L’Indice della Libertà Economica della Heritage Foundation ci pone al 64simo posto su 157 Paesi, come ha documentato Libero Mercato del 16 gennaio. In settembre, un indicatore analogo, del Fraser Instituto, ci aveva messo al 52simo posto su 141 Paesi. Il significato non cambia: le restrizioni alla libertà economica – ce ho detto la Bce- sono alla base del bassissimo tasso di crescita potenziale (uno degli ultimi nell’Ocse) dell’economia italiana. Non muta neanche il ruolo del carico tributario (e della ragnatela regolatoria) nei vincoli alla libertà economica. Anche perché si coniuga con quello che in un libro di successo Pascal Salin chiama “L’arbitraire fiscal”, l’arbitrio fiscale.
Tale arbitrio è stato il tema sottostante degli interventi (dalla prolusione di Franco Reviglio a quelli di dirigenti delle Agenzie fiscali) alla cerimonia tenuta il 15 gennaio, alla presenza di VVV (Viceministro Vincenzo Visco), per la consegna dei diplomi della prima edizione del master in economia dei tributi e l’inizio della seconda presso la Scuola Superiore di Economia e Finanza (Ssef). Da un lato, la prolusione di Reviglio – il tema era la lotta all’evasione ed all’elusione (croce e delizia di VVV) – ha documentato che il bicchiere è mezzo vuoto. VVV in persona ha citato dati impressionanti sull’evasione (ma chi ha avuto la guida del dicastero sia in questi ultimi anni sia in gran parte della XIV legislatura?). Da un altro ancora, è stato messo in rilievo come misure anti-evasione e oneri fiscali gravino principalmente sui dipendenti (tramite la ritenuta alla fonte); l’aumento delle sanzioni (nelle ultime due finanziarie) fa sì che contribuenti a reddito medio basso abbiano subito perfino il sequestro della casa per errori materiali di poche centinaia di euro. E’ questa una corretta politica sociale a difesa dei ceti meno abbienti, il cui numero – come dicono indagini di questi giorni – si sta rapidamente allargando?
Tutti predicano (VVV in primo luogo) l’urgenza di stabilire un corretto rapporto tra fisco e contribuenti. VVV ammette che il carico fiscale è troppo alto, rispetto a tutti gli altri Paesi Ocse, se comparato con il corrispettivo in servizi, ma aggiunge che la macchini tributaria deve finanziare 5 punti percentuali del pil destinati non a servizi ai cittadini ed alle imprese, ma a finanziare lo stock di debito pubblico e le pensioni poiché smaltimento del debito e previdenza sono pari a 5 punti percentuali del pil superiori alla media Ocse. Ma – chiediamoci (e domandiamo a VVV)- chi ha condotto le politiche alla base del debito pubblico e chi ha fatto, nella recente legge sullo stato sociale, la contro-riforma della previdenza?
Ormai si è andati oltre l’arbitrio. Si sono intaccati valori fondamentali che altre vicende di questi giorni dimostrano profondi negli italiani (e non solo): quelli dei rapporti con le Fedi. Un saggio di Robert McGee della Barry University riprende la tesi del biblista Martin Crowe, il quale ha esaminato, negli Anni 40, cinque secoli di dibattito teologico e filosofico (oltre che economico) sul tema. In “The moral obligation of paying just taxes” difende l’evasione fiscale partendo da presupposti etici e religiosi su quanto è giusto dare a Cesare e quanto a Dio. Venticinque recenti indagini empiriche nei Paesi industriali ad economia di mercato concludono che molte anime pie sono d’accordo con Crowe. Intervengono pure i rabbini: un saggio di Adaman Chodorow dell’Università dell’Arizona precisa che in questa materia, per gli ebrei i precetti di Dio sono più importanti di quelli degli uomini. Uno dei massimi esperti del pensiero economico dell’Islam, Timor Curan dell’Università della California giunge a conclusioni ancora più severe sul massimo della pressione fiscale tollerato da Allah. A questo punto più di una marcia indietro qualcuno dovrebbe fare un viaggio a Canossa – e come Enrico IV attendere, nudo al freddo ed al gelo, il perdono. Dei contribuenti.
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