Palchi
e platee
di Beckmesser
Questa rubrica solitamente tratta
di approfondimenti musicali che
non possono essere agevolmente
contenuti in recensioni che appaiono
su altre testate. Mi si consenta
un’eccezione per dedicarla
all’ultimo libro di Paolo Isotta,
Altri canti di Marte, pubblicato da
Marsilio. È un volume che segue
di pochi mesi La virtù dell’elefante,
ma è profondamente diverso
da quest’ultimo, il cui impianto è
in grande misura autobiografico.
Altri canti di Marte, pur dedicando
i due primi scarni capitoli (un
preludio di una trentina di pagine)
a giganti del romanticismo, è un’analisi
affascinante (di oltre 400
pagine) di quello scrigno di meraviglie
– in gran misura inesplorato
– che è la musica, principalmente
italiana, del Novecento. Una tesi
che da oltre dieci anni è uno dei
temi di fondo di questa rubrica.
Come è consueto nei libri di Paolo
Isotta, l’analisi musicale serrata
è intercalata con aneddoti e con
il gusto di togliersi sassolini dalla
scarpa e dire, con grande franchezza,
le sue verità su questo o
quello. Si può o non si può essere
d’accordo su questo o su quel
punto specifico. Tuttavia, è prova
di onestà intellettuale farlo, anche
nei confronti di numi dell’empireo
musicale, ora che Isotta non è più
titolare della critica musicale del
più diffuso quotidiano italiano, un
campo dove si è spesso soggetti a
vincoli se non altro “ambientali”.
Il libro, come i precedenti quali La
virtù dell’elefante, Il ventriloquo di
Iddio, Le ali di Wieland, I protagonisti
della musica, trasuda della
napoletanità di Isotta. Beckmesser,
che aspirerebbe a essere
austro-tedesco, ma ha salde radici
nella Sicilia orientale, comprende
appieno come in tanti anni di
critica militante numerosi sassi
si sono accumulati nelle scarpe
di Isotta. L’età della serenità non
può essere tale, se tali sassi
non vengono tolti. Ma, a onta di
quanto hanno scritto altri sul libro
di Isotta, non è questo il punto
centrale.
L’architrave del libro è la rivalutazione
della musica del Novecento,
in particolare di quella italiana che
nel nostro Paese, più che in altri,
si è voluto obliare perché in gran
misura coetaneo del ventennio
fascista, come rileva Alessandro
Zignani nel libro recente La storia
negata (Zecchini Editore), e come
io stesso scrissi in un breve saggio
su La nuova antologia nel 2011. Il
paradosso è che in Italia, mentre
abbiamo riabilitato la musica
giudicata “degenerata” dai nazisti
e abbiamo allestito capolavori di
Enescu e Szymanowski, abbiamo
coperto da una fitta coltre di oblio
quella italiana dello stesso periodo.
È un oblio che si sta troppo
lentamente rimuovendo. Per dieci
anni, l’orchestra sinfonica romana
– unica orchestra interamente
privata in Europa – ha fatto conoscere
parte della magnifica produzione
sinfonica: la crisi economica
ha portato alla morte dell’orchestra
(nel silenzio della stampa),
ma fortunatamente il complesso
sinfonico ci ha lasciato meravigliose
edizioni di registrazioni integrali
(soprattutto con la casa discografica
Naxos) di Casella, Respighi,
Martucci, Sgambati e altri.
Inoltre, da una quindicina di anni,
sovrintendenti e direttori artistici di
fondazioni liriche stanno riproponendo
alcune delle maggiori opere
del periodo. Qualcosa si è fatto
con Respighi, Casella e Alfano,
ma ci sono meraviglie da riscoprire
quale L’Orfeide di Gianfrancesco
Malipiero, introvabile in Italia, ma
di cui ho trovato un CD recente
(basato su una registrazione del
1946) in una piccola casa editrice
in liquidazione nell’Auvergne (il
cuore della Francia rurale).
Il volume di Isotta deve essere
letto come un invito e una preghiera
a fare di più. Speriamo che
i direttori artistici lo raccolgano
e platee
di Beckmesser
Questa rubrica solitamente tratta
di approfondimenti musicali che
non possono essere agevolmente
contenuti in recensioni che appaiono
su altre testate. Mi si consenta
un’eccezione per dedicarla
all’ultimo libro di Paolo Isotta,
Altri canti di Marte, pubblicato da
Marsilio. È un volume che segue
di pochi mesi La virtù dell’elefante,
ma è profondamente diverso
da quest’ultimo, il cui impianto è
in grande misura autobiografico.
Altri canti di Marte, pur dedicando
i due primi scarni capitoli (un
preludio di una trentina di pagine)
a giganti del romanticismo, è un’analisi
affascinante (di oltre 400
pagine) di quello scrigno di meraviglie
– in gran misura inesplorato
– che è la musica, principalmente
italiana, del Novecento. Una tesi
che da oltre dieci anni è uno dei
temi di fondo di questa rubrica.
Come è consueto nei libri di Paolo
Isotta, l’analisi musicale serrata
è intercalata con aneddoti e con
il gusto di togliersi sassolini dalla
scarpa e dire, con grande franchezza,
le sue verità su questo o
quello. Si può o non si può essere
d’accordo su questo o su quel
punto specifico. Tuttavia, è prova
di onestà intellettuale farlo, anche
nei confronti di numi dell’empireo
musicale, ora che Isotta non è più
titolare della critica musicale del
più diffuso quotidiano italiano, un
campo dove si è spesso soggetti a
vincoli se non altro “ambientali”.
Il libro, come i precedenti quali La
virtù dell’elefante, Il ventriloquo di
Iddio, Le ali di Wieland, I protagonisti
della musica, trasuda della
napoletanità di Isotta. Beckmesser,
che aspirerebbe a essere
austro-tedesco, ma ha salde radici
nella Sicilia orientale, comprende
appieno come in tanti anni di
critica militante numerosi sassi
si sono accumulati nelle scarpe
di Isotta. L’età della serenità non
può essere tale, se tali sassi
non vengono tolti. Ma, a onta di
quanto hanno scritto altri sul libro
di Isotta, non è questo il punto
centrale.
L’architrave del libro è la rivalutazione
della musica del Novecento,
in particolare di quella italiana che
nel nostro Paese, più che in altri,
si è voluto obliare perché in gran
misura coetaneo del ventennio
fascista, come rileva Alessandro
Zignani nel libro recente La storia
negata (Zecchini Editore), e come
io stesso scrissi in un breve saggio
su La nuova antologia nel 2011. Il
paradosso è che in Italia, mentre
abbiamo riabilitato la musica
giudicata “degenerata” dai nazisti
e abbiamo allestito capolavori di
Enescu e Szymanowski, abbiamo
coperto da una fitta coltre di oblio
quella italiana dello stesso periodo.
È un oblio che si sta troppo
lentamente rimuovendo. Per dieci
anni, l’orchestra sinfonica romana
– unica orchestra interamente
privata in Europa – ha fatto conoscere
parte della magnifica produzione
sinfonica: la crisi economica
ha portato alla morte dell’orchestra
(nel silenzio della stampa),
ma fortunatamente il complesso
sinfonico ci ha lasciato meravigliose
edizioni di registrazioni integrali
(soprattutto con la casa discografica
Naxos) di Casella, Respighi,
Martucci, Sgambati e altri.
Inoltre, da una quindicina di anni,
sovrintendenti e direttori artistici di
fondazioni liriche stanno riproponendo
alcune delle maggiori opere
del periodo. Qualcosa si è fatto
con Respighi, Casella e Alfano,
ma ci sono meraviglie da riscoprire
quale L’Orfeide di Gianfrancesco
Malipiero, introvabile in Italia, ma
di cui ho trovato un CD recente
(basato su una registrazione del
1946) in una piccola casa editrice
in liquidazione nell’Auvergne (il
cuore della Francia rurale).
Il volume di Isotta deve essere
letto come un invito e una preghiera
a fare di più. Speriamo che
i direttori artistici lo raccolgano
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