FINANZA E POLITICA/ SI o NO, i
danni del referendum d'ottobre
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lunedì 9 maggio 2016
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NEWS Economia e Finanza
Con
l’annuncio dell’istituzione dei comitati per il SI e di quelli, a essi
speculari e contrapposti, per il NO, è di fatto iniziata la campagna per il
referendum confermativo delle riforme costituzionali. Un referendum, dicono i
giuristi, anomalo perché richiesto dal Governo (come non previsto dalla
Costituzione vigente), mentre si stanno ancora organizzando coloro che hanno
titolo a chiederlo (un quinto dei parlamentari, cinque Consigli regionali,
50.000 cittadini). A sua volta il referendum si riferisce a una riforma
costituzionale anch’essa anomala, in quanto frutto di un disegno di legge del
Governo e non di un’autonoma proposta del Parlamento tale da esprimere il punto
di vista dell’Esecutivo ora in carica, non degli eletti. E sembra essere
strumento divisivo più che di convergenza. Tanto che il Presidente del
Consiglio lo ha anche trasformato in un plebiscito sulla sua persona e sui suoi
destini politici.
Lasciamo
queste questioni ai giuristi e ai politologi. Nel dibattito sul SI o sul NO,
tale comunque da rispecchiare scelte individuali, non si è parlato delle
conseguenze economiche di un referendum che modifica in misura significativa la
Costituzione della Repubblica. Sappiamo che il costo finanziario alle casse
dello Stato si aggira sui 500 milioni di euro, a cui aggiungere la
“distrazione” da attività produttive o per il miglioramento della qualità della
vita delle risorse impiegate per le campagne referendarie. Questi dati ci
dicono molto poco sulle conseguenze economiche effettive del referendum, cioè
sulle sue implicazioni per l’economia italiana in termini di reddito,
occupazione e quant’altro.
Non abbiamo
strumenti e dati per farne una quantizzazione anche solo approssimativa.
Tuttavia, sarebbe utile chiedere all’Istat di produrre scenari “contro fattuali”
non per impedire o ritardare la consultazione, ma perché gli italiani abbiano
quanto meno un’idea delle implicazioni economiche della strada scelta.
Dalla teoria
economica, sappiamo che economisti considerati liberali (ad esempio, John
Douglas North) ed economisti di orientamento socialdemocratico (ad esempio,
Albert Hirschman) concordano nel sostenere che le riforme istituzionali
comportano, se non accompagnate da una forte dose di vitamine di riforme
economiche, un rallentamento di almeno cinque anni della crescita economica. In
una prima fase, quella della preparazione e del dibattito, “distraggono” dalle
misure per la crescita economica. In una seconda, quella della loro
applicazione, comportano “learning” (apprendimento) delle nuove regole e quindi
ancora “distrazioni” dalla crescita, nonché un irrigidimento delle “vecchie
regole” e controversie tra “il vecchio e il nuovo”.
Tanto North
quanto Hirschman sono economisti istituzionalisti con una forte impronta
storica, North in particolare analizza cinquecento anni di storia europea. Se
si scorre il Social Science Research Network, la maggiore rete telematica di
scienze sociali, si trovano circa cinquecento analisi empiriche che giungono
alla medesima conclusione. Ciò non vuol dire che riforme istituzionali ben
azzeccate non possano essere successivamente leva per una maggiore crescita
economica.
In questa
luce, il fatto che, dopo la Grecia, l’Italia continua a essere il fanalino di
coda nell’Unione europea si spiega, almeno in parte, con la “distrazione” dai
problemi economici strutturali provocata dall’infuocato dibattito
istituzionale. La “distrazione” - non facciamoci illusioni - continuerà sia che
vinca il SI, sia che abbia successo il NO nei mesi della campagna referendaria
e in un paio di anni successivi, soprattutto se vince il SI - a ragione della
necessità di apprendere le nuove “regole”. Inoltre, secondo i giuristi, il
testo dei cambiamenti costituzionali soggetto a referendum ha numerosi punti
poco chiari e controversi che saranno fonte di contenziosi alla Corte
Costituzionale.
Tutto ciò
comporterà anni di incertezza. L’incertezza - prima dei teorici dell’economica
lo sanno i traders che operano in opzioni - è un bene pubblico,
indivisibile e non rivale (come la sicurezza interna, la difesa internazionale,
la giustizia, la democrazia). Al pari di altri beni pubblici schiude
finestre di opportunità (positive o negative) a chi ne fa uso. Sovente sono
relativamente pochi quelli che guadagnano (anche di grosso) dall’incertezza,
mentre i più non sanno cogliere le finestre di opportunità che essa dischiude.
Nel caso specifico del referendum costituzionale, l’incertezza comporterà
fibrillazioni dei mercati finanziari nelle settimane precedenti le
consultazioni; alcuni sapranno coglierne le opportunità, altri non saranno in
grado e perderanno. Continuerà anche dopo la consultazione. Se vince il NO si
aprirà una crisi di Governo, se il presidente del Consiglio mantiene la parola
di lasciare la vita politica. Se vince il SI, si apre una lunga fase di ricorsi
sul testo approvato. Comunque vada, ci rimetteranno l’Italia e gli italiani.
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