In margine alle riunioni della maggioranza su quello che il Presidente del Consiglio Romano Prodi chiama “il patto per la crescita” (peraltro ancora da redigere), mi sento a fianco del Ministro per la Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, e dei sindacati. Quanto meno sulla diagnosi del problema. Negli anni della marcia verso l’euro, sono stato uno dei numerosi economisti che (quale che fosse la collocazione politica) avevano avvertito delle possibili implicazioni sulla distribuzione dei redditi (a danno delle fasce più deboli) ove si fosse perseguito nel percorso iniziato. La voce più forte, e più autorevole, era quella di Martin Feldstein, per tre decenni circa Presidente del National Bureau of Economic Research degli Usa e riconosciuto come caposcuola da decine di economisti dei cinque continenti. Non siamo stati ascoltati. Ora occorre correre ai riparti per evitare che una politica “asociale” penalizzi chi ha meno mezzi e faccia scivolare il ceto medio verso la povertà.
Il sinedrio dell’Ulivo, in pratica, non esiste più. Quindi sta al pletorico conclave della maggioranza tentare di dare una risposta. Nel breve periodo, a quel che si sa, a Palazzo Chigi si stanno esaminando le compatibilità di vari ritocchi alla normativa tributaria (per alleggerire il peso fiscale e contributivo sulle buste paga) con gli equilibri di finanza pubblica e la revisione della contrattazione (per dare maggiore accento a quella decentrata ed aziendale). E’ difficile fare previsioni sugli esiti. Tanto più che non si frenata l’irresistibile ascesa della spesa pubblica di parte corrente (è stata in gran misura bloccata quella per investimenti); sarà, per ciò, difficile fare la quadra.
Comunque è sul medio e lungo periodo che si deve puntare. Indicazioni preziose a riguardo vengono dal Premio Nobel James H. Heckman. Premesso che il problema della sempre più acuta dispersione salariale (a danno delle fasce deboli) non è fenomeno solo italiano, ma riguarda numerosi Paesi Ocse , Heckman (nel NBER Working Paper No. W1352 on line da circa una settimana) propone un approccio nuovo (sulla base di un’interessante analisi empirica): l’incertezza pesa per un buon 60% nella determinazione dei salari delle categorie poco professionalizzate e poco istruite mentre appena per l’8 per quelli con titoli e meriti professionali. E’ quindi alla base delle disuguaglianze. Non solo: il 26% dell’aumento della varianza salariale (tra ricchi e poveri) si spiega con i rendimenti dell’istruzione e della formazione- perno essenziale per ridurre l’incertezza. Il 21 settembre, Prodi ha voluto presentato il “Quaderno Bianco sulla Scuola” inteso soprattutto a fare si che l’istruzione diventi strumento di mobilità sociale (e di riduzione delle disuguaglianze). E’ stato messo un articoletto in finanziaria. Poi pare sia finito tutto nel dimenticatoio.
Non è giunto il momento di ricordarsene per fare sì che questo Governo non sia ricordato anche come tra quelli più “asociali”?
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