Roma, Accademia di Santa Cecilia
PARSIFAL
Sacra azione per la scena in tre atti
Testo e musica di Richard Wagner
Una messa in scena di “Parsifal”, capolavoro estremo a cui Wagner lavorò per circa 35 anni, si scontra con tre difficoltà oggettive: a) le “trasformazioni” a scena aperta in ciascuno dei tre atti ; b) un protagonista con le “physique du rôle”- poco più che adolescente, bello, avvenente, vergine ed innocente sino alla seconda metà del secondo atto, giovane consapevole successivamente dopo avere acquisto conoscenza, coscienza e pietà grazie alla consapevolezza del peccato, c) la rappresentazione del mistero dell’Eucarestia in scena ben due volte, nella seconda metà del primo atto e nel terzo atto.
Le “trasformazioni” possono essere risolte o con scene dipinte – ora non più di uso- come fece lo stesso Wagner a Bayreuth nel 1882 oppure con un palcoscenico altamente tecnologico, disponibile in Italia unicamente alla Scala ed al Carlo Felice. Le “physique du rôle” del protagonista è nodo raramente sciolto in maniera soddisfacente: avrò visto una quarantina di rappresentazioni di “Parsifal” in Europa e negli Usa e il solo interprete veramente credibile (e con la voce appropriata) è stato Peter Hoffmann – la cui stagione, malauguratamente, è durata meno di dieci anni. Il terzo ostacolo (l’Eucarestia sul palcoscenico) è sempre tema delicato e di ardua realizzazione – anche in quanto elemento centrale di una “azione” intensa e drammatica.
Vada, quindi, per le esecuzioni in forma di concerto che consentono non soltanto di superare le difficoltà di realizzazioni scenica ma anche e soprattutto di apprezzare una scrittura orchestrare e vocale di 120 anni fa e molto più moderna di quanto oggi si spaccia per avanguardia.
Due parole sull’”azione”: Parsifal, “puro folle”, cresciuto nella foresta quindi innocente, acquista la conoscenza del mondo quando ha contezza del peccato carnale; riesce così a purificare il Regno del Graal, a curarne il Re Amfortas ferito dal mago Klinsgor (un cavaliere cristiano che si era autocastrato in quanto non in grado di obbedire alla regola della castità). Nel castello di Klingsor, Amfortas era stato attirato da Kundry (donna bellissima e “costretta” da secoli a non morire poiché, sul Golgota, aveva riso sul volto del Cristo). Parsifal, una volta acquisita consapevolezza, celebra l’Eucarestia (che Amfortas non era più in grado di officiare) invocando “Redenzione al Redentore” e salva il Regno dei cavalieri del Gral. Nell’”azione” ci sono incongruenze – ad esempio, come spiegare che in mondo di cavalieri votato alla castità Amfortas sia figlio del vecchio re Titurel e che a sua volta Parsifal diventi padre di Lohengrin? – ma vengono azzerate dal flusso musicale.
Sin dagli schemi del “Lohengrin” si hanno i prolegomeni dell’impalcatura filosofico-religiosa di “Parsifal”, la complessa tela cristiano-buddista venne affinata ne “L’agape degli apostoli” e nelle bozze di due opere progettate da Wagner, ma mai concluse, “I vincitori” (sulla vita di Buddha) e “Gesù di Nazareth”. Wagner fu in grado di affrontare “Parsifal” solamente dopo avere rivoluzionato il pentagramma con “Tristano ed Isotta”: nella “sacra rappresentazione scenica” si giustappongono due mondi – quello diatonico (rivolto anche all’indietro, sino alla polifonia del Palestrina) del mondo del Graal e quello cromatico (lanciato verso l’avvenire, alla dodecafonia) del mondo di Klingsor e di Kundry, dove l’orchestra e le voci passano dalla più squisita dolcezza erotica agli abissi dell’oscenità. Una riflessione: come tutti i capolavori immensi, “Parsifal” affascina anche chi nulla sa né dell’impianto religioso-filosofico né della scrittura musicale. In tre occasioni, mi sono trovato ad invitare persone del tutto ignoranti di cosa vi ci si celasse: un dirigente d’azienda, un giornalista, un giovane assistente di economia applicata. Con l’ausilio dei sovratitoli, sono rimasti inchiodati alla poltrona per circa sei ore (compresi due intervalli), e rapiti dal dramma e dalla musica; al termine, ne avevano afferrato l’essenziale.
In teatro, le difficoltà riguardano non solo l’impervia realizzazione delle “trasfigurazioni” a scena aperta, ma anche le tendenze recenti ad infarcire di sesso un po’ tutte le opere che ne danno l’estro. “Parsifal” –in specie nel secondo atto – vi si presta: già trent’anni fa, allestimenti al pudidondo Metropolitan di New York mostravano il giardino di Klingsor come un bordello. Sulla scia di recenti regie, perché non “épater les bourgeois” trasformando Klingsor in una checca e Kundry in una puttanona, nonché puntando i riflettori sui genitali del giovane, e vergine, protagonista (il quale, nel testo wagneriano, nei primi due atti dovrebbe essere quasi ignudo)? Oppure ancora traducendo in amplessi gli abbracci tra i cavalieri del Gral (dato che vivono in un mondo dove in cui il rapporto con l’altro sesso è causa di patimenti quali quelli di Amfortas) ? Ragioni aggiuntive per salutare esecuzioni in forma di concerto. Tanto più in una Roma dove realizzazioni sceniche del “Parsifal” mancano dal 1984 ed esecuzioni in forma di concerto dal 1994 (o giù di lì).
Nel commentare l’edizione presentata dall’Accademia di Santa Cecilia, con la direzione musicale di Daniele Gatti ed un cast internazionale, occorre prendere l’avvio da un aspetto che può sembrare pedante: esistono diari burocratici delle rappresentazioni del 1882 a Bayreuth sotto gli occhi vigili di Wagner; tali diari determinano i tempi (un’ora e 45 minuti il primo atto, un’ora e 5 minuti il secondo, un’ora e 10 il terzo). Oggidì sono rarissimi i direttori musicali che seguono queste indicazioni: Levine, Kuhn, Thiellman e pochi altri. Con Toscanini – come è noto- il primo atto di “Parsifal” durava due ore e venti minuti. Con Boulez poco più di un’ora e mezzo.
Daniele Gatti dilata i tempi (due ore il primo atto, un’ora ed un quarto il secondo, circa un’ora e mezzo il terzo) dando una lettura filosofica-religiosa al lavoro (come fece, proprio con l’Orchestra di Santa Cecilia Sinopoli circa 13 anni fa). E’ una lettura legittima. Ne preferisco una più sanguigna (come quelle di Karajan, Levine, Ferro) e più sensuale ove non carnale (come quelle di Solti, Tate, Bichkov). L’orchestra ed il coro rispondono in modo eccellente alla direzione musicale di Gatti che affatica, però, quella parte del pubblico che ha meno dimestichezza con quello che possiamo chiamare “il sottostante” del capolavoro. Alla prima rappresentazione, il 19 gennaio, inoltre, si è iniziati con circa mezz’ora di ritardo a ragione dell’indisposizione di un solista: solo wagneriani incalliti restano in teatro dalle 16,30 alla mezzanotte. Di conseguenza, nonostante gli applausi calorosi, dopo il primo atto (terminato alle 19,30) e soprattutto dopo il secondo, molti posti sono rimasti vuoti. Una notazione: la concertazione dilatata di Gatti fa risultare la ricchezza del tessuto orchestrale e l’abilità degli ottoni e dei fiati dell’orchestra dell’Accademia – una vera rarità (come amava dire Sinopoli) nel panorama sinfonico italiano. Eccellenti – come sempre – i due cori.
Veniamo alle voci. Nell’”azione” il protagonista ha un ruolo vocale relativamente limitato – due momenti molto difficili “Amortas!, Die Wunde!, Die Wunde!” e “Nur eine Waffe taught” – ma nel complesso una parte che richiede sforzi inferiori a quelli previsti Gurnemanz, i cui lunghi racconti riempiono gran parte del primo o del terzo atto, o per Amfortas il cui canto sofferente contempla passi davvero terrificanti. Georg Zeppenfeld è un Gurnemanz relativamente giovane; preferirei un timbro più profondo (alla Hans Sotin che di Zeppenfeld è stato il maestro) ma si cala perfettamente nel ruolo e ne regge egregiamente la pesantezza. Detlef Roth (Amfortas) conferma di essere l’erede ideale di Fischer-Dieskau: un Amfortas dal timbro chiaro, dalla vocalità agile, dai legato struggenti e dalla grande versatilità nell’ascendere e nel discendere da tonalità acute. Evelyn Herlitzius è un soprano drammatico (preferisco, nel ruolo, un mezzo-soprano come la Ludwig o la Meier di prima maniera, ma è scelta puramente personale) di grandi capacità vocali: il secondo atto è in gran parte suo. Entra tanto nella parte che si avverte che la manca la rappresentazione scenica. Lucio Gallo è un Klingsor abbastanza efficace, ma non sufficientemente diabolico e corrotto, come vorrebbe il ruolo. E Parsifal? Simon O’Neill, che vedremo nell’”Otello” di Verdi diretto da Muti sia a Salisburgo sia a Roma, non ha né “physique du rôle” né la dizione richiesta, ma è un tenore spinto generoso, dal timbro chiaro e dal buon fraseggio. Un “Parsifal” più da repertorio che da festival.
Puntuali i due gruppi di fanciulle fiori, i quattro scudieri ed i due cavalieri. Su oltre 2500 spettatori, i due terzi in sala sino alla mezzanotte hanno applaudito calorosamente.
Roma, 19 gennaio 2008
Giuseppe Pennisi
LA LOCANDINA
PARSIFAL
Sacra azione per la scena in tre atti
Testo e Musica di Richard Wa Wa Richard Wagner
Parsifal: Simon O'Neill
Kundry: Evelyn Herlitzius
Amfortas: Detlef Roth
Klingsor: Lucio Gallo
Gurnemanz: Georg Zeppenfeld
Titurel: Jaco Huijpen
I Blumenmädchen I gruppo: Julia Borchert
II Blumenmädchen I gruppo: Martina Ruping
III Blumenmädchen I gruppo: Carola Guber
I Blumenmädchen II gruppo: Anna Korondi
II Blumenmädchen II gruppo: Jutta Maria Böhnert
III Blumenmädchen II gruppo: Atala Schöck
I cavaliere: Massimo Simeoli
II cavaliere: Anselmo Fabiani
III cavaliere: Massimiliano Tonsini
IV scudiero: Carlo Putelli
Direttore: Daniele Gatti
Orchestra e Coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretto da Norbert Balatsch
Coro di Voci Bianche dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretto da José Maria Sciutto
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