C’è un nesso tra la nuova crisi petrolifera (con le quotazioni del greggio alle stelle e tali da travolgere le borse) e la quindicennale emergenza dei rifiuti in Campania? Almeno due molto forti.
Il primo lo ha spiegato Amartya Sen in un libro del lontano 1981 che aprì un nuovo sentiero al pensiero economico (e contribuì a fargli conferire il Nobel). Tanto la crisi petrolifera quanto la permanente emergenza in Campania non hanno determinanti né tecnologiche né finanziarie né economico-sociali. Le loro cause sono politiche. I prezzi del petrolio sarebbero attorno a 50 dollari al barile se a) multinazionali con la necessaria capacità (come la nostra Eni) avessero accesso al potenziale della Russia, del Venezuela, dell’Iran, dell’Ecuador, del Kazkhastan e via discorrendo; b) i Paesi produttori non avessero (per dieci anni) diminuito gli investimenti, frenata la formazione di ingegneri, bloccato l’aumento della raffinazioni; c) i Paesi consumatori non si fossero baloccati con alternative da burletta (eolico, solare) invece di diversificare verso il nucleare. Tre elementi squisitamente politici in cui Governi dei Paesi consumatori e produttori, nonché operatori del settore, hanno brillato per miopia.
In Campania i Governi della Regione, delle Province e di città hanno dimostrato miopia e incapacità oggettiva di utilizzare (nonostante le vaste risorse poste a loro disposizione) tecniche come la termovalorizzazone o la pirolisi che permettono di trasformare i rifiuti in quella energia di cui c’è disperatamente bisogno. Dovrebbero prenderne atto.
Il secondo nesso riguarda proprio le produzione di energia tramite smaltimento di rifiuti. Lo dice, sul “New York Times”, un’inchiesta di Holly Hubbard Preston, posta, non a caso, a fianco delle corrispondenze dall’Italia sul disastro campano (un imbarazzo per tutti). L’inchiesta implica che, una volta lasciate le poltronissime in Campania, i nostri eroi dovrebbero (in linea con la loro militanza politica) andare in uno dei Paesi ancora a socialismo reale: la Repubblica Popolare Cinese, dove, nel 2007 appena concluso, sette miliardi di tonnellate di rifiuti sono state riciclati in gas. Non per sensibilità ecologica o per altruismo ma perché, secondo un’analisi del China Environmental Forum e della Western Kentucky University, se non si agisce drasticamente adesso nel 2020 nelle aree urbane o semi-urbane del Celeste Impero non ci sarà un millimetro quadrato disponibile per le discariche. Secondo l’Istituto di Ricerca sull’Energia di Pechino, la trasformazione in gas della “mondezza” sta anche riducendo il fabbisogno di import.
Il Segretario Generale del Partito Comunista cinese, Hu Jintao, pare si sia già detto pronto ad accogliere i nostri ex (quando avranno un sussulto di etica della responsabilità). Sembra stia predisponendo appositi campi di ri-educazione. Alla cui mensa verranno serviti spaghetti “co a’ pummarola n’coppa”.
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