Vi spiego perché è folle accantonare il Ttip
Il commento dell'economista Giuseppe Pennisi
Solo in queste ultime settimane i giornali e alcuni settori dell’opinione
pubblica si sono interessati al Tttip, acronimo entrato nella galassia delle
sigle internazionali e che indica il Treaty for Transatlantic Trade and
Investment Parternship (Trattato per una partnership transatlantica su
commercio ed investimenti). Seguo i negoziati commerciali multilaterali da
quanto il Gatt, predecessore del Wto, aveva sede a Villa Le Bocage sulle sponde
del Lago Lemano ed era di moda bere brandy & soda quando le trattative
duravano sino all’alba (ossia quasi sempre). Allora, si era alla fine del
Kennedy Round, nell’ultimo scorcio degli Anni Sessanta, e si congetturava di
un’Atlantic Community Partnership, basata su due pilastri: gli Stati
Uniti e la Comunità Europea (non ancora diventata Unione Europea, Ue).
Oggi il quadro è molto differente. Da un lato, il 5 ottobre scorso è stato
concluso un accordo analogo tra gli Usa e gran parte degli Stati che si bagnano
sul Pacifico (Cina esclusa in quanto non è “un’economia di mercato”). Da un
altro lato, l’Ue ha maggiore esigenza di un accordo che regoli il commercio e
gli investimenti con gli Usa di quanto non ne abbiano gli Stati Uniti; in
effetti, il presidente Barack Obama non sembra disposto a fare sforzi per
giungere ad un’intesa prima della fine del suo mandato. Da un altro lato
ancora, voci prive di una base hanno indotto la sempre protezionista Francia ed
alcuni gruppi europei a pensare che il Ttip sia uno strumento per introdurre in
Europa prodotti geneticamente modificati di origine americana e a facilitare
l’acquisizione di aziende europee da parte di finanziarie Usa. Occorre dire, ad
alta voce, che si tratta di indicazioni fuorvianti: non solo tali temi sono al
di fuori della trattativa ma una risoluzione del Parlamento Europeo vincola la
Commissione Europea a vigilare con particolare attenzione che questi aspetti
non entrino dalla “porta di servizio”.
Il vero rischio è che di Ttip finisca per non parlarsene più. Ciò non solo
chiuderebbe l’enorme mercato americano a tante piccole e medie imprese italiane
ma marginalizzerebbe l’Ue nel contesto mondiale, un’economia internazionale che
sarebbe caratterizzata da una comunità pacifica molto forte e, in occidente, da
un continente vecchio e stagnante. Ci si taglierebbe fuori da un commercio e da
investimenti più liberi; ingrediente essenziale per fare parte di un mondo più
libero.
Non è certo facile portare a termine il negoziato, prima, e farlo
ratificare, poi, dai Parlamenti nazionali (il solo piccolo Belgio ne ha sette;
sic!). Il Ttip, come il suo omologo nel Pacifico, ha un obiettivo più vasto
della abolizione di restrizioni. Ha quello di giungere a regole comune. Un
saggio di Richard Parker nel Columbia Journal of European Law (Vol. 27, No.1, 2016) traccia
un percorso progressivo per forgiare tali regole comuni non con un unico
accordo Ttip ma con una serie articolata in un decennio. Già ora, tuttavia, in
sei importanti settori industriali c’è un accordo (non solo tra governi ma anche
tra le rispettive associazione di imprese e di lavoratori). Un’intesa sulle
barriere tariffarie è a portata di mano. Non è difficile giungere a regole
comuni sugli appalti pubblici e sul tema della “denominazione di origine”.
Quindi, un primo importante passo si può fare. Non farlo vuol dire
prendersi grandi responsabilità nei confronti delle prossime generazioni.
(anticipazione della rubrica curata da Giuseppe Pennisi che uscirà sul
prossimo numero della rivista Formiche)
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