La crisi di Governo (ed il suo ancora quanto mai incerto esito) hanno aperto ancora una volta il “dossier Alitalia”.
I lettori de L’Occidentale possono vedere le puntate precedenti nella sezione “Economia”: quindi, non è il caso di riassumere l’evoluzione del tormentone. Occorre, però, ricordare che, poche settimane prima che la crisi di Governo (in sostanza in corso già da mesi) venisse formalmente aperta dal voto di sfiducia del 24 gennaio, il CdA della compagnia, con il supporto attivo del Ministro dell’Economia e delle Finanze TPS e la”presa d’atto” del Consiglio dei Ministri, aveva iniziato un negoziato tecnico con AirFrance-KLM per giungere ad un accordo su tre cardini:
a) ricapitalizzazione;
b) scambio di azioni;
c) razionalizzazione delle rotte.
In tal modo si sarebbe dato vita al maggiore vettore mondiale di cui Alitalia sarebbe stato uno dei partner (pur se non il principale) – dopo avere (aspetto non secondario) salvato il collo.
Con la crisi paiono riaperti i giochi. In primo luogo, i sondaggi elettorali sono espliciti: in caso di nuove elezioni la maggioranza del Parlamento andrebbe a forze politiche più attente alle esigenze del Nord (leggi: Malpensa) di quella della XV legislatura. In secondo luogo, i conducenti nella cabina di pilotaggio di Alitalia (il Cda) sono di stretta osservanza “prodiana” (la parte uscita irrimediabilmente sconfitta, anche nel centro sinistra, dalla vicende delle ultime settimane).
Non deve, quindi, sorprendere che coloro (non solamente AirOne) che aspirano ad un cambiamento di rotta utilizzano le opportunità che vedono offerte loro dalla crisi.
Si tratta di opportunità effettive? Queste considerazioni vengono scritte a Milano, dopo una serie di conversazioni con specialisti della materia che operano nelle Regioni del Nord. Più che di opportunità si tratta di un pertugio molto stretto.
L’Alitalia è, infatti, su una pista che scotta: l’approssimarsi di una crisi di liquidità tale da diventare insolvenza. Spieghiamoci: Non è inconsueto che un’azienda grande, media o piccola abbia per periodi più meno lunghi un conto profitti e perdite (in gergo cash flow) di segno negativo. Ciò che importa è finanziarlo. Il nodo di Alitalia – sottolinea Carlo Scarpa dell’Università di Brescia – è l’impossibilità di trovare altri marchingegni di finanziamento. I “Mengozzi bonds” (obbligazioni emesse quando Francesco Mengozzi era alla guida della compagnia) – avvisa Marco Ponti dell’Università di Milano – sono stati “l’ultima spiaggia” .
Occorre ringraziare il Cielo che la proposta AirFrance-Klm comporti che la s.p.a. franco-olandese se ne prenda carico. Tecnicamente, Alitalia avrebbe dovuto portare i libri in tribunale tre anni fa.
Ora – secondo il Ministero dei Trasporti – ha in tasca di che vivere per circa tre mesi. Se a marzo non si giunge a conclusione della trattativa con AirFrance-Klm c’è il rischio di vedere (come avvenne 30 anni fa per Eastern Africa Airlines – grande vettore negli Anni 60) aerei abbandonati ad arrugginire in vari aeroporti perché gli scali si rifiutavano di fare ulteriore credito pure per il solo acquisto di carburante.
Naturalmente AirFrance-Klm sanno di negoziare da una posizione di forza. Ne sono consapevoli molte sigle sindacali – abbastanza tranquille (dopo qualche scatto all’inizio della crisi di Governo) perché temono il tracollo (e la conseguenza vendita degli scampoli a prezzi di saldo). Sanno, poi, che la situazione finanziaria e industriale di AirOne (nonostante il forte supporto delle banche) non è tale da assicurare un decollo ove fallisse la trattativa con AirFrance-Klm: al più, il competitore del gruppo franco-olandese, potrebbe rilevare qualche scampoli – ove di Alitalia si arrivasse ai saldi.
Anche quelle di Malpensa, tuttavia, sono piste calde. L’aeroporto è costato circa un miliardo di euro, di cui 440 dallo Stato, 500 autofinanziati ed il resto dall’Ue. Lo “uptake” (ossia il tasso in cui viene utilizzato) è stato molto lento anche a ragione con i non ottimali collegamenti con Milano e la concorrenza di altri scali nell’area: tuttavia, in corso un miglioramento – il numero dei passeggeri è aumentato del 10% nel 2006 – pur se la quota di utilizzazione da parte di utenti del Nord Italia è ancora bassa (meno del 40% rispetto al 70% di Francoforte ed al 60%) di Parigi. La stessa Milano che difende Malpensa punta il dito su seri problemi di efficienza: gestione dei bagagli scoraggiante, forti a ripetizione, poco confort nelle attese tra un volo e l’altro. In effetti, se Malpensa fosse costretta a contare su se stessa (senza avere il paracadute Alitalia) , è possibile che vengano messe in atto le misure essenziali per attirare compagnie aeree. Alla Bocconi, dove non si può non essere sensibili (o almeno rispettosi) rispetto alle esigenze della Lombardia, si ricorda che di norma gli aeroporti servono i vettori, non viceversa. Viene anche mostrata una mappa dei numerosi scali dell’area, molti dei quali piccoli ma efficienti hanno attirato molto traffico.
C’è, infine, un altro aspetto: non tutto il Nord ama Malpensa. Il Veneto preferisce il potenziamento di Verona , molti scali vogliono mantenere le quote di mercato conquistate ed anzi ampliarle. Piuttosto che rotolarsi per terra strappandosi i capelli o fare novene sperando in un miracolo, i simpatizzanti dell’aeroporto nei pressi di Busto Arsizio dovrebbe fare pressioni per
a) una razionalizzazione degli scali nell’aera;
b) serie misure per il miglioramento di efficienza ed efficace dell’aeroporto che è loro a cuore.
Il fallimento di Alitalia – sempre nel fondale – aggraverebbe la situazione di Malpensa non ne renderebbe più rosee le prospettive.
giovedì 31 gennaio 2008
A GIUGNO CI VORRA' UNA MANOVRA DI 10-12 MILIARDI DI EURO da L'occidentale
Se ci si basasse su considerazioni unicamente di tornaconto elettorale, le forze politiche all’opposizione in questa XVesima legislatura dovrebbero accettare la proposta del leader del Partito Democratico di un Governo istituzionale di 8-12 mesi per riformare assetto parlamentare, funzioni e poteri del Presidente del Consiglio, normativa elettorale, le principali istituzioni economiche ed i regolamenti parlamentari.
Ove si individuassero personalità gradite ad ambedue gli schieramenti per dar vita ad un Esecutivo (nonché disponibili a prendere, in questa fase, in mano la guida del Paese senza un mandato elettorale), il centro-destra incasserebbe, nell’immediato, nomine bipartisan a Enel, Eni, Finmeccanica, enti previdenziali, Rai e quant’altro.
Potrebbe, poi, smarcarsi della conduzione della politica economica e dalle responsabilità ad essa inerenti. Avrebbe la certezza di una vastissima vittoria elettorale nella primavera del 2009. Non solamente è difficilmente concepibile che si possa fare in 8-12 mesi (ed in clima politico come l’attuale) la “grande riforma” tentata ma mai realizzata (per l’opposizione della sinistra) sin dagli Anni Ottanta, ma la situazione economica dell’Italia non può che peggiorare in un 2008 difficile per l’intero gruppo dei Paesi industrializzati ad economia di mercato.
Infatti, nove dei 20 maggiori centri internazionali di ricerca econometrica previsionale stimano già oggi che nel 2008 la crescita economica dell’Italia sarà inferiore allo 0,8% (quindi quasi la metà di quanto assunto nelle ipotesi della nota di aggiornamento del Dpef sulla cui base è stata concepita la legge finanziaria, successivamente pure dilatata nel corso dell’iter parlamentare). Ciò vuole dire che per fare quadrare i conti e soddisfare gli impegni europei, chiunque sarà a Palazzo Chigi e a Via Venti Settembre il prossimo giugno (scadenza dell’”assestamento di bilancio”) dovrà effettuare una manovra di almeno 10-12 miliardi di euro (l’equivalente di una nuova finanziaria) riducendo spese ed aumentando entrate.
La cifra potrebbe essere ancora maggiore se:
a) il differenziale tra i tassi d’interesse sui Btp decennali ed i Bund continua a crescere dopo avere già raggiunto, in questi giorni, la punta più alta degli ultimi otto anni e/o
b) il marasma finanziario che dagli Usa sta colpendo Germania e Francia si espande all’Italia. A riguardo, la delegazione del Fondo monetario internazionale a Roma dal 24 gennaio ha espresso preoccupazione per la situazione di alcune banche italiane: venerdì primo febbraio terrà una riunione non di mera cortesia con i maggiori banchieri del Paese.
La scadenza di giugno è particolarmente importante perché la situazione della finanza pubblica italiana arriverebbe davvero alla soglia dell’insostenibilità nell’ipotesi (ventilata la sera del 28 gennaio) di fare in quel mese le elezioni: si rischierebbe di dover fare una manovra di aggiustamento ancor più dura in agosto (come fece il Governo Amato nel 1992): in effetti, spalmare, per così dire, un’operazione di 10-12 miliardi su quattro mesi pesa molto di più che spalmarla su sei mesi.
A questi problemi macro-economici e di finanza pubblica, si aggiunge una lunga lista di temi settoriali e micro-economici lasciati in eredità dalla disUnione prodiana. Cosa avverrà al riassetto delle authority ed alla messa a punto dei decreti delegati previsti dalla contro-riforma della previdenza? Che succederà al negoziato tra Alitalia e AirFrance-Klm e all’alta velocità? Come dar corpo all’alleggerimento della regolazione dato che i costosi studi effettuati in questi 20 mesi hanno riguardato solamente i vivai, i frantoi ed i biscottifici? Che fine faranno le richieste di aumento dei salari reali e/o del potere d’acquisto delle famiglie?
L’elenco degli interrogativi potrebbe continuare dato che il peso dell’indecisione governativa che ha caratterizzato l’Italia dalla primavera 2006 ha lasciato un’eredità gravissima. E’ tale da fare tremare. Sono nodi che è difficile pensare che possano essere sciolti da un Governo istituzionale a termine che non goda di un mandato elettorale forte.
Il tornaconto elettorale, dunque, cozza con le responsabilità nei confronti dell’Italia e degli italiani. Il primo consiste nel ritardare le elezioni ed avere una vittoria certa e solida non soltanto per la prevedibile resa dei conti all’interno della sinistra (i “prodiani” sono già sul piede di guerra contro i “veltroniani”) e dello stesso Partito Democratico ma perché è arduo prevedere (con la squadra che pare avere in mente Veltroni) una conduzione dell’economia (in un contesto internazione più complicato) migliore di quella degli ultimi 20 venti mesi. Le seconde richiedono che si scenda in campo con una legge elettorale altamente imperfetta per cercare di mettere l’Italia sul sentiero della crescita.
Lo dice peraltro a tutto tondo da circa tre settimane (ossia da prima che la crisi si aprisse sotto il profilo formale), un sondaggio del Club dell’Economia: il 70% di coloro che hanno risposto all’inchiesta consideravano un bene per l’economia del Paese una crisi di Governo “perché ridurrebbe il peso del deficit e del debito”; il 28% la giudicava “un male perché si perderebbe l’occasione di spendere di più per le pensioni e per le fasce disagiate; circa il 2% era invece indeciso.
Occorre, dunque, mettersi al lavoro con un saldo supporto elettorale. Prima che sia troppo tardi.
Riferimenti
Gomes F., Kotlikoff L, Viceira L. The Excess Burden of Government Indecision" NBER Working Paper No. W12859
Linzert T. Schmidt S. "What Explains the Spread between the Euro Overnight Rate and the ECB's Policy Rate?" Zentum Fuer Europaeische Wirtschaftsforschung (ZEW) - Center for European Economic Research Discussion Paper No. 07-076
Da non pagare: No
Ove si individuassero personalità gradite ad ambedue gli schieramenti per dar vita ad un Esecutivo (nonché disponibili a prendere, in questa fase, in mano la guida del Paese senza un mandato elettorale), il centro-destra incasserebbe, nell’immediato, nomine bipartisan a Enel, Eni, Finmeccanica, enti previdenziali, Rai e quant’altro.
Potrebbe, poi, smarcarsi della conduzione della politica economica e dalle responsabilità ad essa inerenti. Avrebbe la certezza di una vastissima vittoria elettorale nella primavera del 2009. Non solamente è difficilmente concepibile che si possa fare in 8-12 mesi (ed in clima politico come l’attuale) la “grande riforma” tentata ma mai realizzata (per l’opposizione della sinistra) sin dagli Anni Ottanta, ma la situazione economica dell’Italia non può che peggiorare in un 2008 difficile per l’intero gruppo dei Paesi industrializzati ad economia di mercato.
Infatti, nove dei 20 maggiori centri internazionali di ricerca econometrica previsionale stimano già oggi che nel 2008 la crescita economica dell’Italia sarà inferiore allo 0,8% (quindi quasi la metà di quanto assunto nelle ipotesi della nota di aggiornamento del Dpef sulla cui base è stata concepita la legge finanziaria, successivamente pure dilatata nel corso dell’iter parlamentare). Ciò vuole dire che per fare quadrare i conti e soddisfare gli impegni europei, chiunque sarà a Palazzo Chigi e a Via Venti Settembre il prossimo giugno (scadenza dell’”assestamento di bilancio”) dovrà effettuare una manovra di almeno 10-12 miliardi di euro (l’equivalente di una nuova finanziaria) riducendo spese ed aumentando entrate.
La cifra potrebbe essere ancora maggiore se:
a) il differenziale tra i tassi d’interesse sui Btp decennali ed i Bund continua a crescere dopo avere già raggiunto, in questi giorni, la punta più alta degli ultimi otto anni e/o
b) il marasma finanziario che dagli Usa sta colpendo Germania e Francia si espande all’Italia. A riguardo, la delegazione del Fondo monetario internazionale a Roma dal 24 gennaio ha espresso preoccupazione per la situazione di alcune banche italiane: venerdì primo febbraio terrà una riunione non di mera cortesia con i maggiori banchieri del Paese.
La scadenza di giugno è particolarmente importante perché la situazione della finanza pubblica italiana arriverebbe davvero alla soglia dell’insostenibilità nell’ipotesi (ventilata la sera del 28 gennaio) di fare in quel mese le elezioni: si rischierebbe di dover fare una manovra di aggiustamento ancor più dura in agosto (come fece il Governo Amato nel 1992): in effetti, spalmare, per così dire, un’operazione di 10-12 miliardi su quattro mesi pesa molto di più che spalmarla su sei mesi.
A questi problemi macro-economici e di finanza pubblica, si aggiunge una lunga lista di temi settoriali e micro-economici lasciati in eredità dalla disUnione prodiana. Cosa avverrà al riassetto delle authority ed alla messa a punto dei decreti delegati previsti dalla contro-riforma della previdenza? Che succederà al negoziato tra Alitalia e AirFrance-Klm e all’alta velocità? Come dar corpo all’alleggerimento della regolazione dato che i costosi studi effettuati in questi 20 mesi hanno riguardato solamente i vivai, i frantoi ed i biscottifici? Che fine faranno le richieste di aumento dei salari reali e/o del potere d’acquisto delle famiglie?
L’elenco degli interrogativi potrebbe continuare dato che il peso dell’indecisione governativa che ha caratterizzato l’Italia dalla primavera 2006 ha lasciato un’eredità gravissima. E’ tale da fare tremare. Sono nodi che è difficile pensare che possano essere sciolti da un Governo istituzionale a termine che non goda di un mandato elettorale forte.
Il tornaconto elettorale, dunque, cozza con le responsabilità nei confronti dell’Italia e degli italiani. Il primo consiste nel ritardare le elezioni ed avere una vittoria certa e solida non soltanto per la prevedibile resa dei conti all’interno della sinistra (i “prodiani” sono già sul piede di guerra contro i “veltroniani”) e dello stesso Partito Democratico ma perché è arduo prevedere (con la squadra che pare avere in mente Veltroni) una conduzione dell’economia (in un contesto internazione più complicato) migliore di quella degli ultimi 20 venti mesi. Le seconde richiedono che si scenda in campo con una legge elettorale altamente imperfetta per cercare di mettere l’Italia sul sentiero della crescita.
Lo dice peraltro a tutto tondo da circa tre settimane (ossia da prima che la crisi si aprisse sotto il profilo formale), un sondaggio del Club dell’Economia: il 70% di coloro che hanno risposto all’inchiesta consideravano un bene per l’economia del Paese una crisi di Governo “perché ridurrebbe il peso del deficit e del debito”; il 28% la giudicava “un male perché si perderebbe l’occasione di spendere di più per le pensioni e per le fasce disagiate; circa il 2% era invece indeciso.
Occorre, dunque, mettersi al lavoro con un saldo supporto elettorale. Prima che sia troppo tardi.
Riferimenti
Gomes F., Kotlikoff L, Viceira L. The Excess Burden of Government Indecision" NBER Working Paper No. W12859
Linzert T. Schmidt S. "What Explains the Spread between the Euro Overnight Rate and the ECB's Policy Rate?" Zentum Fuer Europaeische Wirtschaftsforschung (ZEW) - Center for European Economic Research Discussion Paper No. 07-076
Da non pagare: No
UN GOVERNO ISTITUZIONALE COSTEREBBE TROPPO AL PAESE
Tra i tanti lavori incompiuti (conversione di decreti legge, disegni di legge a vari stadi dei loro percorsi parlamentari) quando si è ufficializzata una crisi di governo sostanzialmente in atto da settimane, l’unico a rischio di accantonamento per sempre è l’alta velocità per la Torino-Lione (e la partecipazione dell’Italia al Corridoio 5, una delle maggiori reti dell’Europa del prossimo futuro). Palazzo Chigi ha annullato, il 25 gennaio, gli incontri del tavolo tecnico-politico sul progetto; a ragione delle scadenze perentorie Ue, ciò vuol dire addio all’alta velocità. Il Ministro delle Infrastrutture Di Pietro sta tentando di fare cambiare la decisione.
Non ci interessano dietrologie di breve periodo secondo cui l’annullamento sarebbe motivato dal tentativo d’ingraziarsi forze piccole, ma combattive, della ex-maggioranza per averle accanto nelle probabili elezioni. E’ più importante il significato dell’annullamento: si profila un’Italia a bassa velocità, in cui, nonostante l’unione monetaria, il differenziale dei tassi sui Btp decennali ed i Bund (in gergo lo “spread”) ha raggiunto il livello massimo degli ultimi sette anni (e la Bce minaccia di aumentare ulteriormente) e lo stock di debito pubblico ed il deficit in rapporto al pil crescono rapidamente a ragione della stagnazione della produzione di beni e servizi (da noi prevista dal settembre scorso ed oggi ammessa pure a Via Venti Settembre).
Potrebbe un Governo istituzionale con il solo mandato di pilotare una nuova legge elettorale dare la sferzata necessaria? Un lavoro di Laurence Kotlikoff , Luis Viceira, e Francisco Gomez (delle Università di Boston e di Harvard e della London School of Economics – atenei distinti e distanti dalle beghe in atto all’interno di quella che fu l’Unione) risponde con un sonoro “no”. Lo studio analizza “il peso della indecisione dei Governi” sotto il profilo sia teorico sia empirico: tale peso frena l’economia (ed aumenta le divergenze dei redditi) di più di quelli di Governi che, come di solito avviene, assumono decisioni sia corrette sia errate. Abbiamo avuto per venti mesi un Governo la cui funzione decisionale è stata bloccata (specialmente in materia di politica economica) dalle divergenze al suo interno. Un Esecutivo con l’unico compito di definire una legge elettorale e farla approvare dal Parlamento vuol dire proseguire sulla strada, in campo economico, di “The Excess Burden of Government Indecision" NBER Working Paper No. W12859 (il titolo del lavoro fresco di stampa di Kotlikoff, Viceira e Gomez) e della conseguente Italia a bassa velocità. Un vero e proprio spettro non solo per l’Italia che lavora e che produce quanto per le categorie a più basso reddito (il cui potere d’acquisto sta subendo una marcata erosione) e le nuove generazioni.
Devono essere assunte decisioni chiave entro l’assestamento di bilancio (giugno). Può prendere soltanto un Governo in grado di farlo e con un forte e chiaro mandato dagli elettori.
Non ci interessano dietrologie di breve periodo secondo cui l’annullamento sarebbe motivato dal tentativo d’ingraziarsi forze piccole, ma combattive, della ex-maggioranza per averle accanto nelle probabili elezioni. E’ più importante il significato dell’annullamento: si profila un’Italia a bassa velocità, in cui, nonostante l’unione monetaria, il differenziale dei tassi sui Btp decennali ed i Bund (in gergo lo “spread”) ha raggiunto il livello massimo degli ultimi sette anni (e la Bce minaccia di aumentare ulteriormente) e lo stock di debito pubblico ed il deficit in rapporto al pil crescono rapidamente a ragione della stagnazione della produzione di beni e servizi (da noi prevista dal settembre scorso ed oggi ammessa pure a Via Venti Settembre).
Potrebbe un Governo istituzionale con il solo mandato di pilotare una nuova legge elettorale dare la sferzata necessaria? Un lavoro di Laurence Kotlikoff , Luis Viceira, e Francisco Gomez (delle Università di Boston e di Harvard e della London School of Economics – atenei distinti e distanti dalle beghe in atto all’interno di quella che fu l’Unione) risponde con un sonoro “no”. Lo studio analizza “il peso della indecisione dei Governi” sotto il profilo sia teorico sia empirico: tale peso frena l’economia (ed aumenta le divergenze dei redditi) di più di quelli di Governi che, come di solito avviene, assumono decisioni sia corrette sia errate. Abbiamo avuto per venti mesi un Governo la cui funzione decisionale è stata bloccata (specialmente in materia di politica economica) dalle divergenze al suo interno. Un Esecutivo con l’unico compito di definire una legge elettorale e farla approvare dal Parlamento vuol dire proseguire sulla strada, in campo economico, di “The Excess Burden of Government Indecision" NBER Working Paper No. W12859 (il titolo del lavoro fresco di stampa di Kotlikoff, Viceira e Gomez) e della conseguente Italia a bassa velocità. Un vero e proprio spettro non solo per l’Italia che lavora e che produce quanto per le categorie a più basso reddito (il cui potere d’acquisto sta subendo una marcata erosione) e le nuove generazioni.
Devono essere assunte decisioni chiave entro l’assestamento di bilancio (giugno). Può prendere soltanto un Governo in grado di farlo e con un forte e chiaro mandato dagli elettori.
lunedì 28 gennaio 2008
RICOMINCIARE A PRIVATIZZARE. PARTENDO DALLA RAI
Dopo una fin troppo lunga pausa, si riparla di privatizzazioni. Prima dell’apertura formale di una crisi in atto già da mesi, Padoa-Schioppa ha annunciato che dopo quella dell’Alitalia (ancora pare di là da venire), ce ne saranno altre; l’elenco è lungo ma non ha indicato tempi, priorità e modalità. L’Amministratore Delegato delle Poste s.p.a. ha candidato l’azienda di cui ha la responsabilità alla denazionalizzazione in quanto ha utili significativi- appetibile, quindi, agli investitori. Dal mondo finanziario milanese giungono sussurra e grida in favore della completa privatizzazione della Cassa Depositi e Prestiti. In breve, le idee non mancano- anche se nessuno fa riferimento al comparto più urgente per migliorare la qualità della vita di cittadini ed imprese: i servizi pubblici locali. Chiunque nei prossimi mesi sarà a Palazzo Chigi ed a Via Venti Settembre dovrà riprendere le fila di un “dossier” (nel lessico comunitario) accantonato in questa XV legislatura.
C’è un ostacolo oggettivo: dopo una fase (2005-2007) di abbondante liquidità (sia interna sia internazionale), i mercati piangono: le Borse crollano al timore di una recessione Usa, la crisi dei mutui Usa sta prosciugando il private equity anche e soprattutto in Europa, nessuno intende (a ragione) rivolgersi ai fondi sovrani di Russia, Cina, Opec e Paesi asiatici per finanziare privatizzazioni. Dunque, occorre trovare privatizzazioni, al tempo stesso, prioritarie e tali da non richiedere grandi capitali.
La prima s.p.a. (di cui Via Venti Settembre è azionista totalitario) da trasformare in “public company” ad azionariato diffuso è la Rai. Siamo l’unico Paese al mondo a regime politico non dittatoriale con tre canali televisivi pubblici in chiaro e numerosi in digitale, per di più finanziati sia con la pubblicità sia con il canone. La Rai è l’unica s.p.a al mondo il pagamento dei cui servizi non è scelta dei consumatori ma viene esatto dal fisco. Prima che “l’anomalia Rai” ci porti fuori dall’euro, dall’Ue e pure dall’Ocse, rendiamola una s.p.a. normale.
Ho spiegato come farlo in sedi tecniche. In breve, si deve riprendere l’idea dell’economista Usa Steve H. Hanke: distribuire le azioni Rai ai cittadini in base all’età anagrafica di ciascuno (quanto più si è anziani tanto più si è dovuto pagare per sorbire programmi di bassa qualità ed informazione politicamente orientate); vincolarne la destinazione per un periodo(5-7 anni) a fondi pensione (contribuendo a risolvere così anche il nodo della previdenza complementare). Gli organi di gestione e di controllo verrebbero eletti dai soci, come in qualsiasi s.p.a.: ovviamente, l’azienda dovrebbe essere competitiva (su scala europea e mondiale) e le si applicherebbero (come a qualsivoglia s.p.a.) tutte le regole del diritto societario. Ed il servizio pubblico? Da un lato, ormai viaggia sul web. Da un altro, gli italiani-azionisti hanno maggior rispetto per la cultura e l’informazione di chi propina “isola dei famosi” & similia.
C’è un ostacolo oggettivo: dopo una fase (2005-2007) di abbondante liquidità (sia interna sia internazionale), i mercati piangono: le Borse crollano al timore di una recessione Usa, la crisi dei mutui Usa sta prosciugando il private equity anche e soprattutto in Europa, nessuno intende (a ragione) rivolgersi ai fondi sovrani di Russia, Cina, Opec e Paesi asiatici per finanziare privatizzazioni. Dunque, occorre trovare privatizzazioni, al tempo stesso, prioritarie e tali da non richiedere grandi capitali.
La prima s.p.a. (di cui Via Venti Settembre è azionista totalitario) da trasformare in “public company” ad azionariato diffuso è la Rai. Siamo l’unico Paese al mondo a regime politico non dittatoriale con tre canali televisivi pubblici in chiaro e numerosi in digitale, per di più finanziati sia con la pubblicità sia con il canone. La Rai è l’unica s.p.a al mondo il pagamento dei cui servizi non è scelta dei consumatori ma viene esatto dal fisco. Prima che “l’anomalia Rai” ci porti fuori dall’euro, dall’Ue e pure dall’Ocse, rendiamola una s.p.a. normale.
Ho spiegato come farlo in sedi tecniche. In breve, si deve riprendere l’idea dell’economista Usa Steve H. Hanke: distribuire le azioni Rai ai cittadini in base all’età anagrafica di ciascuno (quanto più si è anziani tanto più si è dovuto pagare per sorbire programmi di bassa qualità ed informazione politicamente orientate); vincolarne la destinazione per un periodo(5-7 anni) a fondi pensione (contribuendo a risolvere così anche il nodo della previdenza complementare). Gli organi di gestione e di controllo verrebbero eletti dai soci, come in qualsiasi s.p.a.: ovviamente, l’azienda dovrebbe essere competitiva (su scala europea e mondiale) e le si applicherebbero (come a qualsivoglia s.p.a.) tutte le regole del diritto societario. Ed il servizio pubblico? Da un lato, ormai viaggia sul web. Da un altro, gli italiani-azionisti hanno maggior rispetto per la cultura e l’informazione di chi propina “isola dei famosi” & similia.
sabato 26 gennaio 2008
PER IL 70% DEGLI ECONOMISTI SAREBBE ’ UN BENE SE PRODI ANDASSE A CASA
Da due settimane, un sondaggio del Club dell’Economia indica che il 70% di coloro che si interessano alla “triste scienza” e seguono regolarmente il sito del sodalizio considerano un bene per l’economia del Paese una crisi di Governo “un bene perché ridurrebbe il peso del deficit e del debito; il 28% “un male perché si perderebbe l’occasione di spendere di più per le pensioni e per le fasce disagiate; appena il 2% è indeciso. Basta andare sul sito www.clubeconomia.it . Il sondaggio non ha la pretesa di essere statisticamente significativo di tutti coloro che in Italia si interessano di economia e di politica economica. Tuttavia, è indicativo di cosa pensano non tanto i soci del club ma tutti coloro (molti gli studenti) che seguono regolarmente il sito per avere accesso ad articoli ed a saggi dei soci, nonché ai loro blog.
Il Club è nato nel maggio 1984 per iniziativa di quattro professori di economia e due commentatori economici. E’ un’associazione assolutamente apolitica ed, a maggior ragione, apartitica. Oggi ha poco più di una cinquantina di soci (sempre o docenti di economia o editorialisti economici); si è ammessi soltanto se,a scrutinio segreto, il 75% dei soci iscritti si esprime a favore del candidato; ha come attività istituzionale principale annuale il conferimento del “Premio Tarantelli” a chi ha formulato, nei 12 mesi precedenti, la migliore idea in campo economico; in una serie di colazioni rigorosamente “off record” con personalità del mondo dell’economia (a cadenza più o meno quindicinale), i soci hanno l’occasione di prendere il polso di dove vanno l’economia e la politica economica.
I risultati del sondaggio sono, peraltro, in linea con quanto Il Tempo sostiene da tempo sulla base di analisi quantitative sia italiane sia straniere. La sera del 21 gennaio, ad esempio, il Zentum Fuer Europaeische Wirtschaftsforschung (ZEW) ha pubblicato on line un Discussion Paper perfettamente in linea con queste analisi: Prodi, TPS e soci dovrebbero trovare particolarmente inquietante che uno degli autori del lavoro è l’economista Tobias Linzert, attualmente al servizio studi della Bce. Ciò indica che anche per le istituzioni europee è bene che ci sia un chiarimento definitivo sulla situazione politica italiana. Atteggiamento analogo si percepisce nella peraltro abbottonatissima delegazione del Fondo monetario in arrivo a Roma per iniziare il 24 gennaio le discussioni scambi di analisi e di idee con esponenti di un Governo probabilmente occupato a fare le valigie ed a prepararsi alle elezioni.
Oltre al chiarimento del quadro politico (essenziale per rimettersi in marcia), la caduta del Governo e nuove elezioni eviterebbero alcuni guai specifici immediati, specialmente per i giovani: il completamento di quella contro-riforma della previdenza per l’entrata in vigore della quale si devono ancora mettere a punto numerosi decreti delegati. Si impedirebbe, poi, la lottizzazione sfrenata di capogruppo come l’Eni e l’Enel (nonché delle società che da esse dipendono) e degli enti previdenziali.
Il Club è nato nel maggio 1984 per iniziativa di quattro professori di economia e due commentatori economici. E’ un’associazione assolutamente apolitica ed, a maggior ragione, apartitica. Oggi ha poco più di una cinquantina di soci (sempre o docenti di economia o editorialisti economici); si è ammessi soltanto se,a scrutinio segreto, il 75% dei soci iscritti si esprime a favore del candidato; ha come attività istituzionale principale annuale il conferimento del “Premio Tarantelli” a chi ha formulato, nei 12 mesi precedenti, la migliore idea in campo economico; in una serie di colazioni rigorosamente “off record” con personalità del mondo dell’economia (a cadenza più o meno quindicinale), i soci hanno l’occasione di prendere il polso di dove vanno l’economia e la politica economica.
I risultati del sondaggio sono, peraltro, in linea con quanto Il Tempo sostiene da tempo sulla base di analisi quantitative sia italiane sia straniere. La sera del 21 gennaio, ad esempio, il Zentum Fuer Europaeische Wirtschaftsforschung (ZEW) ha pubblicato on line un Discussion Paper perfettamente in linea con queste analisi: Prodi, TPS e soci dovrebbero trovare particolarmente inquietante che uno degli autori del lavoro è l’economista Tobias Linzert, attualmente al servizio studi della Bce. Ciò indica che anche per le istituzioni europee è bene che ci sia un chiarimento definitivo sulla situazione politica italiana. Atteggiamento analogo si percepisce nella peraltro abbottonatissima delegazione del Fondo monetario in arrivo a Roma per iniziare il 24 gennaio le discussioni scambi di analisi e di idee con esponenti di un Governo probabilmente occupato a fare le valigie ed a prepararsi alle elezioni.
Oltre al chiarimento del quadro politico (essenziale per rimettersi in marcia), la caduta del Governo e nuove elezioni eviterebbero alcuni guai specifici immediati, specialmente per i giovani: il completamento di quella contro-riforma della previdenza per l’entrata in vigore della quale si devono ancora mettere a punto numerosi decreti delegati. Si impedirebbe, poi, la lottizzazione sfrenata di capogruppo come l’Eni e l’Enel (nonché delle società che da esse dipendono) e degli enti previdenziali.
RIDURRE LA SPESA PRIMA DI TAGLIARE LE TASSE. ALTRIMENTI E' PEGGIO
L’allargamento dell’Unione Europea (Ue), vanto, a torto od a ragione, Romano Prodi, ha conseguenze significative in termine di politica tributaria. VVV (ossia il Vice Ministro Vincenzo Visco, molto pro-tempore) ha in bella vista sulla sua scrivania un lavoro della Università di Colonia (Iza Discussion Paper N. 3142) in cui si dimostra come il successo della “flat tax” (un’aliquota unica, piuttosto bassa, sgomberando il campo da agevolazioni, incentivi e tutti) nei Paesi neo-comunitari dell’Europa centrale ed orientale metta a repentaglio i complicati (e pesanti) sistemi in altri Paesi Ue (come quello dell’Italia). L’analisi indica che se introdotta in Germania, la “flat tax” potrebbe aumentare le disuguaglianze di reddito (ove non accompagnata da una revisione del welfare). Conclusioni analoghe si ricavano da simulazioni effettuate in Olanda (Cesifo Working Paper N. 1890).
Sorgono tre interrogativi: a) sono i sistemi tributari degli Stati della “vecchia” Ue ad essere più o meno efficienti, sotto il profilo economico e sociale oppure lo sono l’estensione e le modalità di intervento pubblico in essi radicatosi?; b) gli Stati neocomunatari a “flat tax” e poco welfare non finiranno per fare le scarpe agli altri?; c) l’arma vincente non consiste nell’”affamare la bestia”, ossia ridurre aliquote e gettito per imporre una marcia indietro della mano pubblica?
Alla prima domanda risponde uno studio del Ministero dell’Economia danese e dell’Università di Copenhagen (Cesifo Working Paper n. 1859): ci piaccia o non ci piaccia, nell’Ue, un coordinamento delle politiche tributarie è inevitabile e tale da comportare vincitori e vinti . Alla seconda, un saggio del pensatoio liberale svedese Timbro dimostra che proprio nell’Europa occidentale i Paesi con la mano pubblica più tentacolare sono anche quelli dove l’esclusione sociale sta crescendo più rapidamente. Questa ipotesi viene rafforzata da un lavoro della Commissione Europea ignorato in Italia, le previsioni al 2050 della produttività del lavoro nell’Ue a 25 (prima che entrassero Bulgaria e Romania): un rallentamento marcato nell’Ue in generale ma soprattutto in quelli la cui popolazione si invecchia, lo stato sociale è esteso ed il sistema tributario pesante. Una prova del 9 si ha, indirettamente, da uno studio dell’Università Carlo III di Madrid (Cepr Discussion Paper n. 5812): negli Stati Uniti (dove il welfare è leggero e la pubblica amministrazione non è – per utilizzare i qualificativi di Giuliano Amato – “impicciona” e “pasticciona”) i maggiori beneficiari di una “flat tax” sarebbero proprio i più poveri.
La lezione è chiara: occorre ridurre l’onere tributario e semplificarne la struttura – questo il significato della “flat tax” (anche se non si va immediatamente ad aliquota unica ma si viaggia verso di essa durante una fase di transizione). E’ fattibile se non si opera preliminarmente dal lato della spesa, soprattutto di parte corrente. E’ questo quanto VVV ha chiesto al suo “superiore” (sempre “pro-tempoe”), il Ministro dell’Economia e delle Finanze, TPS. Per anni si è credito nella strategia (mai praticata in Italia) di imporre una riduzione della spesa smettendo di alimentarla con gettito tributaria. A raggelare questa tesi, è venuto qualche mese settimana fa un saggio di Christina e David Romer della Università della California a Berkeley (Nber Working Paper N. W 13548) in cui si dimostra (sia tramite un’analisi econometrica comparata sia tramite lo studio di quattro “episodi” effettivi di politica economica) che l’assunto non tiene: se non si taglia prima la spesa pubblica meno produttiva, aumentano deficit e disavanzo e, dopo un paio di esercizi, occorre aumentare di nuovo la tasse. Quindi, chiedere ai Ministri della spesa di mettere le loro case in ordine. Se non vogliamo entrare nel circolo vizioso: alte tasse, alto welfare, bassa produttività, accresciuta concorrenza dei neocomunitari.
LE BUSTE PAGA CHIEDONO POLITICHE COERENTI
Concluso il rinnovo contrattuale delle tute blu, la “questione salariale” (e la minaccia di uno sciopero generale) tornano in primo piano anche a ragione della pubblicazione del periodico Ocse in cui si comparano le retribuzioni nei 30 Paesi dell’organizzazione. A “parità di potere d’acquisto” i salari medi “lordi” in Italia risultano 19simi con un differenziale, ad esempio, di 9.000 euro l’anno con l’Australia e di 6.500 con la Germania. Battiamo di poco, però, Francia e Spagna.
In primo luogo, a ragione delle profonde differenze di welfare (e di pertinenti metodi di finanziamento), le retribuzioni “medie” raffrontate sono “al lordo” dell’imposta sul reddito ma non dei contributi sociali per disoccupazione, sanità, previdenza ed altro. In secondo luogo, come visto nel recente dibattito sul “sorpasso” della Spagna (rispetto al nostro Paese) in termini di pil pro-capite, le metodologie per stimare le “parità di potere d’acquisto” sono diverse e differenti (quelle della Commissione Europea non collimano con quelle di Fondo monetario e Banca mondiale) e possono comportare distorsioni. Queste finezze non vengono essere sempre colte dai media, a cui le informazioni arrivano tramite sintesi di uffici ed agenzie stampa dove è indispensabile semplificare aspetti tecnico-statistici.
Con ciò non si vuole sostenere che in Italia non c’è un problema di buste paga striminzite, ma che per risolvere il problema occorre porlo sul binario corretto (altrimenti si deraglia). E’ sempre l’Ocse a dirci ad esempio che per le pensione spendiamo il 14% del pil rispetto ad una media del 7,7% per i 30 Paesi e che abbiamo il più alto di contribuzione (il 33% del salario, tra quanto pagato dal lavoratore e quanto dal suo datore di lavoro) rispetto ad una media del 20%. L’Ocse ci avverte che la contro-riforma della previdenza approvata prima di Natale allargherà il divario, anche in quanto altri stanno abbassando prestazioni e contributi. I dati sui salari “medi” “lordi” hanno un nesso forte con il livello e le modalità di finanziamento della previdenza. E’ curioso vedere che chi si è battuto per la contro-riforma della previdenza, soltanto ora si accorga delle sue implicazioni sulle buste paga (ampiamente trattate lo scorso autunno). L’Ocse aggiunge che in Italia la produttività multifattoriale (ossia del lavoro e del capitale) ristagna; le stime al 2050 della produttività del lavoro elaborate dalla Commissione Europea ricordano che rischiamo di diventare l’ultima ruota del carro Ue; un’analisi (inedita) di Bankitalia e dell’Università della California puntualizza che dal 1995 al 2003 (ultima serie di dati disponibile), l’innovazione in Italia è stata di processo (molto reattiva alla contrattazione aziendale) piuttosto che di prodotto.
Politiche coerenti per rimpolpare le buste paga comportano rimangiarsi la contro-riforma delle pensioni e dare enfasi alla contrattazione decentrata (meglio se aziendale). Chi le è viste, batta un colpo.
In primo luogo, a ragione delle profonde differenze di welfare (e di pertinenti metodi di finanziamento), le retribuzioni “medie” raffrontate sono “al lordo” dell’imposta sul reddito ma non dei contributi sociali per disoccupazione, sanità, previdenza ed altro. In secondo luogo, come visto nel recente dibattito sul “sorpasso” della Spagna (rispetto al nostro Paese) in termini di pil pro-capite, le metodologie per stimare le “parità di potere d’acquisto” sono diverse e differenti (quelle della Commissione Europea non collimano con quelle di Fondo monetario e Banca mondiale) e possono comportare distorsioni. Queste finezze non vengono essere sempre colte dai media, a cui le informazioni arrivano tramite sintesi di uffici ed agenzie stampa dove è indispensabile semplificare aspetti tecnico-statistici.
Con ciò non si vuole sostenere che in Italia non c’è un problema di buste paga striminzite, ma che per risolvere il problema occorre porlo sul binario corretto (altrimenti si deraglia). E’ sempre l’Ocse a dirci ad esempio che per le pensione spendiamo il 14% del pil rispetto ad una media del 7,7% per i 30 Paesi e che abbiamo il più alto di contribuzione (il 33% del salario, tra quanto pagato dal lavoratore e quanto dal suo datore di lavoro) rispetto ad una media del 20%. L’Ocse ci avverte che la contro-riforma della previdenza approvata prima di Natale allargherà il divario, anche in quanto altri stanno abbassando prestazioni e contributi. I dati sui salari “medi” “lordi” hanno un nesso forte con il livello e le modalità di finanziamento della previdenza. E’ curioso vedere che chi si è battuto per la contro-riforma della previdenza, soltanto ora si accorga delle sue implicazioni sulle buste paga (ampiamente trattate lo scorso autunno). L’Ocse aggiunge che in Italia la produttività multifattoriale (ossia del lavoro e del capitale) ristagna; le stime al 2050 della produttività del lavoro elaborate dalla Commissione Europea ricordano che rischiamo di diventare l’ultima ruota del carro Ue; un’analisi (inedita) di Bankitalia e dell’Università della California puntualizza che dal 1995 al 2003 (ultima serie di dati disponibile), l’innovazione in Italia è stata di processo (molto reattiva alla contrattazione aziendale) piuttosto che di prodotto.
Politiche coerenti per rimpolpare le buste paga comportano rimangiarsi la contro-riforma delle pensioni e dare enfasi alla contrattazione decentrata (meglio se aziendale). Chi le è viste, batta un colpo.
L'ALTRA FACCIA DEL FAUST GUARDA A DIO da Il Domenicale
Circa tre anni fa sul “Dom” si è preso spunto da due nuove esecuzioni del “Mefistofele” di Arrigo Boito (opera ed autore messi al bando, in Italia, per lustri da una “cultura” che li considerava “fascisti”- Boito morì nel 1918 e fu esponente di spicco della “scapigliatura” milanese, movimento, nel contesto dell’epoca, di sinistra)- per fare una riflessione sul ritorno del diabolico in Paese teso verso l’innovazione ma ancorato ad aspetti meno belli del passato – “Le due anime di Faust” per parafrasare il titolo di un libro di Paolo Peluffo, in cui si raccoglievano scritti di Guido Carli. Edito da Laterza nel 1995 è arrivato troppo presto; riscosse molta meno attenzione di quanto ne avrebbe adesso.
Perché tornare ad annusare odore di zolfo ed ad anelare all’ “eterno femminino” che ci porti alla Grazia? Per una ragione personale. E per una più vasta di attualità culturale. Le esecuzioni del “Mefistofele” nel 2005 mi indussero a rileggere i 12000 versi di cui si compone il “Faust” di Wolfang Goethe nei bella collana “I Meridiani” (Mondatori, 1980) con traduzione a fronte di Franco Fortini: un risultato della rilettura è stato apprezzarne davvero la “seconda parte” (8000 versi includendo il “Prologo in Cielo”), in cui Faust, lasciato il piccolo mondo di Margherita, va nel grande mondo dell’Impero, viaggia nel passato e nel futuro e ritrova se stesso mettendosi al servizio dell’umanità e della sua modernizzazione. L’altra determinante è che a cavallo tra la seconda metà del 2007 ed l’inizio del 2008 in Italia vanno in scena tre adattamenti del”Faust” che, a differenza della consuetudine, danno rilievo proprio alla “seconda parte” del lavoro di Goethe.
I 12000 versi non furono scritti per la scena: un tentativo di rappresentazione “a puntate” (negli Anni 50) al Piccolo Eliseo di Roma costringeva gli spettatori ad andare a teatro tutte le sere per circa una settimana. Anche nei Paesi di espressione tedesca di solito si mette in scena l’”Ur-Faust”, la prima breve versione relativa al “patto con il diavolo” dell’anziano scienziato per tornare giovane, nonché alla seduzione di Margherita, al matricidio ed all’infanticidio da lei commessi ed al suo pentimento e redenzione. Le stesse numerose opere musicali tratte dal capolavoro di Goethe – a cominciare dalla più nota e più rappresentata, quella di Charles Gounoud – riguardano essenzialmente la prima parte. Quindi, è quanto meno insolito che nel giro di pochi mesi sia in tournée un nuovo adattamento teatrale a cura di Dario Del Corno e Glauco Mauri in cui in tre ore si utilizzi tanto la prima quanto la seconda parte per trasmettere il significato del lavoro. E’ anche inusuale che tanto il Regio di Parma quanto il Massimo di Palermo abbiano deciso di inaugurare la stagione 2008 con nuovi allestimenti delle due opere in musica – per l’appunto “Mefistofele” di Boito e “Szenen aus Goethes Faust” (“Scene dal Faust di Goethe”) di Robert Schumann – che meglio di altre incapsulano ambedue le parti del testo. Due terzi di “Szenen aus Goethes Faust” riguardano la seconda parte del capolavoro – l’amore tra Faust e Margherita è trattato in un duetto di poco più di 5 minuti a cui seguono due numeri musicali sul pentimento della giovane per complessivi 11 minuti, il resto della partitura, circa due ore complessivamente, è dedicato a Faust modernizzatore, alla sua morte pentito e ben 45 minuti all’accettazione in Cielo grazie all’intercessione dell’”eterno femminino”.
Al momento in cui vengono scritte queste note ho visto due dei tre spettacoli – la “prima” del “Mefistofele” a Palermo è il 23 gennaio e presenta un cast di livello (regia di Giancarlo Del Monaco; direzione musicale di Stefano Ranzani; Giuseppe Filianoti, Ferruccio Furlanetto e Dimitra Theodossiou nei ruoli principali). Nell’adattamento di Del Corno e Mauri, Faust è tempo stesso imbonitore e dotto studioso, visionario e preda eccellente per il diabolico tentatore Mefistofele. La versione preme sull’equivoco (Glauco Mauri e Roberto Sturno si alternano nei ruoli di Faust e Mefistofele). Il ritorno alla giovinezza non è per tornaconto: il destino svolta direzione grazie alla pietà divina che riconosce il desiderio di miglioramento di Faust (per la società che lo circonda) portando al fallimento del diavolo e facendo diventare il protagonista emblema del cammino dell’umanità verso la redenzione tramite operosità e responsabilità. Non coglie, però, l’afflato religioso (cruciale in Goethe).
Le “Szenen” occuparono Schumann per ben dieci anni della sua non lunga vita. Vennero eseguite integralmente (in forma di concerto in quanto non destinate alla scena) sei anni .dopo la morte dell’autore. Non utilizzano un libretto ma frammenti del testo originale di Geothe. La musicologa britannica Joan Chissell sottolinea come Schumann, pur non appartenendo ad nessuna confessione, fosse “un profondo credente nell’etica cristiana e al passare degli anni i suoi lavori sono sempre più imperniati sul tema della redenzione tramite rimorso, pentimento e sacrificio” Sergio Sablich mette l’accento sullo”sforzo di agganciare la musica a grandi temi ideologici”. Ciò uno dei caratteri distintivi delle “Szenen” rispetto al “Mefistofele” che, in sintonia con la cultura delle “scapigliato” Boito, hanno un prologo ed un epilogo in un Cielo “colossal”, come percepito da un non-credente.
L’allestimento di Hugo de Ana al Regio di Parma riesce (con laser e proiezioni elettroniche) a drammatizzare efficacemente un testo ed una musica di pura introspezione dal breve ma inteso rapporto con Margherita, al tentativo di costruire la città ideale dove milioni di uomini e donne vivano in benessere e libertà, alla contemplazione della morte, all’accettazione in Cielo. La direzione musicale di Donato Renzetti da una lettura monumentale della partitura. Il giovane Marcus Werba (nei tre ruoli di Faust, Pater Seraficus e Doctor Marianus) sovrasta il resto del cast e coglie più dello stesso regista il messaggio di etica cristiana alla base del lavoro di Schumann.
Torniamo adesso alle “due anime di Faust” da cui abbiamo preso avvio. L’etica cristiana della responsabilità per il bene comune – quasi ignorata nell’”Ur-Faust” e negli adattamenti per la scena e per il teatro in musica basati sulla prima parte del capolavoro di Goethe – è la chiave per risolvere tra innovazione-modernizzazione, da un lato, e ancoraggio al passato, dall’altro. L’innovazione-modernizzazione diventa non soddisfazione della utilità, ed anche del piacere, individuale (il piccolo mondo di Margherita e, se si vuole, il “Faust” di Gounod) ma servizio alla collettività, ove non al resto dell’umanità (seconda parte del “Faust” di Goethe). L’ancoraggio al passato non è rifiuto della modernità, ma ricerca dei valori più pregnanti e validi in qualsiasi stagione (il viaggio a ritroso di Faust pure nella Grecia antica, ripreso nel “Mefistofele” di Boito). Una chiave importante per un Paese che oggi è ad un bivio tra modernizzazione e passato più di quanto non lo fosse nel 1995 . E nello stesso 2005.
Perché tornare ad annusare odore di zolfo ed ad anelare all’ “eterno femminino” che ci porti alla Grazia? Per una ragione personale. E per una più vasta di attualità culturale. Le esecuzioni del “Mefistofele” nel 2005 mi indussero a rileggere i 12000 versi di cui si compone il “Faust” di Wolfang Goethe nei bella collana “I Meridiani” (Mondatori, 1980) con traduzione a fronte di Franco Fortini: un risultato della rilettura è stato apprezzarne davvero la “seconda parte” (8000 versi includendo il “Prologo in Cielo”), in cui Faust, lasciato il piccolo mondo di Margherita, va nel grande mondo dell’Impero, viaggia nel passato e nel futuro e ritrova se stesso mettendosi al servizio dell’umanità e della sua modernizzazione. L’altra determinante è che a cavallo tra la seconda metà del 2007 ed l’inizio del 2008 in Italia vanno in scena tre adattamenti del”Faust” che, a differenza della consuetudine, danno rilievo proprio alla “seconda parte” del lavoro di Goethe.
I 12000 versi non furono scritti per la scena: un tentativo di rappresentazione “a puntate” (negli Anni 50) al Piccolo Eliseo di Roma costringeva gli spettatori ad andare a teatro tutte le sere per circa una settimana. Anche nei Paesi di espressione tedesca di solito si mette in scena l’”Ur-Faust”, la prima breve versione relativa al “patto con il diavolo” dell’anziano scienziato per tornare giovane, nonché alla seduzione di Margherita, al matricidio ed all’infanticidio da lei commessi ed al suo pentimento e redenzione. Le stesse numerose opere musicali tratte dal capolavoro di Goethe – a cominciare dalla più nota e più rappresentata, quella di Charles Gounoud – riguardano essenzialmente la prima parte. Quindi, è quanto meno insolito che nel giro di pochi mesi sia in tournée un nuovo adattamento teatrale a cura di Dario Del Corno e Glauco Mauri in cui in tre ore si utilizzi tanto la prima quanto la seconda parte per trasmettere il significato del lavoro. E’ anche inusuale che tanto il Regio di Parma quanto il Massimo di Palermo abbiano deciso di inaugurare la stagione 2008 con nuovi allestimenti delle due opere in musica – per l’appunto “Mefistofele” di Boito e “Szenen aus Goethes Faust” (“Scene dal Faust di Goethe”) di Robert Schumann – che meglio di altre incapsulano ambedue le parti del testo. Due terzi di “Szenen aus Goethes Faust” riguardano la seconda parte del capolavoro – l’amore tra Faust e Margherita è trattato in un duetto di poco più di 5 minuti a cui seguono due numeri musicali sul pentimento della giovane per complessivi 11 minuti, il resto della partitura, circa due ore complessivamente, è dedicato a Faust modernizzatore, alla sua morte pentito e ben 45 minuti all’accettazione in Cielo grazie all’intercessione dell’”eterno femminino”.
Al momento in cui vengono scritte queste note ho visto due dei tre spettacoli – la “prima” del “Mefistofele” a Palermo è il 23 gennaio e presenta un cast di livello (regia di Giancarlo Del Monaco; direzione musicale di Stefano Ranzani; Giuseppe Filianoti, Ferruccio Furlanetto e Dimitra Theodossiou nei ruoli principali). Nell’adattamento di Del Corno e Mauri, Faust è tempo stesso imbonitore e dotto studioso, visionario e preda eccellente per il diabolico tentatore Mefistofele. La versione preme sull’equivoco (Glauco Mauri e Roberto Sturno si alternano nei ruoli di Faust e Mefistofele). Il ritorno alla giovinezza non è per tornaconto: il destino svolta direzione grazie alla pietà divina che riconosce il desiderio di miglioramento di Faust (per la società che lo circonda) portando al fallimento del diavolo e facendo diventare il protagonista emblema del cammino dell’umanità verso la redenzione tramite operosità e responsabilità. Non coglie, però, l’afflato religioso (cruciale in Goethe).
Le “Szenen” occuparono Schumann per ben dieci anni della sua non lunga vita. Vennero eseguite integralmente (in forma di concerto in quanto non destinate alla scena) sei anni .dopo la morte dell’autore. Non utilizzano un libretto ma frammenti del testo originale di Geothe. La musicologa britannica Joan Chissell sottolinea come Schumann, pur non appartenendo ad nessuna confessione, fosse “un profondo credente nell’etica cristiana e al passare degli anni i suoi lavori sono sempre più imperniati sul tema della redenzione tramite rimorso, pentimento e sacrificio” Sergio Sablich mette l’accento sullo”sforzo di agganciare la musica a grandi temi ideologici”. Ciò uno dei caratteri distintivi delle “Szenen” rispetto al “Mefistofele” che, in sintonia con la cultura delle “scapigliato” Boito, hanno un prologo ed un epilogo in un Cielo “colossal”, come percepito da un non-credente.
L’allestimento di Hugo de Ana al Regio di Parma riesce (con laser e proiezioni elettroniche) a drammatizzare efficacemente un testo ed una musica di pura introspezione dal breve ma inteso rapporto con Margherita, al tentativo di costruire la città ideale dove milioni di uomini e donne vivano in benessere e libertà, alla contemplazione della morte, all’accettazione in Cielo. La direzione musicale di Donato Renzetti da una lettura monumentale della partitura. Il giovane Marcus Werba (nei tre ruoli di Faust, Pater Seraficus e Doctor Marianus) sovrasta il resto del cast e coglie più dello stesso regista il messaggio di etica cristiana alla base del lavoro di Schumann.
Torniamo adesso alle “due anime di Faust” da cui abbiamo preso avvio. L’etica cristiana della responsabilità per il bene comune – quasi ignorata nell’”Ur-Faust” e negli adattamenti per la scena e per il teatro in musica basati sulla prima parte del capolavoro di Goethe – è la chiave per risolvere tra innovazione-modernizzazione, da un lato, e ancoraggio al passato, dall’altro. L’innovazione-modernizzazione diventa non soddisfazione della utilità, ed anche del piacere, individuale (il piccolo mondo di Margherita e, se si vuole, il “Faust” di Gounod) ma servizio alla collettività, ove non al resto dell’umanità (seconda parte del “Faust” di Goethe). L’ancoraggio al passato non è rifiuto della modernità, ma ricerca dei valori più pregnanti e validi in qualsiasi stagione (il viaggio a ritroso di Faust pure nella Grecia antica, ripreso nel “Mefistofele” di Boito). Una chiave importante per un Paese che oggi è ad un bivio tra modernizzazione e passato più di quanto non lo fosse nel 1995 . E nello stesso 2005.
BOITO SI RITROVA SCAPIGLIATO
Il “Teatro Massimo” di Palermo ha inaugurato la stagione con una rara e indubbiamente controversa (e dissacrante) messa in scena di “Mefistofele” di Arrigo Boito. Tra le opere ispirate dal “Faust” di Goethe è l’unica che si pone l’obiettivo di mettere in musica sia la prima sia la seconda parte degli oltre 12000 versi per dare corpo non tanto alla vicenda d’amore (tra Faust, ringiovanito grazie al patto con il diavolo Mefistofele, e l’innocente Margherita) ma alla ricerca del significato della vita, grazie al lavoro per il resto dell’umanità ed alla Fede: in circa quattro ore si spazia da un prologo in Cielo, alla Germania del Medio-Evo, all’orgia dei diavoli all’Infermo, alla Grecia classica per approdare alla catarsi finale. Si tratta di un lavoro debordante dove tutto è eccessivo (anche la strumentazione e la vocalità). L’allestimento di “Mefistofele” comporta difficoltà oggettive, a ragione dei frequenti cambiamenti di ambiente nello spazio e nel tempo, della esigenza di un doppio coro, di un corpo di ballo, di mimi, nonché di una scrittura impervia di una vasta orchestra.
Giancarlo Del Monaco trasferisce la vicenda in un’ipotetica Germania Anni 30 nella prima parte e in una Las Vegas inizio XXI secolo nella seconda, Il Cielo (prologo ed epilogo è un enorme imbuto). Nell’Inferno si svolgono invece orge con puntine sado-maso che rievocano la Berlino di 80 anni fà. Nella Las Vegas il bel Faust sconvolge, con la sua avvenenza maschile, un sereno mondo di rapporti saffici. Questa interpretazione da gran Luna Park è paradossalmente molto più vicina allo spirito di Arrigo Boito (protagonista della “scapigliatura” milanese) di quanto non siano quelle basate su ricostruzioni in cartapesta di Paradiso, Inferno, Medio-Evo e Grecia classica.
Stefano Ranzani offre una lettura scultorea e monumentale della complessa partitura, sveltendo, però, al tempo stesso, i tempi ed accentuandone gli aspetti ritmici e timbrici. Grande attesa per il debutto dei due protagonisti maschili in ruoli particolarmente difficili. A 60 anni, Ferruccio Furlanetto è un Mefistofele in frac , al tempo stesso imbonitore (come quello della commedia musicale “Cabaret”) e persuasore (non tanto occulto) del fascino del peccato; ad una efficace interpretazione scenica, aggiunge un fraseggio perfetto e una notevole agilità vocale. Giuseppe Filianoti (Faust) torna ai palcoscenici dopo una lunga malattia: ancora molto giovane,e con la forma fisica perfetta alla parte di seduttore, gli è si brunito il timbro ed ha perso un po’ di volume vocale, ma è un bari-tenore efficace ed attore nato. Dimitra Theodossiuo affronta il ruolo di Margherita nella prima parte e quello di Elena nella seconda. Vocalmente intesa nel ruolo della fanciulla che perde l’innocenza, le manca però le “physique du rôle”. Più convincente il quello peccaminoso della seconda parte.
Giancarlo Del Monaco trasferisce la vicenda in un’ipotetica Germania Anni 30 nella prima parte e in una Las Vegas inizio XXI secolo nella seconda, Il Cielo (prologo ed epilogo è un enorme imbuto). Nell’Inferno si svolgono invece orge con puntine sado-maso che rievocano la Berlino di 80 anni fà. Nella Las Vegas il bel Faust sconvolge, con la sua avvenenza maschile, un sereno mondo di rapporti saffici. Questa interpretazione da gran Luna Park è paradossalmente molto più vicina allo spirito di Arrigo Boito (protagonista della “scapigliatura” milanese) di quanto non siano quelle basate su ricostruzioni in cartapesta di Paradiso, Inferno, Medio-Evo e Grecia classica.
Stefano Ranzani offre una lettura scultorea e monumentale della complessa partitura, sveltendo, però, al tempo stesso, i tempi ed accentuandone gli aspetti ritmici e timbrici. Grande attesa per il debutto dei due protagonisti maschili in ruoli particolarmente difficili. A 60 anni, Ferruccio Furlanetto è un Mefistofele in frac , al tempo stesso imbonitore (come quello della commedia musicale “Cabaret”) e persuasore (non tanto occulto) del fascino del peccato; ad una efficace interpretazione scenica, aggiunge un fraseggio perfetto e una notevole agilità vocale. Giuseppe Filianoti (Faust) torna ai palcoscenici dopo una lunga malattia: ancora molto giovane,e con la forma fisica perfetta alla parte di seduttore, gli è si brunito il timbro ed ha perso un po’ di volume vocale, ma è un bari-tenore efficace ed attore nato. Dimitra Theodossiuo affronta il ruolo di Margherita nella prima parte e quello di Elena nella seconda. Vocalmente intesa nel ruolo della fanciulla che perde l’innocenza, le manca però le “physique du rôle”. Più convincente il quello peccaminoso della seconda parte.
PARSIFAL
Roma, Accademia di Santa Cecilia
PARSIFAL
Sacra azione per la scena in tre atti
Testo e musica di Richard Wagner
Una messa in scena di “Parsifal”, capolavoro estremo a cui Wagner lavorò per circa 35 anni, si scontra con tre difficoltà oggettive: a) le “trasformazioni” a scena aperta in ciascuno dei tre atti ; b) un protagonista con le “physique du rôle”- poco più che adolescente, bello, avvenente, vergine ed innocente sino alla seconda metà del secondo atto, giovane consapevole successivamente dopo avere acquisto conoscenza, coscienza e pietà grazie alla consapevolezza del peccato, c) la rappresentazione del mistero dell’Eucarestia in scena ben due volte, nella seconda metà del primo atto e nel terzo atto.
Le “trasformazioni” possono essere risolte o con scene dipinte – ora non più di uso- come fece lo stesso Wagner a Bayreuth nel 1882 oppure con un palcoscenico altamente tecnologico, disponibile in Italia unicamente alla Scala ed al Carlo Felice. Le “physique du rôle” del protagonista è nodo raramente sciolto in maniera soddisfacente: avrò visto una quarantina di rappresentazioni di “Parsifal” in Europa e negli Usa e il solo interprete veramente credibile (e con la voce appropriata) è stato Peter Hoffmann – la cui stagione, malauguratamente, è durata meno di dieci anni. Il terzo ostacolo (l’Eucarestia sul palcoscenico) è sempre tema delicato e di ardua realizzazione – anche in quanto elemento centrale di una “azione” intensa e drammatica.
Vada, quindi, per le esecuzioni in forma di concerto che consentono non soltanto di superare le difficoltà di realizzazioni scenica ma anche e soprattutto di apprezzare una scrittura orchestrare e vocale di 120 anni fa e molto più moderna di quanto oggi si spaccia per avanguardia.
Due parole sull’”azione”: Parsifal, “puro folle”, cresciuto nella foresta quindi innocente, acquista la conoscenza del mondo quando ha contezza del peccato carnale; riesce così a purificare il Regno del Graal, a curarne il Re Amfortas ferito dal mago Klinsgor (un cavaliere cristiano che si era autocastrato in quanto non in grado di obbedire alla regola della castità). Nel castello di Klingsor, Amfortas era stato attirato da Kundry (donna bellissima e “costretta” da secoli a non morire poiché, sul Golgota, aveva riso sul volto del Cristo). Parsifal, una volta acquisita consapevolezza, celebra l’Eucarestia (che Amfortas non era più in grado di officiare) invocando “Redenzione al Redentore” e salva il Regno dei cavalieri del Gral. Nell’”azione” ci sono incongruenze – ad esempio, come spiegare che in mondo di cavalieri votato alla castità Amfortas sia figlio del vecchio re Titurel e che a sua volta Parsifal diventi padre di Lohengrin? – ma vengono azzerate dal flusso musicale.
Sin dagli schemi del “Lohengrin” si hanno i prolegomeni dell’impalcatura filosofico-religiosa di “Parsifal”, la complessa tela cristiano-buddista venne affinata ne “L’agape degli apostoli” e nelle bozze di due opere progettate da Wagner, ma mai concluse, “I vincitori” (sulla vita di Buddha) e “Gesù di Nazareth”. Wagner fu in grado di affrontare “Parsifal” solamente dopo avere rivoluzionato il pentagramma con “Tristano ed Isotta”: nella “sacra rappresentazione scenica” si giustappongono due mondi – quello diatonico (rivolto anche all’indietro, sino alla polifonia del Palestrina) del mondo del Graal e quello cromatico (lanciato verso l’avvenire, alla dodecafonia) del mondo di Klingsor e di Kundry, dove l’orchestra e le voci passano dalla più squisita dolcezza erotica agli abissi dell’oscenità. Una riflessione: come tutti i capolavori immensi, “Parsifal” affascina anche chi nulla sa né dell’impianto religioso-filosofico né della scrittura musicale. In tre occasioni, mi sono trovato ad invitare persone del tutto ignoranti di cosa vi ci si celasse: un dirigente d’azienda, un giornalista, un giovane assistente di economia applicata. Con l’ausilio dei sovratitoli, sono rimasti inchiodati alla poltrona per circa sei ore (compresi due intervalli), e rapiti dal dramma e dalla musica; al termine, ne avevano afferrato l’essenziale.
In teatro, le difficoltà riguardano non solo l’impervia realizzazione delle “trasfigurazioni” a scena aperta, ma anche le tendenze recenti ad infarcire di sesso un po’ tutte le opere che ne danno l’estro. “Parsifal” –in specie nel secondo atto – vi si presta: già trent’anni fa, allestimenti al pudidondo Metropolitan di New York mostravano il giardino di Klingsor come un bordello. Sulla scia di recenti regie, perché non “épater les bourgeois” trasformando Klingsor in una checca e Kundry in una puttanona, nonché puntando i riflettori sui genitali del giovane, e vergine, protagonista (il quale, nel testo wagneriano, nei primi due atti dovrebbe essere quasi ignudo)? Oppure ancora traducendo in amplessi gli abbracci tra i cavalieri del Gral (dato che vivono in un mondo dove in cui il rapporto con l’altro sesso è causa di patimenti quali quelli di Amfortas) ? Ragioni aggiuntive per salutare esecuzioni in forma di concerto. Tanto più in una Roma dove realizzazioni sceniche del “Parsifal” mancano dal 1984 ed esecuzioni in forma di concerto dal 1994 (o giù di lì).
Nel commentare l’edizione presentata dall’Accademia di Santa Cecilia, con la direzione musicale di Daniele Gatti ed un cast internazionale, occorre prendere l’avvio da un aspetto che può sembrare pedante: esistono diari burocratici delle rappresentazioni del 1882 a Bayreuth sotto gli occhi vigili di Wagner; tali diari determinano i tempi (un’ora e 45 minuti il primo atto, un’ora e 5 minuti il secondo, un’ora e 10 il terzo). Oggidì sono rarissimi i direttori musicali che seguono queste indicazioni: Levine, Kuhn, Thiellman e pochi altri. Con Toscanini – come è noto- il primo atto di “Parsifal” durava due ore e venti minuti. Con Boulez poco più di un’ora e mezzo.
Daniele Gatti dilata i tempi (due ore il primo atto, un’ora ed un quarto il secondo, circa un’ora e mezzo il terzo) dando una lettura filosofica-religiosa al lavoro (come fece, proprio con l’Orchestra di Santa Cecilia Sinopoli circa 13 anni fa). E’ una lettura legittima. Ne preferisco una più sanguigna (come quelle di Karajan, Levine, Ferro) e più sensuale ove non carnale (come quelle di Solti, Tate, Bichkov). L’orchestra ed il coro rispondono in modo eccellente alla direzione musicale di Gatti che affatica, però, quella parte del pubblico che ha meno dimestichezza con quello che possiamo chiamare “il sottostante” del capolavoro. Alla prima rappresentazione, il 19 gennaio, inoltre, si è iniziati con circa mezz’ora di ritardo a ragione dell’indisposizione di un solista: solo wagneriani incalliti restano in teatro dalle 16,30 alla mezzanotte. Di conseguenza, nonostante gli applausi calorosi, dopo il primo atto (terminato alle 19,30) e soprattutto dopo il secondo, molti posti sono rimasti vuoti. Una notazione: la concertazione dilatata di Gatti fa risultare la ricchezza del tessuto orchestrale e l’abilità degli ottoni e dei fiati dell’orchestra dell’Accademia – una vera rarità (come amava dire Sinopoli) nel panorama sinfonico italiano. Eccellenti – come sempre – i due cori.
Veniamo alle voci. Nell’”azione” il protagonista ha un ruolo vocale relativamente limitato – due momenti molto difficili “Amortas!, Die Wunde!, Die Wunde!” e “Nur eine Waffe taught” – ma nel complesso una parte che richiede sforzi inferiori a quelli previsti Gurnemanz, i cui lunghi racconti riempiono gran parte del primo o del terzo atto, o per Amfortas il cui canto sofferente contempla passi davvero terrificanti. Georg Zeppenfeld è un Gurnemanz relativamente giovane; preferirei un timbro più profondo (alla Hans Sotin che di Zeppenfeld è stato il maestro) ma si cala perfettamente nel ruolo e ne regge egregiamente la pesantezza. Detlef Roth (Amfortas) conferma di essere l’erede ideale di Fischer-Dieskau: un Amfortas dal timbro chiaro, dalla vocalità agile, dai legato struggenti e dalla grande versatilità nell’ascendere e nel discendere da tonalità acute. Evelyn Herlitzius è un soprano drammatico (preferisco, nel ruolo, un mezzo-soprano come la Ludwig o la Meier di prima maniera, ma è scelta puramente personale) di grandi capacità vocali: il secondo atto è in gran parte suo. Entra tanto nella parte che si avverte che la manca la rappresentazione scenica. Lucio Gallo è un Klingsor abbastanza efficace, ma non sufficientemente diabolico e corrotto, come vorrebbe il ruolo. E Parsifal? Simon O’Neill, che vedremo nell’”Otello” di Verdi diretto da Muti sia a Salisburgo sia a Roma, non ha né “physique du rôle” né la dizione richiesta, ma è un tenore spinto generoso, dal timbro chiaro e dal buon fraseggio. Un “Parsifal” più da repertorio che da festival.
Puntuali i due gruppi di fanciulle fiori, i quattro scudieri ed i due cavalieri. Su oltre 2500 spettatori, i due terzi in sala sino alla mezzanotte hanno applaudito calorosamente.
Roma, 19 gennaio 2008
Giuseppe Pennisi
LA LOCANDINA
PARSIFAL
Sacra azione per la scena in tre atti
Testo e Musica di Richard Wa Wa Richard Wagner
Parsifal: Simon O'Neill
Kundry: Evelyn Herlitzius
Amfortas: Detlef Roth
Klingsor: Lucio Gallo
Gurnemanz: Georg Zeppenfeld
Titurel: Jaco Huijpen
I Blumenmädchen I gruppo: Julia Borchert
II Blumenmädchen I gruppo: Martina Ruping
III Blumenmädchen I gruppo: Carola Guber
I Blumenmädchen II gruppo: Anna Korondi
II Blumenmädchen II gruppo: Jutta Maria Böhnert
III Blumenmädchen II gruppo: Atala Schöck
I cavaliere: Massimo Simeoli
II cavaliere: Anselmo Fabiani
III cavaliere: Massimiliano Tonsini
IV scudiero: Carlo Putelli
Direttore: Daniele Gatti
Orchestra e Coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretto da Norbert Balatsch
Coro di Voci Bianche dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretto da José Maria Sciutto
PARSIFAL
Sacra azione per la scena in tre atti
Testo e musica di Richard Wagner
Una messa in scena di “Parsifal”, capolavoro estremo a cui Wagner lavorò per circa 35 anni, si scontra con tre difficoltà oggettive: a) le “trasformazioni” a scena aperta in ciascuno dei tre atti ; b) un protagonista con le “physique du rôle”- poco più che adolescente, bello, avvenente, vergine ed innocente sino alla seconda metà del secondo atto, giovane consapevole successivamente dopo avere acquisto conoscenza, coscienza e pietà grazie alla consapevolezza del peccato, c) la rappresentazione del mistero dell’Eucarestia in scena ben due volte, nella seconda metà del primo atto e nel terzo atto.
Le “trasformazioni” possono essere risolte o con scene dipinte – ora non più di uso- come fece lo stesso Wagner a Bayreuth nel 1882 oppure con un palcoscenico altamente tecnologico, disponibile in Italia unicamente alla Scala ed al Carlo Felice. Le “physique du rôle” del protagonista è nodo raramente sciolto in maniera soddisfacente: avrò visto una quarantina di rappresentazioni di “Parsifal” in Europa e negli Usa e il solo interprete veramente credibile (e con la voce appropriata) è stato Peter Hoffmann – la cui stagione, malauguratamente, è durata meno di dieci anni. Il terzo ostacolo (l’Eucarestia sul palcoscenico) è sempre tema delicato e di ardua realizzazione – anche in quanto elemento centrale di una “azione” intensa e drammatica.
Vada, quindi, per le esecuzioni in forma di concerto che consentono non soltanto di superare le difficoltà di realizzazioni scenica ma anche e soprattutto di apprezzare una scrittura orchestrare e vocale di 120 anni fa e molto più moderna di quanto oggi si spaccia per avanguardia.
Due parole sull’”azione”: Parsifal, “puro folle”, cresciuto nella foresta quindi innocente, acquista la conoscenza del mondo quando ha contezza del peccato carnale; riesce così a purificare il Regno del Graal, a curarne il Re Amfortas ferito dal mago Klinsgor (un cavaliere cristiano che si era autocastrato in quanto non in grado di obbedire alla regola della castità). Nel castello di Klingsor, Amfortas era stato attirato da Kundry (donna bellissima e “costretta” da secoli a non morire poiché, sul Golgota, aveva riso sul volto del Cristo). Parsifal, una volta acquisita consapevolezza, celebra l’Eucarestia (che Amfortas non era più in grado di officiare) invocando “Redenzione al Redentore” e salva il Regno dei cavalieri del Gral. Nell’”azione” ci sono incongruenze – ad esempio, come spiegare che in mondo di cavalieri votato alla castità Amfortas sia figlio del vecchio re Titurel e che a sua volta Parsifal diventi padre di Lohengrin? – ma vengono azzerate dal flusso musicale.
Sin dagli schemi del “Lohengrin” si hanno i prolegomeni dell’impalcatura filosofico-religiosa di “Parsifal”, la complessa tela cristiano-buddista venne affinata ne “L’agape degli apostoli” e nelle bozze di due opere progettate da Wagner, ma mai concluse, “I vincitori” (sulla vita di Buddha) e “Gesù di Nazareth”. Wagner fu in grado di affrontare “Parsifal” solamente dopo avere rivoluzionato il pentagramma con “Tristano ed Isotta”: nella “sacra rappresentazione scenica” si giustappongono due mondi – quello diatonico (rivolto anche all’indietro, sino alla polifonia del Palestrina) del mondo del Graal e quello cromatico (lanciato verso l’avvenire, alla dodecafonia) del mondo di Klingsor e di Kundry, dove l’orchestra e le voci passano dalla più squisita dolcezza erotica agli abissi dell’oscenità. Una riflessione: come tutti i capolavori immensi, “Parsifal” affascina anche chi nulla sa né dell’impianto religioso-filosofico né della scrittura musicale. In tre occasioni, mi sono trovato ad invitare persone del tutto ignoranti di cosa vi ci si celasse: un dirigente d’azienda, un giornalista, un giovane assistente di economia applicata. Con l’ausilio dei sovratitoli, sono rimasti inchiodati alla poltrona per circa sei ore (compresi due intervalli), e rapiti dal dramma e dalla musica; al termine, ne avevano afferrato l’essenziale.
In teatro, le difficoltà riguardano non solo l’impervia realizzazione delle “trasfigurazioni” a scena aperta, ma anche le tendenze recenti ad infarcire di sesso un po’ tutte le opere che ne danno l’estro. “Parsifal” –in specie nel secondo atto – vi si presta: già trent’anni fa, allestimenti al pudidondo Metropolitan di New York mostravano il giardino di Klingsor come un bordello. Sulla scia di recenti regie, perché non “épater les bourgeois” trasformando Klingsor in una checca e Kundry in una puttanona, nonché puntando i riflettori sui genitali del giovane, e vergine, protagonista (il quale, nel testo wagneriano, nei primi due atti dovrebbe essere quasi ignudo)? Oppure ancora traducendo in amplessi gli abbracci tra i cavalieri del Gral (dato che vivono in un mondo dove in cui il rapporto con l’altro sesso è causa di patimenti quali quelli di Amfortas) ? Ragioni aggiuntive per salutare esecuzioni in forma di concerto. Tanto più in una Roma dove realizzazioni sceniche del “Parsifal” mancano dal 1984 ed esecuzioni in forma di concerto dal 1994 (o giù di lì).
Nel commentare l’edizione presentata dall’Accademia di Santa Cecilia, con la direzione musicale di Daniele Gatti ed un cast internazionale, occorre prendere l’avvio da un aspetto che può sembrare pedante: esistono diari burocratici delle rappresentazioni del 1882 a Bayreuth sotto gli occhi vigili di Wagner; tali diari determinano i tempi (un’ora e 45 minuti il primo atto, un’ora e 5 minuti il secondo, un’ora e 10 il terzo). Oggidì sono rarissimi i direttori musicali che seguono queste indicazioni: Levine, Kuhn, Thiellman e pochi altri. Con Toscanini – come è noto- il primo atto di “Parsifal” durava due ore e venti minuti. Con Boulez poco più di un’ora e mezzo.
Daniele Gatti dilata i tempi (due ore il primo atto, un’ora ed un quarto il secondo, circa un’ora e mezzo il terzo) dando una lettura filosofica-religiosa al lavoro (come fece, proprio con l’Orchestra di Santa Cecilia Sinopoli circa 13 anni fa). E’ una lettura legittima. Ne preferisco una più sanguigna (come quelle di Karajan, Levine, Ferro) e più sensuale ove non carnale (come quelle di Solti, Tate, Bichkov). L’orchestra ed il coro rispondono in modo eccellente alla direzione musicale di Gatti che affatica, però, quella parte del pubblico che ha meno dimestichezza con quello che possiamo chiamare “il sottostante” del capolavoro. Alla prima rappresentazione, il 19 gennaio, inoltre, si è iniziati con circa mezz’ora di ritardo a ragione dell’indisposizione di un solista: solo wagneriani incalliti restano in teatro dalle 16,30 alla mezzanotte. Di conseguenza, nonostante gli applausi calorosi, dopo il primo atto (terminato alle 19,30) e soprattutto dopo il secondo, molti posti sono rimasti vuoti. Una notazione: la concertazione dilatata di Gatti fa risultare la ricchezza del tessuto orchestrale e l’abilità degli ottoni e dei fiati dell’orchestra dell’Accademia – una vera rarità (come amava dire Sinopoli) nel panorama sinfonico italiano. Eccellenti – come sempre – i due cori.
Veniamo alle voci. Nell’”azione” il protagonista ha un ruolo vocale relativamente limitato – due momenti molto difficili “Amortas!, Die Wunde!, Die Wunde!” e “Nur eine Waffe taught” – ma nel complesso una parte che richiede sforzi inferiori a quelli previsti Gurnemanz, i cui lunghi racconti riempiono gran parte del primo o del terzo atto, o per Amfortas il cui canto sofferente contempla passi davvero terrificanti. Georg Zeppenfeld è un Gurnemanz relativamente giovane; preferirei un timbro più profondo (alla Hans Sotin che di Zeppenfeld è stato il maestro) ma si cala perfettamente nel ruolo e ne regge egregiamente la pesantezza. Detlef Roth (Amfortas) conferma di essere l’erede ideale di Fischer-Dieskau: un Amfortas dal timbro chiaro, dalla vocalità agile, dai legato struggenti e dalla grande versatilità nell’ascendere e nel discendere da tonalità acute. Evelyn Herlitzius è un soprano drammatico (preferisco, nel ruolo, un mezzo-soprano come la Ludwig o la Meier di prima maniera, ma è scelta puramente personale) di grandi capacità vocali: il secondo atto è in gran parte suo. Entra tanto nella parte che si avverte che la manca la rappresentazione scenica. Lucio Gallo è un Klingsor abbastanza efficace, ma non sufficientemente diabolico e corrotto, come vorrebbe il ruolo. E Parsifal? Simon O’Neill, che vedremo nell’”Otello” di Verdi diretto da Muti sia a Salisburgo sia a Roma, non ha né “physique du rôle” né la dizione richiesta, ma è un tenore spinto generoso, dal timbro chiaro e dal buon fraseggio. Un “Parsifal” più da repertorio che da festival.
Puntuali i due gruppi di fanciulle fiori, i quattro scudieri ed i due cavalieri. Su oltre 2500 spettatori, i due terzi in sala sino alla mezzanotte hanno applaudito calorosamente.
Roma, 19 gennaio 2008
Giuseppe Pennisi
LA LOCANDINA
PARSIFAL
Sacra azione per la scena in tre atti
Testo e Musica di Richard Wa Wa Richard Wagner
Parsifal: Simon O'Neill
Kundry: Evelyn Herlitzius
Amfortas: Detlef Roth
Klingsor: Lucio Gallo
Gurnemanz: Georg Zeppenfeld
Titurel: Jaco Huijpen
I Blumenmädchen I gruppo: Julia Borchert
II Blumenmädchen I gruppo: Martina Ruping
III Blumenmädchen I gruppo: Carola Guber
I Blumenmädchen II gruppo: Anna Korondi
II Blumenmädchen II gruppo: Jutta Maria Böhnert
III Blumenmädchen II gruppo: Atala Schöck
I cavaliere: Massimo Simeoli
II cavaliere: Anselmo Fabiani
III cavaliere: Massimiliano Tonsini
IV scudiero: Carlo Putelli
Direttore: Daniele Gatti
Orchestra e Coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretto da Norbert Balatsch
Coro di Voci Bianche dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretto da José Maria Sciutto
WOZZECK
BERG Wozzeck J.Ph: Lafont, R. Decker, A. Kaimbacher, P. Lefebvre, F. Facini, N. Bykov, C.Ruta, F. Lepre, J. Baird, N. Petrisky, C. M. Zanetti.: Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma; Coro di Voci Bianche dell’Arcum, Direzione musicale, Gianluigi Gelmetti , Regia, Scene e Costumi: Giancarlo Del Monaco
Roma, Teatro dell’Opera 19 ottobre 2007
Al Teatro dell’Opera di Roma non si presentava il capolavoro di Berg da oltre 30 anni (ma una buona esecuzione scenica è stata realizzata al Parco della Musica dall’Accademia di Santa Cecilia esattamente quattro anni fa). E’ stata poco accorta la decisione di offrirne un nuovo allestimento – senza dubbio una delle proposte più interessanti della stagione 2007 della fondazione lirica romana – per cinque recite consecutive “fuori abbonamento”, per di più nei giorni in cui si inauguravano varie iniziative musicali (dal festival di Nuova Consonanza alla stagione 2007-2008 dell’Accademia Filarmonica e di quella di Santa Cecilia) e si teneva la Festa del Cinema. Alla prima , il 19 ottobre, gran parte dei palchi erano vuoti e c’erano spazi pure in platea, nonostante la decisione di abbassare drasticamente i prezzi dei biglietti. Gli applausi sono stati calorosi, ma da parte di pochi spettatori. Inadeguati rispetto agli sforzi ed a risultati dei generosi interpreti.
L’allestimento è uno dei migliori visti dell’opera di Berg in Italia negli ultimi anni. Gareggia efficacemente con quello di Jürgen Flimm che verrà riproposto alla Scala in febbraio-marzo 2008 e con quello di Claude d’Anna gustato al Massimo Bellini di Catania nel 1996. Giancarlo Del Monaco ha probabilmente lavorato con un budget limitatissimo: quindi, i 15 quadri della vicenda si svolgono in una scena unica – un grande bunker con pavimento simile a quello di una palestra e numerose botole; il coro (e le danze) , nel quadro dell’osteria (quarto del secondo atto), restano fuori scena; il lago viene lasciato alla nostra immaginazione. Allestimento “povero” ma non banale in quanto nel clima quasi claustrofobico si accentua la parabola di Wozzeck in quanto discesa all’inferno in 15 velocissimi quadri (ciascuno con una sua forma musicale puntuale): l’orgoglio del buon soldato viene umiliato dal Capitano (in una suite in 5 parti); vende (o più crudemente affitta) il proprio corpo perché sia oggetto di esperimenti da parte del Dottore (a tempo di passacaglia); la sua donna (Marie) si fà sedurre dal Tamburmaggiore (in un trascinante rondò); nel piccolo ambiente della caserma e dintorni lo sanno tutti, tranne il più diretto interessato che se ne accorge poco a poco (scherzo e trio); e così via sino all’assassinio di Marie da parte di Wozzeck (in si naturale) ed al suicidio (in cui ad un’invenzione su un accordo segue un’invenzione su una tonalità). La violenza della parabola viene, anche essa, accentuata dalla regia: ad esempio, le scene d’amore non sono erotiche ma violentemente (ed esplicitamente, per quanto consentito in un teatro d’opera) sessuali. Molto curata, in tutti gli aspetti, la recitazione. I 90 minuti vengono rappresentati senza interruzione al fine di non interrompere la tensione ma anzi farla crescere. La “povertà” dell’allestimento lo rende facilmente trasportabile su altri palcoscenici. Mi auguro che questo “Wozzeck” giri, e giri molto. In Italia ed all’estero.
Veniamo alla parte musicale. “Wozzeck” rappresenta per Gianluigi Gelmetti un’occasione importante: esce dal suo repertorio originale che spazia da Rossini al Novecento storico italiano per affrontare una partitura impervia (la prima a Berlino nel 1925 venne preceduta da 137 prove d’orchestra) con grande organico ed orchestra, oltre che in buca, in scena (al Costanzi era accomodata nelle due barcacce, con interessanti effetti stereofonici). I risultati sono stati complessivamente buoni, anche se Gelmetti è stato eccessivamente lirico nelle parti liriche (ad esempio il finale) ed un po’ pesante in altri momenti (ad esempio, la scena degli esperimenti sadici del Dottore – quarto quadro del primo atto). L’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma ha comunque dato una grande prova.
Jean-Philippe Lafont è vocalmente perfetto nei panni del protagonista: sa scivolare abilmente dal melologo, allo sprechensang, agli ariosi ed ai brevi ma intensi duetti con Marie. E’ anche efficace nella recitazione, ma corpulento e non più giovane è poco credibile nel ruolo del soldatino costretto a nutrirsi solo di legumi (per gli esperimenti del Dottore) e, nell’accezione di questo allestimento, di una capacità sessuale chiaramente inferiore a quella del suo rivale Tamburmaggiore. Richard Decker, che proprio a Roma aveva avuto una caduta di stile complessivo (dalla vocalità alla recitazione) in un recente “Tristano e Isotta”, è invece un ottimo Tamburmaggiore , a tutto tondo (dalla voce all’azione scenica). La Marie di Janice Baird non è la povera donna di campagna che, delusa dal soldatino, cade nelle braccia del Tamburmaggiore, ma una Brunilde (uno dei ruoli per cui il soprano drammatico di New York è più noto) assetata di sesso sin dalla prima apparizione in scena; impeccabile sia vocalmente sia scenicamente. La Margret di Natasha Petrinsky è, nella concezione generale dell’allestimento, quasi una prostituta, dal canto volutamente un po’ sguaiato.
Nelle parti minori, merita un economio Alexander Kaimbacher, che ha sostituito il collega inizialmente previsto. E’ un tenore leggero, ancora poco noto in Italia (ma ha impegni con il San Carlo tra breve) che impersona Anders con la scettica innocenza (uno dei paradossi di Berg) appropriata; tenerissimo il suo legato. Pierre Lefebvre e Francesco Facini sono l’arrogante Capitano ed il sadico Dottore; tenorino mellifluo il primo e basso di agilità il secondo – ambedue di buon livello. Bykov, Ruta e Lepre offrono buone caratterizzazioni degli altri. Struggente l’”Hop, hop” finale di Carlo Maria Zanetti.
Roma, Teatro dell’Opera 19 ottobre 2007
Al Teatro dell’Opera di Roma non si presentava il capolavoro di Berg da oltre 30 anni (ma una buona esecuzione scenica è stata realizzata al Parco della Musica dall’Accademia di Santa Cecilia esattamente quattro anni fa). E’ stata poco accorta la decisione di offrirne un nuovo allestimento – senza dubbio una delle proposte più interessanti della stagione 2007 della fondazione lirica romana – per cinque recite consecutive “fuori abbonamento”, per di più nei giorni in cui si inauguravano varie iniziative musicali (dal festival di Nuova Consonanza alla stagione 2007-2008 dell’Accademia Filarmonica e di quella di Santa Cecilia) e si teneva la Festa del Cinema. Alla prima , il 19 ottobre, gran parte dei palchi erano vuoti e c’erano spazi pure in platea, nonostante la decisione di abbassare drasticamente i prezzi dei biglietti. Gli applausi sono stati calorosi, ma da parte di pochi spettatori. Inadeguati rispetto agli sforzi ed a risultati dei generosi interpreti.
L’allestimento è uno dei migliori visti dell’opera di Berg in Italia negli ultimi anni. Gareggia efficacemente con quello di Jürgen Flimm che verrà riproposto alla Scala in febbraio-marzo 2008 e con quello di Claude d’Anna gustato al Massimo Bellini di Catania nel 1996. Giancarlo Del Monaco ha probabilmente lavorato con un budget limitatissimo: quindi, i 15 quadri della vicenda si svolgono in una scena unica – un grande bunker con pavimento simile a quello di una palestra e numerose botole; il coro (e le danze) , nel quadro dell’osteria (quarto del secondo atto), restano fuori scena; il lago viene lasciato alla nostra immaginazione. Allestimento “povero” ma non banale in quanto nel clima quasi claustrofobico si accentua la parabola di Wozzeck in quanto discesa all’inferno in 15 velocissimi quadri (ciascuno con una sua forma musicale puntuale): l’orgoglio del buon soldato viene umiliato dal Capitano (in una suite in 5 parti); vende (o più crudemente affitta) il proprio corpo perché sia oggetto di esperimenti da parte del Dottore (a tempo di passacaglia); la sua donna (Marie) si fà sedurre dal Tamburmaggiore (in un trascinante rondò); nel piccolo ambiente della caserma e dintorni lo sanno tutti, tranne il più diretto interessato che se ne accorge poco a poco (scherzo e trio); e così via sino all’assassinio di Marie da parte di Wozzeck (in si naturale) ed al suicidio (in cui ad un’invenzione su un accordo segue un’invenzione su una tonalità). La violenza della parabola viene, anche essa, accentuata dalla regia: ad esempio, le scene d’amore non sono erotiche ma violentemente (ed esplicitamente, per quanto consentito in un teatro d’opera) sessuali. Molto curata, in tutti gli aspetti, la recitazione. I 90 minuti vengono rappresentati senza interruzione al fine di non interrompere la tensione ma anzi farla crescere. La “povertà” dell’allestimento lo rende facilmente trasportabile su altri palcoscenici. Mi auguro che questo “Wozzeck” giri, e giri molto. In Italia ed all’estero.
Veniamo alla parte musicale. “Wozzeck” rappresenta per Gianluigi Gelmetti un’occasione importante: esce dal suo repertorio originale che spazia da Rossini al Novecento storico italiano per affrontare una partitura impervia (la prima a Berlino nel 1925 venne preceduta da 137 prove d’orchestra) con grande organico ed orchestra, oltre che in buca, in scena (al Costanzi era accomodata nelle due barcacce, con interessanti effetti stereofonici). I risultati sono stati complessivamente buoni, anche se Gelmetti è stato eccessivamente lirico nelle parti liriche (ad esempio il finale) ed un po’ pesante in altri momenti (ad esempio, la scena degli esperimenti sadici del Dottore – quarto quadro del primo atto). L’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma ha comunque dato una grande prova.
Jean-Philippe Lafont è vocalmente perfetto nei panni del protagonista: sa scivolare abilmente dal melologo, allo sprechensang, agli ariosi ed ai brevi ma intensi duetti con Marie. E’ anche efficace nella recitazione, ma corpulento e non più giovane è poco credibile nel ruolo del soldatino costretto a nutrirsi solo di legumi (per gli esperimenti del Dottore) e, nell’accezione di questo allestimento, di una capacità sessuale chiaramente inferiore a quella del suo rivale Tamburmaggiore. Richard Decker, che proprio a Roma aveva avuto una caduta di stile complessivo (dalla vocalità alla recitazione) in un recente “Tristano e Isotta”, è invece un ottimo Tamburmaggiore , a tutto tondo (dalla voce all’azione scenica). La Marie di Janice Baird non è la povera donna di campagna che, delusa dal soldatino, cade nelle braccia del Tamburmaggiore, ma una Brunilde (uno dei ruoli per cui il soprano drammatico di New York è più noto) assetata di sesso sin dalla prima apparizione in scena; impeccabile sia vocalmente sia scenicamente. La Margret di Natasha Petrinsky è, nella concezione generale dell’allestimento, quasi una prostituta, dal canto volutamente un po’ sguaiato.
Nelle parti minori, merita un economio Alexander Kaimbacher, che ha sostituito il collega inizialmente previsto. E’ un tenore leggero, ancora poco noto in Italia (ma ha impegni con il San Carlo tra breve) che impersona Anders con la scettica innocenza (uno dei paradossi di Berg) appropriata; tenerissimo il suo legato. Pierre Lefebvre e Francesco Facini sono l’arrogante Capitano ed il sadico Dottore; tenorino mellifluo il primo e basso di agilità il secondo – ambedue di buon livello. Bykov, Ruta e Lepre offrono buone caratterizzazioni degli altri. Struggente l’”Hop, hop” finale di Carlo Maria Zanetti.
CRISI PIU' CONTROLLABILI SENZA CONFLITTI TRA AUTHORITY
Le crisi finanziarie non hanno solo costi (di solito si avvertono nell’immediato e nel medio termine) ma comportano anche benefici (a più lunga scadenza). Un risultato dei tremori e dei timori causati dalle tensioni innescate dal subprime nei mesi scorsi potrà essere un riassetto (e un miglioramento) della vigilanza finanziaria in Europa (e non solo). E’ stato proprio questo uno degli argomenti centrali della riunione dei Ministri economici e finanziari di Germania, Gran Bretagna, Francia ed Italia svoltasi a Parigi il 17 gennaio. Nelle dichiarazioni alla stampa, ne ha fatto cenno soltanto il Ministro francese Christine Lagarde, ma il dossier è già molto nutrito. Se ne riparlerà ad un nuovo appuntamento questa settimana a Bruxelles, quando i “quattro” incontreranno gli altri 23 Ministri economici e finanziari dell’Ue e successivamente alla riunione dei Capi di Stato e di Governo (dei “quattro”) in programma a Londra il 29 gennaio.
Le ragioni che hanno innescato il dibattito (che coinvolge anche i dicasteri economici di Canada, Giappone ed Usa- l’appuntamento del G7 finanziario è il 9 febbraio a Tokio) sono indicate, tra le righe, dell’indagine trimestrale Bce sulla situazione del mercato del credito in Europa: la credit crunch – l’indagine conclude che 45% degli istituti stanno imponendo condizioni più severe alle imprese ed il 21% alle famiglie- “ha origine nel deterioramento dei mercati finanziari dall’inizio delle tensioni dell’estate scorsa e in un peggioramento della situazione degli istituti”. Tanto a Francoforte, sede della Bce, quanto a Washington si è convinti che i danni si sarebbero potuti contenere (anche se non evitare) se la vigilanza fosse stata più tempestiva e più efficace. Nella capitale americana si pone l’accento sullo scarso coordinamento tra le varie autorità di vigilanza Usa e soprattutto sulla scarsa capacità di quella che avrebbe dovuto effettuarne la regia (il Comptroller of Currency – una direzione generale del Teso Usa) di coordinare Federal Reserve, Fed ed altri. Punti in comune nell’analisi Bce: le autorità di vigilanza nazionali (peraltro organizzate in modo differente da Stato a Stato tra i 15 dell’unione monetaria) si pongono in competizione serrata (con una marcata di rivalità) sia all’interno dei singoli Stati (quando ce ne è più di una) sia nell’ambito dell’area dell’euro. In un caso e nell’altro, le informazioni essenziali per operare arrivano tardi e male. Anche alle agenzie di rating e da esse ai regolatori, ed ai vigilanti.
Quali le soluzioni possibili? Quelle istituzionali-organizzative comportano lunghe procedure parlamentari, come mostrano, ad esempio, i tentativi di riassetto e razionalizzazioni delle authority in Italia. Quindi, l’attenzione è sulle proposte tecniche. Quella che sta destando maggiore attenzione riguarda l’impiego delle riserve obbligatorie per contenere rischi quali quelli derivanti da Siv (Special Investment Vehicles – una degli strumenti principali della finanza strutturata). Un lavoro, ancora inedito, del servizio studi della Federal Reserve mette in rilievo le differenze (e divergenze) nell’ambito Ocse – dove soltanto i 15 dell’unione monetaria hanno regole uniformi. Il messaggio è che un armonizzazione “tecnica” potrebbe essere un passo utile verso un coordinamento del modo di fare vigilanza (e di organizzarla, un giorno, sotto profilo istituzionali simili). Anche al fine di limitare – aggiunge un’analisi dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona che ha destato molta attenzione presso il servizio studi Bce- gli incentivi alla crescita di un mercato finanziario secondario non regolamentato – incentivi che sono molto forti se le maglie delle regolazione sono slabbrate. Non è facile, però, ottimizzare i costi aggiuntivi di maggiori riserve obbligatorie (e della regolazione e vigilanza ad esse attinenti) con i benefici aggiuntivi della riduzione di comportamenti opportunistici di breve periodo che possono recare danni al sistema.
Una serie di proposte articolate sono state delineate negli ultimi mesi da Stephen Cecchetti, a lungo Vice Presidente Esecutivo della Federal Reserve Bank di New York ed ora professore a Brandeis University. Se può leggere il succo nel suo blog (parte della rete “voxeu blog”. www.voxeu.com) in cui viene riportata anche la sintesi in lessico divulgativo di documenti molto tecnici. In breve, Cecchetti (molto ascoltato a Washington) propone che la funzione di vigilanza venga accentrata nella banca centrale (tema di attualità e dibattito molto intenso negli Usa) e che le riserve obbligatorie vengano progressivamente estese per tenere conto dei Siv- il processo sarebbe graduale e prenderebbe l’avvio da una maggiore copertura assicurativa dei depositi.
Non solamente le proposte relative alle riserve obbligatorie sono ad uno stadio iniziale di considerazione ma comportano una vasta gamma di variazioni. L’obiettivo è comunque di utilizzarle come grimaldello per fare cooperare authority i cui comportamenti sono più da rivali che da meri competitori. “Ci sono altri strumenti?”, chiede retoricamente un alto dirigente della Fed.
Mentre queste proposte avranno tempi non brevi per prendere corpo, una, di minore portata, potrebbe già salpare il 9 febbraio a Tokio: far sì che le maggiori agenzie di rating monitorino (e classificano) non solo la qualità del credito ma anche la situazione della liquidità. A Moody’s si starebbero già attrezzando a riguardo (si dice a Bercy, sede del Ministero dell’economia in Francia). Fitch e Standard & Poor non avrebbero ancora reagito all’idea (che nasce nelle “grandes école” d’Oltralpe).
Le ragioni che hanno innescato il dibattito (che coinvolge anche i dicasteri economici di Canada, Giappone ed Usa- l’appuntamento del G7 finanziario è il 9 febbraio a Tokio) sono indicate, tra le righe, dell’indagine trimestrale Bce sulla situazione del mercato del credito in Europa: la credit crunch – l’indagine conclude che 45% degli istituti stanno imponendo condizioni più severe alle imprese ed il 21% alle famiglie- “ha origine nel deterioramento dei mercati finanziari dall’inizio delle tensioni dell’estate scorsa e in un peggioramento della situazione degli istituti”. Tanto a Francoforte, sede della Bce, quanto a Washington si è convinti che i danni si sarebbero potuti contenere (anche se non evitare) se la vigilanza fosse stata più tempestiva e più efficace. Nella capitale americana si pone l’accento sullo scarso coordinamento tra le varie autorità di vigilanza Usa e soprattutto sulla scarsa capacità di quella che avrebbe dovuto effettuarne la regia (il Comptroller of Currency – una direzione generale del Teso Usa) di coordinare Federal Reserve, Fed ed altri. Punti in comune nell’analisi Bce: le autorità di vigilanza nazionali (peraltro organizzate in modo differente da Stato a Stato tra i 15 dell’unione monetaria) si pongono in competizione serrata (con una marcata di rivalità) sia all’interno dei singoli Stati (quando ce ne è più di una) sia nell’ambito dell’area dell’euro. In un caso e nell’altro, le informazioni essenziali per operare arrivano tardi e male. Anche alle agenzie di rating e da esse ai regolatori, ed ai vigilanti.
Quali le soluzioni possibili? Quelle istituzionali-organizzative comportano lunghe procedure parlamentari, come mostrano, ad esempio, i tentativi di riassetto e razionalizzazioni delle authority in Italia. Quindi, l’attenzione è sulle proposte tecniche. Quella che sta destando maggiore attenzione riguarda l’impiego delle riserve obbligatorie per contenere rischi quali quelli derivanti da Siv (Special Investment Vehicles – una degli strumenti principali della finanza strutturata). Un lavoro, ancora inedito, del servizio studi della Federal Reserve mette in rilievo le differenze (e divergenze) nell’ambito Ocse – dove soltanto i 15 dell’unione monetaria hanno regole uniformi. Il messaggio è che un armonizzazione “tecnica” potrebbe essere un passo utile verso un coordinamento del modo di fare vigilanza (e di organizzarla, un giorno, sotto profilo istituzionali simili). Anche al fine di limitare – aggiunge un’analisi dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona che ha destato molta attenzione presso il servizio studi Bce- gli incentivi alla crescita di un mercato finanziario secondario non regolamentato – incentivi che sono molto forti se le maglie delle regolazione sono slabbrate. Non è facile, però, ottimizzare i costi aggiuntivi di maggiori riserve obbligatorie (e della regolazione e vigilanza ad esse attinenti) con i benefici aggiuntivi della riduzione di comportamenti opportunistici di breve periodo che possono recare danni al sistema.
Una serie di proposte articolate sono state delineate negli ultimi mesi da Stephen Cecchetti, a lungo Vice Presidente Esecutivo della Federal Reserve Bank di New York ed ora professore a Brandeis University. Se può leggere il succo nel suo blog (parte della rete “voxeu blog”. www.voxeu.com) in cui viene riportata anche la sintesi in lessico divulgativo di documenti molto tecnici. In breve, Cecchetti (molto ascoltato a Washington) propone che la funzione di vigilanza venga accentrata nella banca centrale (tema di attualità e dibattito molto intenso negli Usa) e che le riserve obbligatorie vengano progressivamente estese per tenere conto dei Siv- il processo sarebbe graduale e prenderebbe l’avvio da una maggiore copertura assicurativa dei depositi.
Non solamente le proposte relative alle riserve obbligatorie sono ad uno stadio iniziale di considerazione ma comportano una vasta gamma di variazioni. L’obiettivo è comunque di utilizzarle come grimaldello per fare cooperare authority i cui comportamenti sono più da rivali che da meri competitori. “Ci sono altri strumenti?”, chiede retoricamente un alto dirigente della Fed.
Mentre queste proposte avranno tempi non brevi per prendere corpo, una, di minore portata, potrebbe già salpare il 9 febbraio a Tokio: far sì che le maggiori agenzie di rating monitorino (e classificano) non solo la qualità del credito ma anche la situazione della liquidità. A Moody’s si starebbero già attrezzando a riguardo (si dice a Bercy, sede del Ministero dell’economia in Francia). Fitch e Standard & Poor non avrebbero ancora reagito all’idea (che nasce nelle “grandes école” d’Oltralpe).
lunedì 21 gennaio 2008
UN PATTO FRANCESE
Il nuovo modello del mercato del lavoro che si sta delineando in Francia merita un’attenta riflessione in Italia principalmente per il metodo con il quale si sta giungendo a dare ad esso corpo. Oltralpe le relazioni industriali non sono molto differenti da quelle che caratterizzano il nostro Paese( e che stanno portando a scontri in materia di metalmeccanica e trasporti). Il nuovo modello non nasce né all’Eliseo, né al Ministero dell’Impiego, né in seno all’Assemblea Nazionale. Non che nell’ultima campagna elettorale, Nicolas Sarkozy e l’Ump non abbiano presentato idee chiare in materia: un percorso verso un rapporto di lavoro unico a tempo indeterminato, ma caratterizzato da un primo periodo di protezione soltanto indennitaria per i licenziamenti derivanti da motivi economico-organizzativi. In tal modo, verrebbe colmato il solco tra i dipendenti a tempo indeterminato e gli altri.
L’ idea non è stata accantonata, ma la politica non è scesa in campo in prima persona. Ha stimolato le parti sociali a giungere ad un accordo che, se portato alle sue logiche conseguenze, equivale a definire un nuovo codice di diritto del lavoro. Non è la prima volta che in Francia viene effettuato un tentativo di questa natura. Lo si era nell’ormai lontano 1984 quando Mitterand desiderava un accordo da lui benedetto ma concluso dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori. Gli esiti furono negativi. Un nuovo tentativo venne fatto nel 1995 (con Chirac all’Eliseo) ma le tematiche lavoristiche vennero associate a quelle previdenziali: dopo settimane di scioperi, si giunse ad un accordo sulla parte previdenziale (per numerose categorie del lavoro dipendente nel settore privato) ma non si sfiorò neppure l’eventualità di un’intesa sui temi attinenti al mercato del lavoro.
C’è voluto tempo ma adesso le parti sociali hanno mostrato grande senso di responsabilità – e la politica grande abilità nel tenersi un passo indietro. Al Medef (la Confidustria francese) bruciavano ancora gli “échecs” (fallimenti del passato): i datori di lavoro hanno fatto concessioni importanti – segnatamente l’accettazione del principio della stabilizzazione progressiva dei percorsi lavoristici, idea adesso alla base del “contract inique” ma formulata inizialmente dal Cgt, il sindacato un tempo costola del Pcf, il partito comunista francese. Dopo la vittoria elettorale della “doite”, i sindacati temevano di andare alla trattativa come a Canossa; a piedi nudi ed con una ciotola in mano. Invece, hanno trovato una piattaforma unitaria (evento raro per le confederazioni francesi) e, soprattutto, realistica nonché guardando all’avvenire non alla difesa dell’esistente. O del passato.
Non rappresenta una lezione di metodo per il “patto per la crescita” che si sta tentando di definire da noi?
L’ idea non è stata accantonata, ma la politica non è scesa in campo in prima persona. Ha stimolato le parti sociali a giungere ad un accordo che, se portato alle sue logiche conseguenze, equivale a definire un nuovo codice di diritto del lavoro. Non è la prima volta che in Francia viene effettuato un tentativo di questa natura. Lo si era nell’ormai lontano 1984 quando Mitterand desiderava un accordo da lui benedetto ma concluso dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori. Gli esiti furono negativi. Un nuovo tentativo venne fatto nel 1995 (con Chirac all’Eliseo) ma le tematiche lavoristiche vennero associate a quelle previdenziali: dopo settimane di scioperi, si giunse ad un accordo sulla parte previdenziale (per numerose categorie del lavoro dipendente nel settore privato) ma non si sfiorò neppure l’eventualità di un’intesa sui temi attinenti al mercato del lavoro.
C’è voluto tempo ma adesso le parti sociali hanno mostrato grande senso di responsabilità – e la politica grande abilità nel tenersi un passo indietro. Al Medef (la Confidustria francese) bruciavano ancora gli “échecs” (fallimenti del passato): i datori di lavoro hanno fatto concessioni importanti – segnatamente l’accettazione del principio della stabilizzazione progressiva dei percorsi lavoristici, idea adesso alla base del “contract inique” ma formulata inizialmente dal Cgt, il sindacato un tempo costola del Pcf, il partito comunista francese. Dopo la vittoria elettorale della “doite”, i sindacati temevano di andare alla trattativa come a Canossa; a piedi nudi ed con una ciotola in mano. Invece, hanno trovato una piattaforma unitaria (evento raro per le confederazioni francesi) e, soprattutto, realistica nonché guardando all’avvenire non alla difesa dell’esistente. O del passato.
Non rappresenta una lezione di metodo per il “patto per la crescita” che si sta tentando di definire da noi?
domenica 20 gennaio 2008
IL MITO DI FAUST E I PERCORSI COMUNI DELLA SCIENZA E DELLE FEDE da L'Occidentale
Il caso – dice un proverbio africano – è eloquente. Per pura coincidenza, mentre nella cultura e nella politica italiana è in corso un dibattito su scienze a Fede tanto accesso da avere punte di forte intolleranza - , vengono messe in scene tre lavori teatrali tratte da ambedue le parti del “Faust” di Wolfang Goethe di cui si può leggere il testo integrale, in tedesco, nella bella collana “I Meridiani” (Mondadori, 1980) con traduzione a fronte di Franco Fortini. E’ un evento perché di norma anche nei Paesi di espressione tedesca di solito si mette in scena l’”Ur-Faust”, la prima breve versione relativa al “patto con il diavolo” dell’anziano scienziato per tornare giovane, nonché alla seduzione di Margherita, al matricidio ed all’infanticidio da lei commessi ed al pentimento e redenzione della giovane donna, lasciando un po’ nella nebbia cosa avverrà al Dottor Faust. Una nebbia così spessa che Hector Berlioz, ispirandosi alla traduzione in francese fatta dal poeta Gérard de Nerval (riguardava solo parte lavoro di Goethe), compose una fantasmagorica “Damnation de Faust” in cui il Dottore finiva nelle fiamme dell’inferno. Nella “seconda parte” del capolavoro di Goethe (8000 versi, includendo il “Prologo in Cielo”, dei 1200 versi complessivi) Faust, lasciato il piccolo mondo di Margherita, va nel grande mondo dell’Impero, viaggia nel passato e nel futuro e ritrova se stesso mettendosi al servizio dell’umanità e della sua modernizzazione. Viene redento proprio perché per la sua opera per gli altri, e perché tramite essa ha ritrovato la Fede.
Veniamo brevemente alle notizie. Sta terminando una tournée di successo di un nuovo adattamento a cura di Dario Del Corno e Glauco Mauri in cui in tre ore si utilizzi tanto la prima quanto la seconda parte del lavoro per trasmettere il significato del lavoro. Quasi in parallelo tanto il Regio di Parma (il 13 gennaio) quanto il Massimo di Palermo (il 23 gennaio) hanno deciso di inaugurare la stagione 2008 con nuovi allestimenti delle due opere in musica – per l’appunto “Mefistofele” di Arrigo Boito e “Szenen aus Goethes Faust” (“Scene dal Faust di Goethe”) di Robert Schumann – che al meglio riguardano ambedue le parti del testo. Due terzi di “Szenen aus Goethes Faust” sono tratte dalla seconda parte – l’amore tra Faust e Margherita è trattato in un duetto di poco più di 5 minuti a cui seguono due numeri musicali sul pentimento della giovane per complessivi 11 minuti, il resto della partitura, circa due ore complessivamente, è dedicato a Faust modernizzatore, alla sua morte pentito e ben 45 minuti all’accettazione in Cielo grazie all’intercessione dell’”eterno femminino”. Un terzo circa del “Mefistofele” di Boito (nella versione definitiva del 1875 – la prima del 1868 terminò un mare di fischi perché durava circa sette ore) si riferisce alla seconda parte ed al Prologo ed all’Epilogo in Cielo. A Parma. la direzione musicale di Donato Renzetti da una lettura monumentale della partitura. Il giovane Marcus Werba (nei tre ruoli di Faust, Pater Seraficus e Doctor Marianus) sovrasta il resto del cast e coglie più dello stesso regista il messaggio di etica cristiana alla base del lavoro di Schumann. Il “Mefistofele” di Palermo si annuncia con un cast di livello (regia di Giancarlo Del Monaco; direzione musicale di Stefano Ranzani; Giuseppe Filianoti, Ferruccio Furlanetto e Dimitra Theodossiou nei ruoli principali).
In altra sede ho trattato del significato della seconda parte di “Faust”, raramente oggetto di drammatizzazione, sotto il profilo della modernizzazione e del servizio al resto dell’umanità. Tanto la modernizzazione quanto il servizio al resto dell’umanità possono essere intesi in una chiave laica – ed anche laicista. Ed i chiave laica li interpreta l’adattamento di Glauco Mauri. Rileggendo, però, i 12.000 versi ed ascoltandone e vedendone le drammatizzazione di Schumann e Boito appare molto forte il nesso tra scienza, modernizzazione, servizio all’umanità e Fede. All’inizio della prima parte, il Dottor Faust scienziato, privo di Fede e chiuso nel mondo dei suoi allievi, trema di fronte alla morte perché avverte l’inutilità della sua opera e di se stesso. Per questo conclude il patto con il diavolo che gli dà una nuova giovinezza ma lo porta ad uccidere Valentino, a sedurre Margherita ed a farle diventare una serial killer. Solo quando, dopo l’esecuzione di Margherita (uno shock per lui analogo alla ferita di Amfortas nel “Parsifal” di Richard Wagner – di cui curiosamente tra dicembre e gennaio si sono programmate un’edizione a Napoli, dal 2 dicembre ed una a Roma, dal 19 gennaio), ha coscienza piena del peccato trova il percorso del riscatto e della redenzione nell’affinare la propria scienza perché datele obiettivi pubblici e sociali (migliorare la sorte del genere umano) possa essere un atto di Fede nell’Alto. In effetti, alla sua morte fisica, Faust sta per essere trascinato all’inferno da Mefistofele e dai lemuri ma il Cielo ne riconosce la grazia grazie all’attività scientifica che lo ho portato ad un Fede implicita molto forte (anche se poco esplicitata).
Interessante ricordare che Schumann non ha mai appartenuto ad alcuna religione cristiana ben definita; l’etica cristiana pervade sia “Szenen aus Goethes Faust” sia le altre sue opere di rilievo che possono essere oggetto di versione scenica (“Manfred”, “Genoveva” e “Das Paradies und die Peri”). Boito invece cresce nel clima della “scapigliatura” milanese, di sinistra e fortemente anti-clericale. Ma tanto in “Mefistofele” quanto in “Nerone” sente una forte attrazione per la Fede – e soprattutto per come la Fede dia senso alla scienza (si pensi, in negativo, al personaggio di Simon Mago in “Nerone”).
Da non pagare: No
20 gennaio 2008 faust fede scienza Cultura Commenta Email Condividi
Veniamo brevemente alle notizie. Sta terminando una tournée di successo di un nuovo adattamento a cura di Dario Del Corno e Glauco Mauri in cui in tre ore si utilizzi tanto la prima quanto la seconda parte del lavoro per trasmettere il significato del lavoro. Quasi in parallelo tanto il Regio di Parma (il 13 gennaio) quanto il Massimo di Palermo (il 23 gennaio) hanno deciso di inaugurare la stagione 2008 con nuovi allestimenti delle due opere in musica – per l’appunto “Mefistofele” di Arrigo Boito e “Szenen aus Goethes Faust” (“Scene dal Faust di Goethe”) di Robert Schumann – che al meglio riguardano ambedue le parti del testo. Due terzi di “Szenen aus Goethes Faust” sono tratte dalla seconda parte – l’amore tra Faust e Margherita è trattato in un duetto di poco più di 5 minuti a cui seguono due numeri musicali sul pentimento della giovane per complessivi 11 minuti, il resto della partitura, circa due ore complessivamente, è dedicato a Faust modernizzatore, alla sua morte pentito e ben 45 minuti all’accettazione in Cielo grazie all’intercessione dell’”eterno femminino”. Un terzo circa del “Mefistofele” di Boito (nella versione definitiva del 1875 – la prima del 1868 terminò un mare di fischi perché durava circa sette ore) si riferisce alla seconda parte ed al Prologo ed all’Epilogo in Cielo. A Parma. la direzione musicale di Donato Renzetti da una lettura monumentale della partitura. Il giovane Marcus Werba (nei tre ruoli di Faust, Pater Seraficus e Doctor Marianus) sovrasta il resto del cast e coglie più dello stesso regista il messaggio di etica cristiana alla base del lavoro di Schumann. Il “Mefistofele” di Palermo si annuncia con un cast di livello (regia di Giancarlo Del Monaco; direzione musicale di Stefano Ranzani; Giuseppe Filianoti, Ferruccio Furlanetto e Dimitra Theodossiou nei ruoli principali).
In altra sede ho trattato del significato della seconda parte di “Faust”, raramente oggetto di drammatizzazione, sotto il profilo della modernizzazione e del servizio al resto dell’umanità. Tanto la modernizzazione quanto il servizio al resto dell’umanità possono essere intesi in una chiave laica – ed anche laicista. Ed i chiave laica li interpreta l’adattamento di Glauco Mauri. Rileggendo, però, i 12.000 versi ed ascoltandone e vedendone le drammatizzazione di Schumann e Boito appare molto forte il nesso tra scienza, modernizzazione, servizio all’umanità e Fede. All’inizio della prima parte, il Dottor Faust scienziato, privo di Fede e chiuso nel mondo dei suoi allievi, trema di fronte alla morte perché avverte l’inutilità della sua opera e di se stesso. Per questo conclude il patto con il diavolo che gli dà una nuova giovinezza ma lo porta ad uccidere Valentino, a sedurre Margherita ed a farle diventare una serial killer. Solo quando, dopo l’esecuzione di Margherita (uno shock per lui analogo alla ferita di Amfortas nel “Parsifal” di Richard Wagner – di cui curiosamente tra dicembre e gennaio si sono programmate un’edizione a Napoli, dal 2 dicembre ed una a Roma, dal 19 gennaio), ha coscienza piena del peccato trova il percorso del riscatto e della redenzione nell’affinare la propria scienza perché datele obiettivi pubblici e sociali (migliorare la sorte del genere umano) possa essere un atto di Fede nell’Alto. In effetti, alla sua morte fisica, Faust sta per essere trascinato all’inferno da Mefistofele e dai lemuri ma il Cielo ne riconosce la grazia grazie all’attività scientifica che lo ho portato ad un Fede implicita molto forte (anche se poco esplicitata).
Interessante ricordare che Schumann non ha mai appartenuto ad alcuna religione cristiana ben definita; l’etica cristiana pervade sia “Szenen aus Goethes Faust” sia le altre sue opere di rilievo che possono essere oggetto di versione scenica (“Manfred”, “Genoveva” e “Das Paradies und die Peri”). Boito invece cresce nel clima della “scapigliatura” milanese, di sinistra e fortemente anti-clericale. Ma tanto in “Mefistofele” quanto in “Nerone” sente una forte attrazione per la Fede – e soprattutto per come la Fede dia senso alla scienza (si pensi, in negativo, al personaggio di Simon Mago in “Nerone”).
Da non pagare: No
20 gennaio 2008 faust fede scienza Cultura Commenta Email Condividi
sabato 19 gennaio 2008
Teatro dell’Opera di Roma TOSCA
Teatro dell’Opera di Roma
Giacomo Puccini
TOSCA
In Italia, il Novecento del teatro in musica viene fatto convenzionalmente iniziare il 14 gennaio 1900, data della prima rappresentazione, al “Costanzi” di Roma (allora chiamato “Teatro Reale dell’Opera”), di “Tosca” di Giacomo Puccini . E’ un’opera molto più complessa di quanto non diano ad intendere le numerose versioni in chiave “popolare” che si susseguono sui palcoscenici italiani e stranieri, specialmente in arene estive all’aperto (dove è molto difficile apprezzare la raffinatezza della scrittura sia vocale sia, soprattutto, orchestrale). Queste edizioni, a torto più che a ragione, pongono l’accento sui lati più facili (le “romanze”, i “duetti”, il grandioso “Te Deum”) mentre l’importanza e le bellezze del lavoro stanno altrove.
In primo luogo, “Tosca” è un vero e proprio “dramma in musica”, serrato come un “libro giallo”, con tanto di colpo di scena finale, imparentato, dunque, con quella sin troppo dimenticata “Fedora” di Umberto Giordano, che solo pochi anni prima era andata in scena al “Lirico” di Milano. In secondo luogo, “Tosca” costituisce l’ingresso di Giacomo Puccini nel verismo; è un verismo tinto da grand-opéra, che prende le distanze dall’intimismo lirico de “La Bohème” e dalla passione erotica di “Manon Lescaut” – le due opere che avevano lanciato il compositore. In terzo luogo, “Tosca” si basa su una ricchissima invenzione musicale ed una prodigiosa orchestrazione (circa 60 temi intrecciati a momenti od impressione oppure ancora ad oggetti, secondo il procedimento wagneriano dei leit-motiv); l’invenzione musicale e l’orchestrazione plasmano parti vocali incalzanti ed interrotte. E’ questo aspetto, più degli altri, ad aprire il sentiero che porta a Debussy, a Strauss a Janaceck- quindi al più grande teatro in musica del Novecento. E’, però, pure l’aspetto meno notato, meno conosciuto e forse meno apprezzato dal pubblico pronto a spellarsi le mani per “Recondita armonia”, “Vissi d’arte” ed “E tacean le stelle”. Un esempio tra i tanti: il ruolo che nell’opera hanno le campane: quattro campane medie che propongono un “ostinato” per 32 battute per lasciare il posto ad un episodio strettamente collegato. Oppure la melodia trionfale che apre l’ultimo atto anticipando, proclamata da quattro corni, il cosiddetto inno latino.
Questi richiami possono sembrare dettagli eruditi che poco hanno a che fare con una recensione. Intendono sottolineare, invece, la difficoltà di mettere in scena un’edizione adeguata di “Tosca” per inaugurare, al tempo stesso, il Teatro dell’Opera della capitale (un teatro il cui cartellone presenta nel 2008 ben 33 titoli tra opere e balletti) e l’anno “pucciniano”, ossia l’anno in cui si celebrano i 150 anni dalla nascita di Giacomo Puccini. Un’impresa temeraria più che una sfida. Ed è un’impresa temeraria che è riuscita benissimo – tanto da fare dimenticare il recente insuccesso de “La Vedova Allegra”.
Per sottolineare la straordinarietà dell’evento, l’inaugurazione della stagione è stata posta in calendario il 14 gennaio, nonostante la data cadesse di lunedì, giornata normalmente di riposo nei teatri lirici. Gli oltre 1800 posti del “Costanzi” erano gremiti; smoking, abiti da sera; autorità dello Stato; decorazioni floreali; “champagne” (italiano) per tutti gli spettatori offerto nel foyer prima dell’inizio dello spettacolo. In breve, l’atmosfera delle grandi occasioni con aspettative tali che un infortunio sarebbe stato tanto più increscioso ed avrebbe destato tanto più clamore mediatico. Non solamente tutto è andato bene ma la rappresentazione è stata interrotta più volte da applausi scroscianti e da richieste di bis (uno dei quali concesso). Ed è stata seguita da circa un quarto d’ora di vere e proprie ovazioni. In breve una serata memorabile per il teatro lirico romano.
Il nuovo allestimento di Franco Zeffirelli ricalca quello, rodatissimo, che per oltre tre lustri, si replica, con successo, al Metropolitan: una visione colossal di una Roma, al tempo stesso, barocca, sensuale e perversa, con una ricostruzione dettagliata (e per certi aspetti “ingrandita”) dei luoghi dei tre atti (Santa Andrea della Valle, Palazzo Farnese, Castel Sant’Angelo). E’ fedele, minuziosamente, al libretto (con piccolissime variazioni nei dettagli: ad esempio, nel primo atto il cavalletto di Cavaradossi è alla destra nel palcoscenico invece che alla sinistra e nel terzo un gioco di ascensori scenici mostra in parallelo la prigione e la terrazza di Castel Sant’Angelo). E’ un allestimento tradizionale nel migliore degli accenti che ha questo aggettivo. Curatissima la recitazione, come è d’uopo in un “dramma in musica”. Piace al pubblico.
Naturalmente, l’attenzione degli spettatori è soprattutto rivolta alle voci. Debutta nel ruolo della protagonista Martina Serafin, soprano austriaco ancora relativamente poco nota in Italia (ha cantato a Bologna in “Lohengrin”, a Palermo in “Genoveva” ed a Catania in “Andrea Chénier”, ma molto famosa in Austria e Germania specialmente per le sue interpretazioni di Strauss e Wagner. La ricordo (oltre che nei ruoli di Elsa e Genoveva) nella parte della Marescialla in un memorabile “Cavaliere della Rosa” a Vienna. Martina Serafini è una Tosca giovane, bella e carica di eros. Ha un temperamento drammatico; quindi, la sua Tosca è meno civettuola di quel che spesso si vede. Ha registro ampio, fraseggio impeccabile e grande abilità nell’ascendere a tonalità alte ed a discenderne. Costruisce , con la recitazione e con la voce, una Tosca molto simile a quella che Zeffirelli diresse a Londra con Maria Callas (pure in quanto i costumi, specialmente quello del secondo atto, assomigliano a quelli dell’edizione al Covent Garden del lontano 1964 di cui resta un filmato in bianco e nero). Oppure alla Tosca di Marilyn Niska (con José Carreras nel ruolo di Cavaradossi) nella New York degli Anni Settanta. Le sono stati richiesti bis al primo e soprattutto al secondo atto (dopo “Vissi d’Arte”) ma non li ha concessi.
Anche il tenore argentino Marcelo Àlvarez debutta nel ruolo di Cavaradossi. E’ conosciuto soprattutto come tenore verdiano e donizettiano; sino ad ora le sue incursioni nel verismo (con l’eccezione dell’intimismo lirico di “La Bohème”) sono state piuttosto rare. E’ un tenore generoso, con un timbro chiaro, una gestione accurata del registro di mezzo e la capacità di tenere a lungo i “do”; pure a lui richieste di bis di cui una concessa (“E lucean le stelle). Tanto Martina Serafin quanto Marcelo Àlvarez non mancano di volume; riempiono con la loro voce il vasto “Costanzi”.
. Scarpia è il quasi 72enne Renato Bruson: ha interpreto il ruolo centinaia di volte e vi si cala a pennello, meritandone applausi pur se la voce si è schiarita molto ed il volume non è pari a quelli di Serafin e Àlvarez. Il suo Barone appare fin troppo umano.
Sotto il profilo musicale, l’aspetto più importante è la concertazione di Gianluigi Gelmetti e la prova data dall’orchestra nello scavare in una scrittura musicale, troppo stesso trattata con un certa approssimazione. Gelmetti dilata i tempi proprio per dare modo di percepire il preziosismo dei 60 temi intrecciati (dimensione spesso trascurata nelle letture correnti).
Questa “Tosca” verrà replicata nel 2008 sino al 27 aprile (in due blocchi di repliche) e probabilmente ripresa nel 2009.
Roma, Teatro dell’Opera, 14 gennaio 2008
Giuseppe Pennisi
· TOSCA
· Opera in tre atti - Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica tratto dal dramma di Victorien Sardou
Musica di Giacomo Puccini
Regia e scene
Franco Zeffirelli
Costumi
Anna Biagiotti
Floria Tosca
Martina Serafin
Mario Cavaradossi
Marcelo Álvarez
Barone Scarpia
Renato Bruson Angelotti
Alessandro Guerzoni Sacrestano
Francesco Facini
Spoletta
Claudio Barbieri
Sciarrone
Fabio Tinalli
Un carceriere
Riccardo Coltellacci
Direzione musicale
Gianluigi Gelmetti
Maestro del Coro
Andrea Giorgi
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera
Coro di voci bianche di Roma dell’Accademia di Santa Cecilia e del Teatro dell’Opera di Roma e del Teatro dell’Opera di Roma diretto da José Maria Sciutto
Giacomo Puccini
TOSCA
In Italia, il Novecento del teatro in musica viene fatto convenzionalmente iniziare il 14 gennaio 1900, data della prima rappresentazione, al “Costanzi” di Roma (allora chiamato “Teatro Reale dell’Opera”), di “Tosca” di Giacomo Puccini . E’ un’opera molto più complessa di quanto non diano ad intendere le numerose versioni in chiave “popolare” che si susseguono sui palcoscenici italiani e stranieri, specialmente in arene estive all’aperto (dove è molto difficile apprezzare la raffinatezza della scrittura sia vocale sia, soprattutto, orchestrale). Queste edizioni, a torto più che a ragione, pongono l’accento sui lati più facili (le “romanze”, i “duetti”, il grandioso “Te Deum”) mentre l’importanza e le bellezze del lavoro stanno altrove.
In primo luogo, “Tosca” è un vero e proprio “dramma in musica”, serrato come un “libro giallo”, con tanto di colpo di scena finale, imparentato, dunque, con quella sin troppo dimenticata “Fedora” di Umberto Giordano, che solo pochi anni prima era andata in scena al “Lirico” di Milano. In secondo luogo, “Tosca” costituisce l’ingresso di Giacomo Puccini nel verismo; è un verismo tinto da grand-opéra, che prende le distanze dall’intimismo lirico de “La Bohème” e dalla passione erotica di “Manon Lescaut” – le due opere che avevano lanciato il compositore. In terzo luogo, “Tosca” si basa su una ricchissima invenzione musicale ed una prodigiosa orchestrazione (circa 60 temi intrecciati a momenti od impressione oppure ancora ad oggetti, secondo il procedimento wagneriano dei leit-motiv); l’invenzione musicale e l’orchestrazione plasmano parti vocali incalzanti ed interrotte. E’ questo aspetto, più degli altri, ad aprire il sentiero che porta a Debussy, a Strauss a Janaceck- quindi al più grande teatro in musica del Novecento. E’, però, pure l’aspetto meno notato, meno conosciuto e forse meno apprezzato dal pubblico pronto a spellarsi le mani per “Recondita armonia”, “Vissi d’arte” ed “E tacean le stelle”. Un esempio tra i tanti: il ruolo che nell’opera hanno le campane: quattro campane medie che propongono un “ostinato” per 32 battute per lasciare il posto ad un episodio strettamente collegato. Oppure la melodia trionfale che apre l’ultimo atto anticipando, proclamata da quattro corni, il cosiddetto inno latino.
Questi richiami possono sembrare dettagli eruditi che poco hanno a che fare con una recensione. Intendono sottolineare, invece, la difficoltà di mettere in scena un’edizione adeguata di “Tosca” per inaugurare, al tempo stesso, il Teatro dell’Opera della capitale (un teatro il cui cartellone presenta nel 2008 ben 33 titoli tra opere e balletti) e l’anno “pucciniano”, ossia l’anno in cui si celebrano i 150 anni dalla nascita di Giacomo Puccini. Un’impresa temeraria più che una sfida. Ed è un’impresa temeraria che è riuscita benissimo – tanto da fare dimenticare il recente insuccesso de “La Vedova Allegra”.
Per sottolineare la straordinarietà dell’evento, l’inaugurazione della stagione è stata posta in calendario il 14 gennaio, nonostante la data cadesse di lunedì, giornata normalmente di riposo nei teatri lirici. Gli oltre 1800 posti del “Costanzi” erano gremiti; smoking, abiti da sera; autorità dello Stato; decorazioni floreali; “champagne” (italiano) per tutti gli spettatori offerto nel foyer prima dell’inizio dello spettacolo. In breve, l’atmosfera delle grandi occasioni con aspettative tali che un infortunio sarebbe stato tanto più increscioso ed avrebbe destato tanto più clamore mediatico. Non solamente tutto è andato bene ma la rappresentazione è stata interrotta più volte da applausi scroscianti e da richieste di bis (uno dei quali concesso). Ed è stata seguita da circa un quarto d’ora di vere e proprie ovazioni. In breve una serata memorabile per il teatro lirico romano.
Il nuovo allestimento di Franco Zeffirelli ricalca quello, rodatissimo, che per oltre tre lustri, si replica, con successo, al Metropolitan: una visione colossal di una Roma, al tempo stesso, barocca, sensuale e perversa, con una ricostruzione dettagliata (e per certi aspetti “ingrandita”) dei luoghi dei tre atti (Santa Andrea della Valle, Palazzo Farnese, Castel Sant’Angelo). E’ fedele, minuziosamente, al libretto (con piccolissime variazioni nei dettagli: ad esempio, nel primo atto il cavalletto di Cavaradossi è alla destra nel palcoscenico invece che alla sinistra e nel terzo un gioco di ascensori scenici mostra in parallelo la prigione e la terrazza di Castel Sant’Angelo). E’ un allestimento tradizionale nel migliore degli accenti che ha questo aggettivo. Curatissima la recitazione, come è d’uopo in un “dramma in musica”. Piace al pubblico.
Naturalmente, l’attenzione degli spettatori è soprattutto rivolta alle voci. Debutta nel ruolo della protagonista Martina Serafin, soprano austriaco ancora relativamente poco nota in Italia (ha cantato a Bologna in “Lohengrin”, a Palermo in “Genoveva” ed a Catania in “Andrea Chénier”, ma molto famosa in Austria e Germania specialmente per le sue interpretazioni di Strauss e Wagner. La ricordo (oltre che nei ruoli di Elsa e Genoveva) nella parte della Marescialla in un memorabile “Cavaliere della Rosa” a Vienna. Martina Serafini è una Tosca giovane, bella e carica di eros. Ha un temperamento drammatico; quindi, la sua Tosca è meno civettuola di quel che spesso si vede. Ha registro ampio, fraseggio impeccabile e grande abilità nell’ascendere a tonalità alte ed a discenderne. Costruisce , con la recitazione e con la voce, una Tosca molto simile a quella che Zeffirelli diresse a Londra con Maria Callas (pure in quanto i costumi, specialmente quello del secondo atto, assomigliano a quelli dell’edizione al Covent Garden del lontano 1964 di cui resta un filmato in bianco e nero). Oppure alla Tosca di Marilyn Niska (con José Carreras nel ruolo di Cavaradossi) nella New York degli Anni Settanta. Le sono stati richiesti bis al primo e soprattutto al secondo atto (dopo “Vissi d’Arte”) ma non li ha concessi.
Anche il tenore argentino Marcelo Àlvarez debutta nel ruolo di Cavaradossi. E’ conosciuto soprattutto come tenore verdiano e donizettiano; sino ad ora le sue incursioni nel verismo (con l’eccezione dell’intimismo lirico di “La Bohème”) sono state piuttosto rare. E’ un tenore generoso, con un timbro chiaro, una gestione accurata del registro di mezzo e la capacità di tenere a lungo i “do”; pure a lui richieste di bis di cui una concessa (“E lucean le stelle). Tanto Martina Serafin quanto Marcelo Àlvarez non mancano di volume; riempiono con la loro voce il vasto “Costanzi”.
. Scarpia è il quasi 72enne Renato Bruson: ha interpreto il ruolo centinaia di volte e vi si cala a pennello, meritandone applausi pur se la voce si è schiarita molto ed il volume non è pari a quelli di Serafin e Àlvarez. Il suo Barone appare fin troppo umano.
Sotto il profilo musicale, l’aspetto più importante è la concertazione di Gianluigi Gelmetti e la prova data dall’orchestra nello scavare in una scrittura musicale, troppo stesso trattata con un certa approssimazione. Gelmetti dilata i tempi proprio per dare modo di percepire il preziosismo dei 60 temi intrecciati (dimensione spesso trascurata nelle letture correnti).
Questa “Tosca” verrà replicata nel 2008 sino al 27 aprile (in due blocchi di repliche) e probabilmente ripresa nel 2009.
Roma, Teatro dell’Opera, 14 gennaio 2008
Giuseppe Pennisi
· TOSCA
· Opera in tre atti - Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica tratto dal dramma di Victorien Sardou
Musica di Giacomo Puccini
Regia e scene
Franco Zeffirelli
Costumi
Anna Biagiotti
Floria Tosca
Martina Serafin
Mario Cavaradossi
Marcelo Álvarez
Barone Scarpia
Renato Bruson Angelotti
Alessandro Guerzoni Sacrestano
Francesco Facini
Spoletta
Claudio Barbieri
Sciarrone
Fabio Tinalli
Un carceriere
Riccardo Coltellacci
Direzione musicale
Gianluigi Gelmetti
Maestro del Coro
Andrea Giorgi
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera
Coro di voci bianche di Roma dell’Accademia di Santa Cecilia e del Teatro dell’Opera di Roma e del Teatro dell’Opera di Roma diretto da José Maria Sciutto
SENZA CARTOLARIZZAZIONI NON RESTA CHE IL FONDO SOVRANO
Tra le vittime della crisi del subprime c’è una vittima molto importante: la cartolarizzazione. Questo strumento, nato negli Anni 70 ed è diventato uno dei protagonisti della finanza internazionale. I dati sono eloquenti. Negli Stati Uniti (dove i subprime hanno fatto più male) ed in Europa, mentre nel 2006 sono stati emesse titolarizzazioni per 1200 miliardi di dollari. Tuttavia, i dati preliminari per il 2007, che indicano che non più di 800 miliardi e, aspetto ancora più significativo, per appena 90 miliardi nel quarto trimestre, sono tali da far suonare un campanello d’allarme. E quel che è peggio, le prospettive per l’anno appena iniziato sono tutt’altro chr incoraggianti. Se Barclays Capital stima una contrazione del 43% (rispetto al 2007) nel mercato europeo ed una del 39% in quello americano, nel Vecchio Continente non manca chi addirittura si attende un prosciugamento di queste operazioni . Quali le conseguenze per i mercati finanziari e per le economie reali?
In una prima fase (sino alla fine degli Anni 90), le opinioni sulle cartolarizzazioni sono state divergenti. Una scuola di pensiero la ha considerate come un’opportunità non solo per avere maggiori investimenti ma anche per una loro migliore allocazione. Altri (ad esempio Robert Shiller della Università di Yale) le hanno viste come elemento della “esuberanza irrazionale” che ho portato gli indici azionari a livelli molto elevati, accentuandone al tempo stesso la volatilità. Ma negli ultimi anni, invece, si è formata una maggiore convergenza sui benefici (anche per l’economia reale) della titolarizzazione. Anche in Italia, Paese non certo all’avanguardia dell’innovazione finanziaria, alcuni studiosi sono giunti alla conclusione che questo strumento può offrire, in certe condizioni, un contributo importante alla stabilizzazione finanziaria ed al mantenimento di obiettivi macro-economici come quelli del “patto di crescita e di stabilità” alla base dell’unione monetaria. Un lavoro (in corso di pubblicazione) della Banca d’Italia, della Bce e della Università del Galles , dopo avere analizzato un vasto campione di istituti di credito europei, conclude che la titolarizzazione ha posto le banche “al riparo degli effetti di breve periodo delle politiche monetarie” e “rafforzato la loro capacità di espandere il credito”. Quindi, se lo strumento si rinsecchisce, ci possono implicazioni non soltanto sui mercati ma anche sull’economia reale. Secondo la Bce, se le titolarizzazioni si dimezzano, questo potrebbe ridurre del 10-15% il tasso di investimento. Di conseguenza, il tasso di crescita nell’area dell’euro potrebbe porre più vicino ad all’1,6% che all’1.9% ora stimato dai 20 maggiori centri internazionali di previsioni econometriche.
Si profila, però, un’ipotesi – la indicano, separatamente, i servizi studi dell’Ubs e della Pimco, uno dei maggiori gestori di reddito fisso (720 miliardi di dollari gestiti in fondi obbligazionari)- e cioè che a questo punto entrerebbero in gioco i fondi sovrani di nuove aree emergenti. Il problema è che la guida di tali strumenti è di natura politica ed è ancora molto difficile stabilire in che misura i fondi sovrani riusciranno a sostituire le cartolarizzazioni quale strumento di allocazione delle risorse.
In una prima fase (sino alla fine degli Anni 90), le opinioni sulle cartolarizzazioni sono state divergenti. Una scuola di pensiero la ha considerate come un’opportunità non solo per avere maggiori investimenti ma anche per una loro migliore allocazione. Altri (ad esempio Robert Shiller della Università di Yale) le hanno viste come elemento della “esuberanza irrazionale” che ho portato gli indici azionari a livelli molto elevati, accentuandone al tempo stesso la volatilità. Ma negli ultimi anni, invece, si è formata una maggiore convergenza sui benefici (anche per l’economia reale) della titolarizzazione. Anche in Italia, Paese non certo all’avanguardia dell’innovazione finanziaria, alcuni studiosi sono giunti alla conclusione che questo strumento può offrire, in certe condizioni, un contributo importante alla stabilizzazione finanziaria ed al mantenimento di obiettivi macro-economici come quelli del “patto di crescita e di stabilità” alla base dell’unione monetaria. Un lavoro (in corso di pubblicazione) della Banca d’Italia, della Bce e della Università del Galles , dopo avere analizzato un vasto campione di istituti di credito europei, conclude che la titolarizzazione ha posto le banche “al riparo degli effetti di breve periodo delle politiche monetarie” e “rafforzato la loro capacità di espandere il credito”. Quindi, se lo strumento si rinsecchisce, ci possono implicazioni non soltanto sui mercati ma anche sull’economia reale. Secondo la Bce, se le titolarizzazioni si dimezzano, questo potrebbe ridurre del 10-15% il tasso di investimento. Di conseguenza, il tasso di crescita nell’area dell’euro potrebbe porre più vicino ad all’1,6% che all’1.9% ora stimato dai 20 maggiori centri internazionali di previsioni econometriche.
Si profila, però, un’ipotesi – la indicano, separatamente, i servizi studi dell’Ubs e della Pimco, uno dei maggiori gestori di reddito fisso (720 miliardi di dollari gestiti in fondi obbligazionari)- e cioè che a questo punto entrerebbero in gioco i fondi sovrani di nuove aree emergenti. Il problema è che la guida di tali strumenti è di natura politica ed è ancora molto difficile stabilire in che misura i fondi sovrani riusciranno a sostituire le cartolarizzazioni quale strumento di allocazione delle risorse.
L’ITALIA NEL CAOS NON DA FIDUCIA AGLI INVESTITORI Da L'Occidentale del 18 gennaio
E’ chiaro che per l’opinione pubblica internazionale (quale si può toccare con mano sfogliando i quotidiani ed i periodici del resto del mondo) l’Italia ha tutte le caratteristiche di un Paese nel caos pieno e totale: dopo giorni in cui le prime pagine sono state inondate da foto ed articolo sulla crisi delle immondizie, i titoli hanno puntato sull’intolleranza che impedisce al Papa (al tempo stesso Capo di uno Stato straniero e Guida spirituale di una delle maggiori religioni) di portare un messaggio di tolleranza tra scienza e Fede in una delle maggiori università della Repubblica e, subito dopo, giungono le notizie delle dimissioni del Ministro della Giustizia, dell’arresto di sua moglie, di suoi congiunti e di leader del suo partito, nonché della pronuncia della Corte Costituzionale in materia di un referendum che Prodi & Co. avrebbero voluto evitare.
Mentre molti commentatori si sono soffermati sulla gravissima caduta di immagine (e di peso) internazionale del Paese, pochi hanno affrontare cosa ciò significa in termini di finanza internazionale e di finanza pubblica. La settimana scorso si è verificato un evento che non ha connessione con il caos in cui è stato posto il Paese ma le cui conseguenze lo faranno sentire ancora più pesante: il decoupling (per utilizzare un termine tecnico) della politica monetaria attraverso l’Atlantico. In breve, dalla nascita dell’euro nel maggio 1998, le relazioni monetarie dei Paesi atlantici (Ue, Usa, Canada) sono state rette da una “intesa cordiale” tra Federal Reserve e Banca centrale europea (Bce). Nonostante la crescita dei mercati e della finanza asiatica – ricordiamolo- l’Atlantico e la sua finanza restano saldamente il perno del sistema mondiale. Giovedì 10 gennaio, la Bce ha inviato segnati forti ed eloquenti di preoccupazioni crescenti nei confronti dell’inflazione (e, quindi, di possibile aumento dei tassi d’interesse), mentre proprio lo stesso giorno il Presidente della Federal Reserve ha indicato la propria disponibilità a ridurre i tassi per timore dell’avvicinarsi di una recessione. Annunci dello stesso tenore sono continuati nei giorni seguenti: il 16 gennaio, la pubblicazione del beige book sullo stato dell’economia americana è stata accompagnata di avvertimenti che i tassi Usa sarebbero stati ridotti alla prossima riunione del Comitato sul Mercato Aperto della Federal Reserve, in calendario per il 29-30 gennaio. Secondo alcune voce raccolte a Washington nella notte (ore italiane), la riunione ed il ribasso dei tassi potrebbero essere, in via straordinaria, anticipati all’inizio della settimana prossima. Il nodo è complesso: da un lato, le autorità monetaria delle due aree (dollaro, euro) percepiscono in modo differente le esigenze delle due zone; da un altro, le esportazioni dell’Europa alla volta dell’Asia sono correlate, almeno indirettamente, alla domanda finale negli Usa, il cui rallentamento (e peggio recessione) colpirebbe, quindi, due volte l’Europa (e direttamente riducendo la domanda americana di merci europee e indirettamente riducendo quella asiatica).
Al di là di queste considerazioni macro-economiche, che implicano una decelerazione dell’economia europea ed italiana (di cui L’Occidentale tratta da mesi) - sancita questa settimana dal Bollettino della Banca d’Italia - ci sono implicazioni microeconomiche e finanziarie significative. L’intesa cordiale atlantica comportava per le due aree monetarie (ed i singoli Paesi membri) paratie maggiori di quelle che derivano dal decoupling. In termini semplificati, se fossimo con la vecchia liretta, il caos politico di questi giorni avrebbe portato ad una svalutazione analoga a quella del 17 settembre 1992(e forse anche peggiore): la corazza dell’euro, rafforzata dalla corazza atlantica, lo hanno impedito. Non possono, però, impedire né una fuga di investimenti sia diretti sia in portafoglio dall’Italia verso lidi più sereni né un aumento del differenziale del costo del credito in Italia rispetto ad altri Paesi della stessa area dell’euro (in termini tecnici, lo spread). Un interessante analisi nell’ultimo bollettino trimestrale della Bank of England ( di cui L’Occidentale fornisce riferimenti e link) sottolinea come lo spread per obbligazioni denominate in dollari Usa, sterlina ed euro si sia ridotto in misura significativa tra la fine del 2002 e la metà del 2007 per ricominciare ad allargarsi (anche tra emissioni in euro di differenti Paesi) l’estate scorsa in parallelo con la turbolenza finanziaria collegata ai mutui a rischio elevato (in gergo, subprime) . Quindi le difese, per così dire, si erano già abbassate prima del decoupling.
Al Tesoro ne preoccupano dallo scorso settembre. Ma non potevano immaginare che il mese di gennaio sarebbe stato caratterizzato da un caos come quello di questi giorni. E che in parallelo giungessero dati sull’aumento dello stock del debito pubblico e, quindi, del costo del suo servizio.
Prodi è inquieto per la Caporetto politica. TPS (tanto appassionato della Francia) per la Verdun finanziaria.
LEWIS WEBBER, Bank of EnglandEmail: lewis.webber@bankofengland.co.uk "Decomposing Corporate Bond Spreads" Bank of England Quarterly Bulletin, 2007
Mentre molti commentatori si sono soffermati sulla gravissima caduta di immagine (e di peso) internazionale del Paese, pochi hanno affrontare cosa ciò significa in termini di finanza internazionale e di finanza pubblica. La settimana scorso si è verificato un evento che non ha connessione con il caos in cui è stato posto il Paese ma le cui conseguenze lo faranno sentire ancora più pesante: il decoupling (per utilizzare un termine tecnico) della politica monetaria attraverso l’Atlantico. In breve, dalla nascita dell’euro nel maggio 1998, le relazioni monetarie dei Paesi atlantici (Ue, Usa, Canada) sono state rette da una “intesa cordiale” tra Federal Reserve e Banca centrale europea (Bce). Nonostante la crescita dei mercati e della finanza asiatica – ricordiamolo- l’Atlantico e la sua finanza restano saldamente il perno del sistema mondiale. Giovedì 10 gennaio, la Bce ha inviato segnati forti ed eloquenti di preoccupazioni crescenti nei confronti dell’inflazione (e, quindi, di possibile aumento dei tassi d’interesse), mentre proprio lo stesso giorno il Presidente della Federal Reserve ha indicato la propria disponibilità a ridurre i tassi per timore dell’avvicinarsi di una recessione. Annunci dello stesso tenore sono continuati nei giorni seguenti: il 16 gennaio, la pubblicazione del beige book sullo stato dell’economia americana è stata accompagnata di avvertimenti che i tassi Usa sarebbero stati ridotti alla prossima riunione del Comitato sul Mercato Aperto della Federal Reserve, in calendario per il 29-30 gennaio. Secondo alcune voce raccolte a Washington nella notte (ore italiane), la riunione ed il ribasso dei tassi potrebbero essere, in via straordinaria, anticipati all’inizio della settimana prossima. Il nodo è complesso: da un lato, le autorità monetaria delle due aree (dollaro, euro) percepiscono in modo differente le esigenze delle due zone; da un altro, le esportazioni dell’Europa alla volta dell’Asia sono correlate, almeno indirettamente, alla domanda finale negli Usa, il cui rallentamento (e peggio recessione) colpirebbe, quindi, due volte l’Europa (e direttamente riducendo la domanda americana di merci europee e indirettamente riducendo quella asiatica).
Al di là di queste considerazioni macro-economiche, che implicano una decelerazione dell’economia europea ed italiana (di cui L’Occidentale tratta da mesi) - sancita questa settimana dal Bollettino della Banca d’Italia - ci sono implicazioni microeconomiche e finanziarie significative. L’intesa cordiale atlantica comportava per le due aree monetarie (ed i singoli Paesi membri) paratie maggiori di quelle che derivano dal decoupling. In termini semplificati, se fossimo con la vecchia liretta, il caos politico di questi giorni avrebbe portato ad una svalutazione analoga a quella del 17 settembre 1992(e forse anche peggiore): la corazza dell’euro, rafforzata dalla corazza atlantica, lo hanno impedito. Non possono, però, impedire né una fuga di investimenti sia diretti sia in portafoglio dall’Italia verso lidi più sereni né un aumento del differenziale del costo del credito in Italia rispetto ad altri Paesi della stessa area dell’euro (in termini tecnici, lo spread). Un interessante analisi nell’ultimo bollettino trimestrale della Bank of England ( di cui L’Occidentale fornisce riferimenti e link) sottolinea come lo spread per obbligazioni denominate in dollari Usa, sterlina ed euro si sia ridotto in misura significativa tra la fine del 2002 e la metà del 2007 per ricominciare ad allargarsi (anche tra emissioni in euro di differenti Paesi) l’estate scorsa in parallelo con la turbolenza finanziaria collegata ai mutui a rischio elevato (in gergo, subprime) . Quindi le difese, per così dire, si erano già abbassate prima del decoupling.
Al Tesoro ne preoccupano dallo scorso settembre. Ma non potevano immaginare che il mese di gennaio sarebbe stato caratterizzato da un caos come quello di questi giorni. E che in parallelo giungessero dati sull’aumento dello stock del debito pubblico e, quindi, del costo del suo servizio.
Prodi è inquieto per la Caporetto politica. TPS (tanto appassionato della Francia) per la Verdun finanziaria.
LEWIS WEBBER, Bank of EnglandEmail: lewis.webber@bankofengland.co.uk "Decomposing Corporate Bond Spreads" Bank of England Quarterly Bulletin, 2007
LE TROPPE TASSE E LA LIBERTA’ (ANCHE DI FEDE) DEGLI ITALIANI DA LIBERO MERCATO DEL 19 GENNAIO
L’Indice della Libertà Economica della Heritage Foundation ci pone al 64simo posto su 157 Paesi, come ha documentato Libero Mercato del 16 gennaio. In settembre, un indicatore analogo, del Fraser Instituto, ci aveva messo al 52simo posto su 141 Paesi. Il significato non cambia: le restrizioni alla libertà economica – ce ho detto la Bce- sono alla base del bassissimo tasso di crescita potenziale (uno degli ultimi nell’Ocse) dell’economia italiana. Non muta neanche il ruolo del carico tributario (e della ragnatela regolatoria) nei vincoli alla libertà economica. Anche perché si coniuga con quello che in un libro di successo Pascal Salin chiama “L’arbitraire fiscal”, l’arbitrio fiscale.
Tale arbitrio è stato il tema sottostante degli interventi (dalla prolusione di Franco Reviglio a quelli di dirigenti delle Agenzie fiscali) alla cerimonia tenuta il 15 gennaio, alla presenza di VVV (Viceministro Vincenzo Visco), per la consegna dei diplomi della prima edizione del master in economia dei tributi e l’inizio della seconda presso la Scuola Superiore di Economia e Finanza (Ssef). Da un lato, la prolusione di Reviglio – il tema era la lotta all’evasione ed all’elusione (croce e delizia di VVV) – ha documentato che il bicchiere è mezzo vuoto. VVV in persona ha citato dati impressionanti sull’evasione (ma chi ha avuto la guida del dicastero sia in questi ultimi anni sia in gran parte della XIV legislatura?). Da un altro ancora, è stato messo in rilievo come misure anti-evasione e oneri fiscali gravino principalmente sui dipendenti (tramite la ritenuta alla fonte); l’aumento delle sanzioni (nelle ultime due finanziarie) fa sì che contribuenti a reddito medio basso abbiano subito perfino il sequestro della casa per errori materiali di poche centinaia di euro. E’ questa una corretta politica sociale a difesa dei ceti meno abbienti, il cui numero – come dicono indagini di questi giorni – si sta rapidamente allargando?
Tutti predicano (VVV in primo luogo) l’urgenza di stabilire un corretto rapporto tra fisco e contribuenti. VVV ammette che il carico fiscale è troppo alto, rispetto a tutti gli altri Paesi Ocse, se comparato con il corrispettivo in servizi, ma aggiunge che la macchini tributaria deve finanziare 5 punti percentuali del pil destinati non a servizi ai cittadini ed alle imprese, ma a finanziare lo stock di debito pubblico e le pensioni poiché smaltimento del debito e previdenza sono pari a 5 punti percentuali del pil superiori alla media Ocse. Ma – chiediamoci (e domandiamo a VVV)- chi ha condotto le politiche alla base del debito pubblico e chi ha fatto, nella recente legge sullo stato sociale, la contro-riforma della previdenza?
Ormai si è andati oltre l’arbitrio. Si sono intaccati valori fondamentali che altre vicende di questi giorni dimostrano profondi negli italiani (e non solo): quelli dei rapporti con le Fedi. Un saggio di Robert McGee della Barry University riprende la tesi del biblista Martin Crowe, il quale ha esaminato, negli Anni 40, cinque secoli di dibattito teologico e filosofico (oltre che economico) sul tema. In “The moral obligation of paying just taxes” difende l’evasione fiscale partendo da presupposti etici e religiosi su quanto è giusto dare a Cesare e quanto a Dio. Venticinque recenti indagini empiriche nei Paesi industriali ad economia di mercato concludono che molte anime pie sono d’accordo con Crowe. Intervengono pure i rabbini: un saggio di Adaman Chodorow dell’Università dell’Arizona precisa che in questa materia, per gli ebrei i precetti di Dio sono più importanti di quelli degli uomini. Uno dei massimi esperti del pensiero economico dell’Islam, Timor Curan dell’Università della California giunge a conclusioni ancora più severe sul massimo della pressione fiscale tollerato da Allah. A questo punto più di una marcia indietro qualcuno dovrebbe fare un viaggio a Canossa – e come Enrico IV attendere, nudo al freddo ed al gelo, il perdono. Dei contribuenti.
Tale arbitrio è stato il tema sottostante degli interventi (dalla prolusione di Franco Reviglio a quelli di dirigenti delle Agenzie fiscali) alla cerimonia tenuta il 15 gennaio, alla presenza di VVV (Viceministro Vincenzo Visco), per la consegna dei diplomi della prima edizione del master in economia dei tributi e l’inizio della seconda presso la Scuola Superiore di Economia e Finanza (Ssef). Da un lato, la prolusione di Reviglio – il tema era la lotta all’evasione ed all’elusione (croce e delizia di VVV) – ha documentato che il bicchiere è mezzo vuoto. VVV in persona ha citato dati impressionanti sull’evasione (ma chi ha avuto la guida del dicastero sia in questi ultimi anni sia in gran parte della XIV legislatura?). Da un altro ancora, è stato messo in rilievo come misure anti-evasione e oneri fiscali gravino principalmente sui dipendenti (tramite la ritenuta alla fonte); l’aumento delle sanzioni (nelle ultime due finanziarie) fa sì che contribuenti a reddito medio basso abbiano subito perfino il sequestro della casa per errori materiali di poche centinaia di euro. E’ questa una corretta politica sociale a difesa dei ceti meno abbienti, il cui numero – come dicono indagini di questi giorni – si sta rapidamente allargando?
Tutti predicano (VVV in primo luogo) l’urgenza di stabilire un corretto rapporto tra fisco e contribuenti. VVV ammette che il carico fiscale è troppo alto, rispetto a tutti gli altri Paesi Ocse, se comparato con il corrispettivo in servizi, ma aggiunge che la macchini tributaria deve finanziare 5 punti percentuali del pil destinati non a servizi ai cittadini ed alle imprese, ma a finanziare lo stock di debito pubblico e le pensioni poiché smaltimento del debito e previdenza sono pari a 5 punti percentuali del pil superiori alla media Ocse. Ma – chiediamoci (e domandiamo a VVV)- chi ha condotto le politiche alla base del debito pubblico e chi ha fatto, nella recente legge sullo stato sociale, la contro-riforma della previdenza?
Ormai si è andati oltre l’arbitrio. Si sono intaccati valori fondamentali che altre vicende di questi giorni dimostrano profondi negli italiani (e non solo): quelli dei rapporti con le Fedi. Un saggio di Robert McGee della Barry University riprende la tesi del biblista Martin Crowe, il quale ha esaminato, negli Anni 40, cinque secoli di dibattito teologico e filosofico (oltre che economico) sul tema. In “The moral obligation of paying just taxes” difende l’evasione fiscale partendo da presupposti etici e religiosi su quanto è giusto dare a Cesare e quanto a Dio. Venticinque recenti indagini empiriche nei Paesi industriali ad economia di mercato concludono che molte anime pie sono d’accordo con Crowe. Intervengono pure i rabbini: un saggio di Adaman Chodorow dell’Università dell’Arizona precisa che in questa materia, per gli ebrei i precetti di Dio sono più importanti di quelli degli uomini. Uno dei massimi esperti del pensiero economico dell’Islam, Timor Curan dell’Università della California giunge a conclusioni ancora più severe sul massimo della pressione fiscale tollerato da Allah. A questo punto più di una marcia indietro qualcuno dovrebbe fare un viaggio a Canossa – e come Enrico IV attendere, nudo al freddo ed al gelo, il perdono. Dei contribuenti.
I PENSIERI PARIGINI DEL PRIVATIZZATORE “MANQUE’”
Nei brevi (ed ormai sempre più rari) soggiorni parigini, il Ministro dell’Economia e delle Finanze Tommaso Padoa-Schioppa (TPS per la stampa) ama riflettere mentre passeggia, anche nella bruma, tra Place de Ternes ed il Parc Monceaux. Le riflessioni più recenti riguardano il suo disappunto per essere un “privatizzare manqué” (in francese, parafrasando un titolo di Françoise Sagan, l’aggettivo è, al tempo stesso, più elegante e più tagliente dell’italiano “mancato”). Le relazioni al Parlamento sulle privatizzazioni del 2006 e del 2007 erano prive sia di pagine (pochissime) che di contenuti (nulli o quasi). TPS spera che la relazione del 2008, da presentare prima dell’estate, possa descrivere “la madre di tutte le privatizzazioni” (della seconda ondata)- quella di Alitalia. Ma non ci può contare- dati i tempi della trattativa in corso e l’eventualità che non vada a buon fine. Un saggio teorico di Alvin Ang e Masathosi Yamada , appena apparso sulla “Review of Development Economics” gli ricorda le virtù del denazionalizzare (in Francia si dice così). Un lavoro di John Nellis, pubblicato dal Global Development, gli mostra quanto stiano facendo gli altri – pure quella Spagna che si gloria , forse a sproposito, di averci sorpassato – in settori non solo tipici di aziende e servizi di interesse pubblico ma anche fornitori di beni sociali (come la scuola).Un analisi di James Bang dell’Università dell’Illinois, sul trimestrale “Economic Systems”, gli fa presente che per la madre della seconda ondata di privatizzazioni (quella dell’Alitalia) non è stato seguito un percorso efficiente. Tutti scritti, in breve, che fanno bruciare ancora di più le ferite di privatizzatore “manquè”.
Pare tirargli su il morale un saggio di José Gomez Ibanez sulle “alternative alle privatizzazioni” edito come World Bank Policy Research Working Paper No. 4391; nello studio viene condotto un esame retrospettivo dei risultati di una prima fase del processo di riforma delle imprese a partecipazione statale dall’inizio degli Anni 60 alla metà degli Anni 80. Allora l’accento era sul miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia delle aziende non sulla natura della loro proprietà e controllo (se pubblica o privata o mista): questi forzi hanno avuto modesto successo ma se ne possono trarre lezioni utile per le infrastrutture ancora in mano pubblica. TPS pensa immediatamente alle ferrovie ed Anas. Se non sarà un privatizzatore, potrà quanto meno essere un riorganizzatore.
Pare tirargli su il morale un saggio di José Gomez Ibanez sulle “alternative alle privatizzazioni” edito come World Bank Policy Research Working Paper No. 4391; nello studio viene condotto un esame retrospettivo dei risultati di una prima fase del processo di riforma delle imprese a partecipazione statale dall’inizio degli Anni 60 alla metà degli Anni 80. Allora l’accento era sul miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia delle aziende non sulla natura della loro proprietà e controllo (se pubblica o privata o mista): questi forzi hanno avuto modesto successo ma se ne possono trarre lezioni utile per le infrastrutture ancora in mano pubblica. TPS pensa immediatamente alle ferrovie ed Anas. Se non sarà un privatizzatore, potrà quanto meno essere un riorganizzatore.
IL GOVERNO DEL DECLINO DA FORMICHE GENNAIO
Chiunque avrà responsabilità di Governo in Europa (e soprattutto in Italia) nei prossimi anni avrà come suo compito principale non tanto un ipotetico rilancio dello sviluppo (dopo quindici anni di crescita rasoterra) quanto quello del governo del declino. Il governo del declino è preliminare a qualsivoglia politica di crescita poiché soltanto governando i processi in atto (che comportano inevitabilmente un ridimensionamento del peso e del ruolo dell’Europa nell’economia internazionale) si possono individuare (e potenziale) le leve di uno sviluppo di lungo periodo.
Vastissima la letteratura sul declino (specialmente divulgativa) negli ultimi tempi. Chiarissima (e non di parte) l’analisi del Premio Nobel Roberto Fogel: il nucleo più avanzato dell’Ue – ossia l’Ue a 15, non a 27 – non riuscirebbe, dal 2000 al 2040, a stare al passo con la crescita dell’Asia- nel 2040 l’economia cinese raggiungerebbe i 123 milioni di miliardi di dollari (a tassi di cambio e potere d’acquisto costanti del 2000). Ciò avrebbe, secondo Fogel, implicazioni molto più vaste di quelle economiche, commerciali e finanziarie: la funzione di promuovere quei valori e quel sistema democratico nato alcuni secoli fa in Europa passerebbe ai Paesi liberali dell’Asia. L’economista finlandese Ilmo Pyyhthiä individua, in un lavoro econometrico recente, nell’usura o scarsità di capitale manageriale e nei ritardi nell’introduzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione le determinanti del declino dei Paesi europei che più ne sono affetti.
Queste conclusioni sono convalidate da analisi di giovani economisti italiani in uscita su “La Rivista di Politica Economica” ed oggetto di un convegno di studi all’Isae (Istituto di studi ed analisi economica) . Ad esempio, un lavoro di Andrea Brasili e Loredana Federico mette in evidenza come il capitale imprenditoriale di cui dispone l’Italia non può venire utilizzato a pieno a ragione dell’invadenza della mano pubblica; un’analisi di Caterina Riannetti e Marianna Madia mostra come anche dopo “la legge Biagi”, la regolamentazione del mercato del lavoro frena l’innovazione aziendale; uno studio di Marco Cucculelli quantizza gli effetti (non positivi) del capitalismo familiare sulle dimensioni delle imprese e, quindi, sulla loro capacità di effettuare ricerca (pure solamente “adattiva”- ossia adattare i risultati di ricerche altrui alle loro specificità) ed introdurre innovazione. Le citazioni potrebbero continuare.
La conclusione è che il nodo centrale della politica economica è differente da quello che è stato all’attenzione del dibattito negli tre lustri in cui, nei maggiori Paesi dell’Ue a 15, si è messo l’accento sulla ricerca di un equilibro tra risanamento della finanza pubblica e mantenimento di pace sociale in un contesto di crescita economica moderata. Il governo del declino comporta una politica economica che promuova (con la rimozione di vincoli istituzionali) i settori ed i comparti che in atto od in potenza hanno la maggiore competitività internazionale, pur rispettando i vincoli di finanza pubblica e minimizzando le tensioni sociali inevitabilmente connesse alla trasformazione del tessuto economico e sociale. E’ una politica economica che ha punti di contatto con quella degli Anni 80 i cui obiettivi erano il binomio della riduzione dell’inflazione e del mantenimento di tassi adeguati di crescita.
Non è la politica economica seguita dal Governo Prodi diretta essenzialmente alla difesa dell’esistente (come dimostrato dalla scarsa consistenza delle “lenzuolate” per le liberalizzazioni, dalle vicende Alitalia e dal non volere affrontare la completa privatizzazione di Enel, Eni, Poste e Rai). Non è stata che in parte la politica economica effettivamente condotta dal Governo Berlusconi, troppo timido nel rimuovere ostacoli quali quelli citati.
“Un manuale sulle riforme” è in corso di preparazione da parte dell’Istituto Bruno Leoni (IBL). Potrebbe dare l’avvio ad una riflessione sul governo del declino, pre-condizione a qualsiasi strategia di sviluppo, anche e soprattutto a livello di chi ha responsabilità politiche.
Riferimenti
Acquaviva G. (a cura di) La politica economica negli anni ottanta Marsilio Venezia 2005
Pyytiä I. “Why is Europe Lagging Behind?" Bank of Finland Research Discussion Paper No. 3/2007
Fogel R. "Capitalism and Democracy in 2040: Forecasts and Speculations"
NBER Working Paper No. W13184
Saggi in uscita su “La Rivista di Politica Economica”:
Brasili A., Federico L. “Recent Development in Productivity and the Role of Entrepreneruship in Ital: an Industry View”
Cucculelli M. “Owner Identity and Firm Performance in European Companies. Implications for Competitiveness”
Giannetti C., Madia M. “Is There a Relantionship between the degree of labour market regulation and firm innovatiness?”
Vastissima la letteratura sul declino (specialmente divulgativa) negli ultimi tempi. Chiarissima (e non di parte) l’analisi del Premio Nobel Roberto Fogel: il nucleo più avanzato dell’Ue – ossia l’Ue a 15, non a 27 – non riuscirebbe, dal 2000 al 2040, a stare al passo con la crescita dell’Asia- nel 2040 l’economia cinese raggiungerebbe i 123 milioni di miliardi di dollari (a tassi di cambio e potere d’acquisto costanti del 2000). Ciò avrebbe, secondo Fogel, implicazioni molto più vaste di quelle economiche, commerciali e finanziarie: la funzione di promuovere quei valori e quel sistema democratico nato alcuni secoli fa in Europa passerebbe ai Paesi liberali dell’Asia. L’economista finlandese Ilmo Pyyhthiä individua, in un lavoro econometrico recente, nell’usura o scarsità di capitale manageriale e nei ritardi nell’introduzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione le determinanti del declino dei Paesi europei che più ne sono affetti.
Queste conclusioni sono convalidate da analisi di giovani economisti italiani in uscita su “La Rivista di Politica Economica” ed oggetto di un convegno di studi all’Isae (Istituto di studi ed analisi economica) . Ad esempio, un lavoro di Andrea Brasili e Loredana Federico mette in evidenza come il capitale imprenditoriale di cui dispone l’Italia non può venire utilizzato a pieno a ragione dell’invadenza della mano pubblica; un’analisi di Caterina Riannetti e Marianna Madia mostra come anche dopo “la legge Biagi”, la regolamentazione del mercato del lavoro frena l’innovazione aziendale; uno studio di Marco Cucculelli quantizza gli effetti (non positivi) del capitalismo familiare sulle dimensioni delle imprese e, quindi, sulla loro capacità di effettuare ricerca (pure solamente “adattiva”- ossia adattare i risultati di ricerche altrui alle loro specificità) ed introdurre innovazione. Le citazioni potrebbero continuare.
La conclusione è che il nodo centrale della politica economica è differente da quello che è stato all’attenzione del dibattito negli tre lustri in cui, nei maggiori Paesi dell’Ue a 15, si è messo l’accento sulla ricerca di un equilibro tra risanamento della finanza pubblica e mantenimento di pace sociale in un contesto di crescita economica moderata. Il governo del declino comporta una politica economica che promuova (con la rimozione di vincoli istituzionali) i settori ed i comparti che in atto od in potenza hanno la maggiore competitività internazionale, pur rispettando i vincoli di finanza pubblica e minimizzando le tensioni sociali inevitabilmente connesse alla trasformazione del tessuto economico e sociale. E’ una politica economica che ha punti di contatto con quella degli Anni 80 i cui obiettivi erano il binomio della riduzione dell’inflazione e del mantenimento di tassi adeguati di crescita.
Non è la politica economica seguita dal Governo Prodi diretta essenzialmente alla difesa dell’esistente (come dimostrato dalla scarsa consistenza delle “lenzuolate” per le liberalizzazioni, dalle vicende Alitalia e dal non volere affrontare la completa privatizzazione di Enel, Eni, Poste e Rai). Non è stata che in parte la politica economica effettivamente condotta dal Governo Berlusconi, troppo timido nel rimuovere ostacoli quali quelli citati.
“Un manuale sulle riforme” è in corso di preparazione da parte dell’Istituto Bruno Leoni (IBL). Potrebbe dare l’avvio ad una riflessione sul governo del declino, pre-condizione a qualsiasi strategia di sviluppo, anche e soprattutto a livello di chi ha responsabilità politiche.
Riferimenti
Acquaviva G. (a cura di) La politica economica negli anni ottanta Marsilio Venezia 2005
Pyytiä I. “Why is Europe Lagging Behind?" Bank of Finland Research Discussion Paper No. 3/2007
Fogel R. "Capitalism and Democracy in 2040: Forecasts and Speculations"
NBER Working Paper No. W13184
Saggi in uscita su “La Rivista di Politica Economica”:
Brasili A., Federico L. “Recent Development in Productivity and the Role of Entrepreneruship in Ital: an Industry View”
Cucculelli M. “Owner Identity and Firm Performance in European Companies. Implications for Competitiveness”
Giannetti C., Madia M. “Is There a Relantionship between the degree of labour market regulation and firm innovatiness?”
mercoledì 16 gennaio 2008
LA RIFORMA DELLE AUTHORITIES SI E’ ARENATA IN PARLAMENTO
L’accordo sui principi della riforma del sistema elettorale dovrebbe essere dietro l’angolo (anche se soprattutto in questo campo l’esperienza insegna che il diavolo è nei dettagli). E’ da augurarsi che, diminuita l’attenzione sui meccanismi elettorali, e realizzata (in gran misura) la contro-riforma della previdenza ed il riassetto del welfare, ritorni tra gli elementi centrali del dibattito politico quella che varrebbe la pena chiamare “la riforma disparicida”. Era al centro delle polemiche, ed all’attenzione della stampa d’informazione (non solo di quella economica), proprio nel gennaio scorso ma cui adesso si fa fatica anche a trovarne traccia sulle specifiche dell’iter parlamentare. Mi riferisco a quella colloquialmente chiamata “la riforma delle authorities”. All’inizio di febbraio 2007 il Consiglio dei Ministri ha varato il disegno di legge “disposizioni in materia di regolazione e vigilanza sui mercati e di funzionamento delle Autorità indipendenti preposte ai medesimi”, lo ha trasmesso al Senato il 5 marzo 2007. E’ da allora, minuziosamente (e lentamente), all’esame delle Commissioni (a quel che se ne sa; due ore di ricerca sul sito del Senato non hanno permesso di comprendere a che punto tale esame sia arrivato).
In 22 articoli, il ddl aveva l’obiettivo di colmare vuoti di regolazione (principalmente nel campo di servizi a rete), di semplificare l’architettura specialmente in materia di regolamentazione e vigilanza finanziaria, di adeguare ordinamenti, numero dei componenti e metodi di nomina. Veniva ritenuto (un anno fa) così urgente che conteneva norme per consentire “l’immediata operatività della riorganizzazione). Non che il ddl fosse oro colato; molti sui aspetti sono stati criticati su ItaliaOggi e su altre testate (anche scientifiche) da esperti di rango. Tuttavia, un dibattito politico (e parlamentare) era quanto mai tempestivo. Non soltanto siamo uno dei pochi Paesi Ocse ad avere una geografia così variegata delle autorità di regolazione e di vigilanza, ma anche nella legislatura precedente si era lavorato a lungo per una riforma organica, peraltro mai conclusa. In attesa di tale riordino (si guardi il pur benevolo rapporto Ocse “Italia- assicurare la qualità della regolazione a tutti i livelli di governo), autorità grandi e piccole a livello regionale (ed in molti case comunale) si stanno accavallando su quelle nazionali ed europee. Secondo alcune stime (approssimate per difetto) il solo costo alle imprese di fornire informazioni alla selva delle autorithies è almeno 40 miliardi euro l’anno. A tale costo non corrisponde efficienza ed efficacia, nonché vera tutela dei mercati e di chi vi opera.
Negli ultimi mesi, le tensioni sui mercati finanziari e le difficoltà del decollo della previdenza complementare hanno mostrato a tutto tondo come la debolezza del sistema di regolazione e di vigilanza possa fare correre a tutti più rischi del dovuto. Non è questa un’occasione per fare uscire la proposta di riforma dal dimenticatoio e porla tra gli elementi centrali di confronto politico?
In 22 articoli, il ddl aveva l’obiettivo di colmare vuoti di regolazione (principalmente nel campo di servizi a rete), di semplificare l’architettura specialmente in materia di regolamentazione e vigilanza finanziaria, di adeguare ordinamenti, numero dei componenti e metodi di nomina. Veniva ritenuto (un anno fa) così urgente che conteneva norme per consentire “l’immediata operatività della riorganizzazione). Non che il ddl fosse oro colato; molti sui aspetti sono stati criticati su ItaliaOggi e su altre testate (anche scientifiche) da esperti di rango. Tuttavia, un dibattito politico (e parlamentare) era quanto mai tempestivo. Non soltanto siamo uno dei pochi Paesi Ocse ad avere una geografia così variegata delle autorità di regolazione e di vigilanza, ma anche nella legislatura precedente si era lavorato a lungo per una riforma organica, peraltro mai conclusa. In attesa di tale riordino (si guardi il pur benevolo rapporto Ocse “Italia- assicurare la qualità della regolazione a tutti i livelli di governo), autorità grandi e piccole a livello regionale (ed in molti case comunale) si stanno accavallando su quelle nazionali ed europee. Secondo alcune stime (approssimate per difetto) il solo costo alle imprese di fornire informazioni alla selva delle autorithies è almeno 40 miliardi euro l’anno. A tale costo non corrisponde efficienza ed efficacia, nonché vera tutela dei mercati e di chi vi opera.
Negli ultimi mesi, le tensioni sui mercati finanziari e le difficoltà del decollo della previdenza complementare hanno mostrato a tutto tondo come la debolezza del sistema di regolazione e di vigilanza possa fare correre a tutti più rischi del dovuto. Non è questa un’occasione per fare uscire la proposta di riforma dal dimenticatoio e porla tra gli elementi centrali di confronto politico?
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