ultimatum”. E’ stato chiarissimo, in conversazioni personali, Jean-Cyril Spinetta, un cattolico socialista di profonde convinzioni e di grande umanità. Quale imprenditore può permettersi di dare sempre di più a chi è già in una posizione di privilegio e lavora per un’azienda che perde oltre un milione d’euro al giorno? Quale imprenditore può accollarsi sindacati, grandi o piccoli, che puntano sempre al rialzo?
Il primo nodo è che il “gioco ad ultimatum” di una minoranza danneggia migliaia di famiglie, anche perché da oggi essere stato un ex-lavoratore Alitalia non sarà avvertito, sul mercato del lavoro, come un pregio ma come il rischio di trovarsi a che fare con mestatori di malumori.
Quale il prossimo passo prevedibile? Il Commissario Augusto Fantozzi dovrebbe verosimilmente mettere all’asta l’azienda fallita o interamente o per rami distinti. E’ possibile che alcuni imprenditori raggruppatisi nella Cai si rifacciano vivi ed assumano parte dei lavoratori inevitabilmente messi in mobilità. Il leader dell’Uil Luigi Angeletti ha parlato di “catastrofe sindacale sociale”. Il leader della Cisl ha detto che “per responsabilità di pochi pagheranno in molti”. Dalla vicenda esce sconfitta l’Italia che vuole portare indietro le lancette dell’orologio.
IL MALESSERE E’ INTERNAZIONALE. LA PAROLA D’ORDINE E’ PRUDENZA Il Tempo del 17 settembre
Dopo la nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddy Mac ,è la volta del fallimento di Lehman Brothers, da 158 anni banca d’investimento che è un vero e proprio simbolo della finanza americana. Il malessere della finanza internazionale è acuto. Sarà tra un mese uno dei primi argomenti all’ordine del giorno dell’assemblea annuale del Fondo monetario e della Banca mondiale. Negli Usa, la percentuale dei mutui per i quali le rate non sono pagate alle scadenze (classificati alt-A dalle agenzie di rating) , nonostante i loro titolari siano generalmente considerati clienti affidabili, è quadruplicata (raggiungendo il 12% del total) nei 12 mesi terminati in aprile; i ritardi “significativi” nel rimborso di prestiti a clienti “prime” – un volume di 12.000 miliardi di dollari – è nello stesso arco di tempo raddoppiato (ora sfiora il 3% del mercato). Inoltre, ci sono circa 6,3 miliardi di mutui “option adjustable” che consentono a clienti considerati affidabili (e con buone prospettive di carriera) non solo un periodo di grazia relativamente esteso (sino a cinque anni) prima di cominciare a rimborsare ma anche di non rimborsare nei primi anni l’interesse; ciò comporta, in effetti, ratei più forti dopo un certo lasso di anni quando – si presume- le prospettive di carriera hanno dato i frutti sperati ed anche il valore dell’immobile cresciuto. Il rallentamento dell’economia crea disoccupazione e frena carriere soltanto pochi mesi fa considerata promettenti. I valori immobiliari in caduta: negli Usa, negli ultimi 12 mesi, la diminuzione media dell’edilizia residenziale è stato del 15,5% (mentre in Italia si è ancora segnato un aumento, anche se contenuto- il 4,2%. Il castello frana. Il cliente “prime” (giovane, single o sposato di belle speranza) diventa “subprime”; dato che i numeri sono decine di milioni, trascina con sé banche e finanziarie..
Viene naturale la domanda: ma le banche centrali non sono state create proprio per prevenire queste disfunzioni? Non è questa la ragione per cui i loro dipendenti, dirigenti, organi di governo hanno in quasi tutti i Paesi trattamenti normativi ed economici speciali? Una risposta scettica viene da un volume di George Cooper (un banchiere di JP Morgan) “The Origins of Financial Crises: Central Banks, Credit Bubbles anf the Efficient Market Fallacy” (Harriman House, New York 2008). Secondo Cooper, con risposte asimmetriche (salvataggi in tempi bui, espansionismo eccessivo in altri) le banche centrali scoraggiano individui, famiglie ed imprese dal risparmiare e dall’essere prudenti, creano un eccesso di credito (alla base di bolle speculative). Cooper non fornisce una ricetta per uscire del pasticcio. Il solo elemento su cui tutti concordano è che il temporale durerà a lungo. Meglio indossare l’impermeabile ed uscire con l’ombrello: ciò non vuole dire buttare a mare la strumentazione finanziaria degli ultimi 20 anni, ma utilizzarla con cura ed optare per portafogli prudenti. Sino a quando non è passata la nottata.
Viene naturale la domanda: ma le banche centrali non sono state create proprio per prevenire queste disfunzioni? Non è questa la ragione per cui i loro dipendenti, dirigenti, organi di governo hanno in quasi tutti i Paesi trattamenti normativi ed economici speciali? Una risposta scettica viene da un volume di George Cooper (un banchiere di JP Morgan) “The Origins of Financial Crises: Central Banks, Credit Bubbles anf the Efficient Market Fallacy” (Harriman House, New York 2008). Secondo Cooper, con risposte asimmetriche (salvataggi in tempi bui, espansionismo eccessivo in altri) le banche centrali scoraggiano individui, famiglie ed imprese dal risparmiare e dall’essere prudenti, creano un eccesso di credito (alla base di bolle speculative). Cooper non fornisce una ricetta per uscire del pasticcio. Il solo elemento su cui tutti concordano è che il temporale durerà a lungo. Meglio indossare l’impermeabile ed uscire con l’ombrello: ciò non vuole dire buttare a mare la strumentazione finanziaria degli ultimi 20 anni, ma utilizzarla con cura ed optare per portafogli prudenti. Sino a quando non è passata la nottata.
martedì 16 settembre 2008
ALITALIA: TRA L’ACCORDO E L’ULTIMO VOLO, L'Occidentale del 16 settembre
Un altro giorno di “pausa e di riflessione” nella trattativa Alitalia con riapertura dei tavoli o stasera o domani. I sindacati confederali hanno siglato l’accordo quadro ed anche tra le varie sigle degli autonomi (i più irriducibili sono alcune delle organizzazioni dei piloti ed i comitati di base degli assistenti di volo) comincia la consapevolezza che le uniche alternative possibili sono – come ha detto il Presidente del Consiglio in televisione – o la firma del protocollo o il fallimento. Il Governo – è importante sottolinearlo – sta utilizzando “moral suasion” nei confronti di grandi creditori (Eni, Ard) che insistono nel rientrare almeno parzialmente sui loro titoli nei confronti di Alitalia anche tramite il passaggio di una procedura fallimentare. E’ stato proclamato un nuovo sciopero ma si profila lo spettro dell’ultimo volo e c’è anche chi ne fa quelle che possiamo chiamare le prove generali.
Quando nel lontano 1974 mi trovai passeggero dell’ultimo volo dell’Eastern African Airlines – un banale Londra –Nairobi (dove andavo di consueto poiché dirigevo una divisione della Banca mondiale), alla sosta (alle 4 del mattino) all’aeroporto di Khartoum, si dovette fare una colletta tra i passeggeri (in sterline o dollari, non si accettavano gli scellini keynoti, peraltro di recente conio) al fine di poter dare un anticipo all’ente aeroportuale ed avere abbastanza carburante per giungere a destinazione. Non si dica che l’Eastern African Aiways are un’azienda da quattro soldi – da non raffrontare con la nostra Alitalia. Si volava in magnifici Super-VC10- aerei lunghi e slanciati così eleganti tanto che si favoleggiava che nelle toilette di prima classe si poteva pure fare sesso in volo. Furono soppiantati, nell’aviazione commerciale, dai più economici (e più capienti) Boeing 474. Non si pensi che era male gestita. Faceva parte dei “Common Services” della Comunità dell’Africa Orientale (Kenay, Tanzania, Uganda)- enti e società di norma ben funzionanti. Quando la Comunità si sfasciò (a ragione dei divergenti orientamenti politici dei tre Stati), finirono a pezzi unione monetaria, mercato comune o ovviamente servizi comuni (tra cui l’aviolinea) di cui nessuno voleva accollarsi passività (ma tutti erano pronti a mettere le mani su utili ed anche su liquidità In quella notte scura di Karhoum, si ebbe la netta sensazione che quello era l’ultimo volo di Eastern Africa Airlines. Il comandate, imbarazzatissimo, si scusò con i passeggeri; in arrivo a Embakasi (l’aeroporto di Nairobi) fummo rimborsati in contante (ma in scellini che spesi nella decina di giorni che, in quell’occasione, passai nella capitale keniota).
H avuto un’impressione analoga alle 2 del mattino del 15 settembre, arrivando all’Hotel Excelsior di Reggio Calabria. Ero partito, con due colleghi, con il volo AZ 1159 che avrebbe dovuto lasciare Fiumicino alle 17,30 ed atterrare a Reggio alle 18.45. Su suggerimento del personale Alitalia, temendo disguidi, arrivammo al Leonardo da Vici alle 16. Nella sala “Partenze” era in atto una vera e propria corte di miracoli, simile alla Giostra della Quintana in corso proprio in quelle ore a Foligno; fischietti, proteste contro i “sindacalisti venduti”. Spettacolo analogo agli arrivi. Al “gate” relativamente pochi i passeggeri. Decollo con circa un’ora di ritardo. Il comandante si premurò di avvertire i passeggeri che ciò era causato dalla scarsa considerazione d’Aeroporti di Roma (nei confronti della compagnia), senza aggiungere che ciò poteva dipende dal vasto debito d’ AZ con lo scalo. Intavolammo una conversazione con gli stewart: meglio il fallimento che un accordo che riduca organicoi. Ci venne prospettato che dopo Alitalia, sarebbero falliti Trenitalia e numerosi servizi pubblici locali. Mentre tali palingenesi (con i lavoratori alla guida delle aziende al posto dei manager) ci veniva descritta, fummo avvisati che , causa maltempo (una grandinata che non impedì Air Mail di atterrare a Reggio Calabra), avremmo sbarcato a Lamezia Terra. Là una povera capo scalo faceva del proprio meglio per cercare pulman da Catanzaro o altrove per arrivare a Reggio. Verso le 22 l’aereo partì (vuoto) per Reggio dato che la grandinata era finita:troppo fastidioso fare imbarcare di nuovo i passeggeri (i quali per di più avevano ricevuto un buono per il ristoro del valore di € 1,50 a testa. Venimmo intruppati in due autobus (uno tre quarti vuoto) . Inutile chiedere di essere (almeno) lasciati al centro città (dove andava la maggior parte dei passeggeri); dopo l’una del mattina venimmo abbandonati fuori dell’aeroporto (a quell’ora ovviamente chiuso) a litigarci i pochi tassi che nel mezzo della notte erano in circolazione a Reggio.
In quell’ultimo volo, l’equipaggio keniota si comportò da gentlemen from overseas, imbarazzati che la fine dei Common Services dell’Africa Orientale significava la chiusura della loro compagnia. Nel Roma-Reggio Calabria i nostri si comportarono solo da “from overseas”, ostentando le opportunità sfasciste che a lor dire, si potrebbero dischiudere con il fallimento. Un raffronto tra due episodi molto “micro” ma rivelatori del clima che è stato innescato in alcune parti della trattativa e che ha creato una vera e propria scogliera d’irrazionalità.
Quando nel lontano 1974 mi trovai passeggero dell’ultimo volo dell’Eastern African Airlines – un banale Londra –Nairobi (dove andavo di consueto poiché dirigevo una divisione della Banca mondiale), alla sosta (alle 4 del mattino) all’aeroporto di Khartoum, si dovette fare una colletta tra i passeggeri (in sterline o dollari, non si accettavano gli scellini keynoti, peraltro di recente conio) al fine di poter dare un anticipo all’ente aeroportuale ed avere abbastanza carburante per giungere a destinazione. Non si dica che l’Eastern African Aiways are un’azienda da quattro soldi – da non raffrontare con la nostra Alitalia. Si volava in magnifici Super-VC10- aerei lunghi e slanciati così eleganti tanto che si favoleggiava che nelle toilette di prima classe si poteva pure fare sesso in volo. Furono soppiantati, nell’aviazione commerciale, dai più economici (e più capienti) Boeing 474. Non si pensi che era male gestita. Faceva parte dei “Common Services” della Comunità dell’Africa Orientale (Kenay, Tanzania, Uganda)- enti e società di norma ben funzionanti. Quando la Comunità si sfasciò (a ragione dei divergenti orientamenti politici dei tre Stati), finirono a pezzi unione monetaria, mercato comune o ovviamente servizi comuni (tra cui l’aviolinea) di cui nessuno voleva accollarsi passività (ma tutti erano pronti a mettere le mani su utili ed anche su liquidità In quella notte scura di Karhoum, si ebbe la netta sensazione che quello era l’ultimo volo di Eastern Africa Airlines. Il comandate, imbarazzatissimo, si scusò con i passeggeri; in arrivo a Embakasi (l’aeroporto di Nairobi) fummo rimborsati in contante (ma in scellini che spesi nella decina di giorni che, in quell’occasione, passai nella capitale keniota).
H avuto un’impressione analoga alle 2 del mattino del 15 settembre, arrivando all’Hotel Excelsior di Reggio Calabria. Ero partito, con due colleghi, con il volo AZ 1159 che avrebbe dovuto lasciare Fiumicino alle 17,30 ed atterrare a Reggio alle 18.45. Su suggerimento del personale Alitalia, temendo disguidi, arrivammo al Leonardo da Vici alle 16. Nella sala “Partenze” era in atto una vera e propria corte di miracoli, simile alla Giostra della Quintana in corso proprio in quelle ore a Foligno; fischietti, proteste contro i “sindacalisti venduti”. Spettacolo analogo agli arrivi. Al “gate” relativamente pochi i passeggeri. Decollo con circa un’ora di ritardo. Il comandante si premurò di avvertire i passeggeri che ciò era causato dalla scarsa considerazione d’Aeroporti di Roma (nei confronti della compagnia), senza aggiungere che ciò poteva dipende dal vasto debito d’ AZ con lo scalo. Intavolammo una conversazione con gli stewart: meglio il fallimento che un accordo che riduca organicoi. Ci venne prospettato che dopo Alitalia, sarebbero falliti Trenitalia e numerosi servizi pubblici locali. Mentre tali palingenesi (con i lavoratori alla guida delle aziende al posto dei manager) ci veniva descritta, fummo avvisati che , causa maltempo (una grandinata che non impedì Air Mail di atterrare a Reggio Calabra), avremmo sbarcato a Lamezia Terra. Là una povera capo scalo faceva del proprio meglio per cercare pulman da Catanzaro o altrove per arrivare a Reggio. Verso le 22 l’aereo partì (vuoto) per Reggio dato che la grandinata era finita:troppo fastidioso fare imbarcare di nuovo i passeggeri (i quali per di più avevano ricevuto un buono per il ristoro del valore di € 1,50 a testa. Venimmo intruppati in due autobus (uno tre quarti vuoto) . Inutile chiedere di essere (almeno) lasciati al centro città (dove andava la maggior parte dei passeggeri); dopo l’una del mattina venimmo abbandonati fuori dell’aeroporto (a quell’ora ovviamente chiuso) a litigarci i pochi tassi che nel mezzo della notte erano in circolazione a Reggio.
In quell’ultimo volo, l’equipaggio keniota si comportò da gentlemen from overseas, imbarazzati che la fine dei Common Services dell’Africa Orientale significava la chiusura della loro compagnia. Nel Roma-Reggio Calabria i nostri si comportarono solo da “from overseas”, ostentando le opportunità sfasciste che a lor dire, si potrebbero dischiudere con il fallimento. Un raffronto tra due episodi molto “micro” ma rivelatori del clima che è stato innescato in alcune parti della trattativa e che ha creato una vera e propria scogliera d’irrazionalità.
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