Che cosa fare dopo l’ok di
Bruxelles ai conti dell’Italia
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Il commento
dell'economista Giuseppe Pennisi
Oggi il
governo esulta. Non c’è che dire: una delle battaglie di fondo deliberate
dall’esecutivo è stata vinta. Grazie alla diplomazia internazionale condotta
dal ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan, e negli
ultimi due mesi dal rappresentante permanente presso le istituzioni europee, Carlo
Calenda, l’Italia porta a casa sulla manovra di politica economica 14
miliardi di flessibilità. Non è la fine del Fiscal Compact, come
qualcuno si affretta a scrivere questa mattina. Non solo l’accordo prevede
“circostanze eccezionali” per deroghe alle sue prescrizioni (e con il
Mediterraneo ed il Medio Oriente in guerra e flussi di migranti verso le coste
italiane) perché siamo in un contesto straordinario. Ma anche ove non ci fosse
il Fiscal Compact, come ha detto sin dagli Ottanta il sindacalista
francese Marc Blondel, a lungo leader di Force Ouvrière, nell’età della
globalizzazione i governi sono diventati subappaltanti dei mercati. L’Italia –
ammettiamolo – non è tra i maggiori subappaltanti (nell’ambito dei Paesi
industriali ad economia di mercato). Quindi, la disciplina della finanza
pubblica verrebbe imposta dai mercati, anche brutalmente come nell’estate 1992.
Inoltre, non è una flessibilità senza condizioni: contiene l’obbligo di
un rientro più forte (le stime oscillano tra i 10 ed i 16 miliardi) dall’indebitamento
delle pubbliche amministrazioni l’anno prossimo e un’azione decisa per ridurre
il rapporto debito/Pil. Quindi siamo nella situazione della “sufficienza” con
l’impegno, però, a studiare durante l’estate, anche se non si è formalmente
rimandati agli esami di riparazione (come anticipato su Formiche.net del 16 maggio)
Abbiamo
trattato più volte dei modi per ridurre il rapporto debito/Pil. Le ricette non
mancano: basta scegliere il mix ed applicarlo con tenacia. Oggi, mentre a
Palazzo Chigi, alla Farnesina, a Via Venti Settembre e alla Rappresentanza
italiana a Bruxelles tutti sturano bottiglie di champagne è utile ricordare che
esistono due famiglie di flessibilità: una difensiva e una offensiva.
La prima tende ad utilizzare le risorse ottenute per difendere l’esistente
e, dato che siamo alla vigilia di elezioni e di un referendum, di dare
“contentini” grandi e piccoli a fasce di elettori per ottenerne nel breve
periodo il consenso. La seconda è offensiva perché ha l’obiettivo di
modificare radicalmente lo status quo e ad impiegare le risorse per riforme
strutturali economiche (non istituzionali): le riforme costano per attutire il
colpo sui gruppi sino ad ora avvantaggiati dallo status quo, per
graduarne il passo e via discorrendo. Riguardano la concorrenza, l’innovazione
tecnologica, la dimensione di imprese, le privatizzazioni (specialmente nel
“capitalismo regionale e municipale”) la riduzione del carico e della
oppressione fiscale. E via discorrendo. I beneficiari non votano: sono i nostri
figli piccoli e i nostri nipoti.
La via delle
riforme ha in Italia una stella polare: ridurre la spesa pubblica (che
intermedia oltre il 50% del Pil) e, nei limiti del possibile, dare fiato agli
investimenti a lungo termine che guardino al futuro delle nuove generazioni. I
tentativi di fare un “tagliando” alla spesa si susseguono oramai da decenni.
Con il medesimo – e mai centrato – obiettivo: mantenere quella di alta utilità
e ridurre quella inefficiente e cioè gli sprechi. Al Tesoro la sfida è stata
affrontata prima dalla Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica, fra il 1986 e
il 2005, e poi, per due anni, dalla Commissione Tecnica per la Finanza
Pubblica. Entrambe sono state disciolte e i risultati sono stati inferiori alle
aspettative: l’irresistibile ascesa della spesa pubblica soprattutto di parte
corrente è proseguita. È iniziata quindi la stagione dei “commissari”, ma gli
esiti – quelli visibili, almeno – non sono stati migliori.
È solo colpa
dei politici? Un libro promosso dal Centro Studi Impresa Lavoro, una Guida
Operativa che verrà presentata il 26 maggio alla Fondazione Ugo
La Malfa, prova a suggerire una terapia. In primo luogo, nei Paesi dove
la spending review è stata efficace (Usa, Gran Bretagna, Francia), la
revisione non si presentava come compito ad hoc di breve respiro, ma quale
principale attività istituzionale – permanente, quindi – dell’organo dello
Stato incaricato delle formazione, della valutazione e del monitoraggio del
bilancio (in Italia la Ragioneria Generale). In secondo luogo, dove funziona,
la revisione si basa su metodologie standardizzate adottate a livello
internazionale. Da un lato figlie di una teoria economica forte, dall’altro
facilmente comprensibili non solo ai tecnici, ma anche all’uomo della strada.
In terzo luogo, la revisione deve essere partecipativa: i cittadini, le
famiglie, le imprese devono essere in grado di comprendere perché si vuole
ridurre una voce di spesa o accentuarne un’altra. Per questo motivo, la Guida è redatta in una prosa
accessibile a chi abbia i rudimenti di economia domestica e include un capitolo
dedicato al come comunicare le valutazioni sulla spesa pubblica. Ma una Guida
è unicamente un tracciato.
Ciò che si
vuole è una scelta politica forte e chiara tra quale flessibilità adottare:
se difensiva od offensiva.
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