FINANZA E POLITICA/ Così Grecia e Fmi possono "salvare" l'Italia dalla bancarotta
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lunedì 16 maggio 2016
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Il 18 maggio, le autorità europee esprimeranno un giudizio
sul programma di politica economica dell'Italia quale espresso nel Documento di
economia e finanza e negli scambi epistolari che si sono a esso succeduti.
Quello appena trascorso è stato un fine settimana di intensi negoziati. Al
momento in cui scriviamo sembra che la trattativa sia a favore dell'Italia in
materia di indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni dove riportiamo
un avanzo primario (a ragione non solo del contenimento delle spese in alcuni
settori - pubblico impiego, sanità, investimenti pubblici), ma anche e
soprattutto a causa dell'aumento di tasse e imposte locali, nonché di tariffe
pubbliche.
La parte più difficile è il debito pubblico. Ci rallegriamo
perché si è sostanzialmente stabilizzato attorno al 132% del Pil e perché negli
scenari a corredo del Def nel 2019, si porrebbe tra il 126% e il 124% del Pil a
seconda dell'andamento effettivo della crescita economica. Dimentichiamo che
proprio venerdì 13 maggio, i dati Istat sull'andamento del Pil, e soprattutto
su quello dei prezzi, dipingono un'Italia che si sta avvitando in una
pericolosa deflazione. Con il Fiscal compact ci siamo, poi, impegnati
non destabilizzare il rapporto debito/Pil ma a ridurlo di un ventesimo l'anno
sino a quando non raggiungerà il 60% del Pil. Obiettivo quanto mai distante.
Sosteniamo (si veda l'articolo di Marco Fortis su Il
Sole 24 Ore del 13 febbraio) che la ricchezza delle famiglie italiane
"sostiene" ampiamente il debito. Tuttavia, nelle classifiche del Global
Wealth Report del Credit Suisse (la fonte citata più frequentemente e
facilmente disponibile on line) siamo passati dal 2013 al 2015 dal terzo al
settimo posto e le previsioni sono per un ulteriore calo e ampliamento, invece,
tra "chi ha" e "chi non ha". Non solo è diminuito il reddito
disponibile complessivo delle famiglie, ma parte dei ceti a reddito medio-basso
stanno scendendo alla soglia di povertà. La diminuzione dell'aspettativa alla
nascita registrata di recente è, secondo le analisi dei medici ospedalieri, una
delle conseguenze del forte aumento dei ticket per la diagnostica.
Occorre distinguere tra "reddito" - un concetto di
flusso: quanto si ottiene nel corso di un periodo - e "ricchezza" -
un concetto di stock: quanto le generazioni attuali e le precedenti hanno
accumulato. Indubbiamente, grazie al duro lavoro e la parsimonia di
generazioni, le famiglie italiane dispongono di un forte "stock" di
ricchezza per lo più immobiliare o in titoli di Stato. Il fenomeno della
ricchezza immobiliare è aumentato a ragione del decremento delle nascite: molte
famiglie mononucleari hanno ereditato tre-quattro appartamenti e residenze
secondarie da genitori, nonni e zie. Ciò comporta, però, difficili problemi di
stima statistica del loro valore (anche perché non si tratta di ricchezza
liquida) e poco si sa di come tale "ricchezza immobiliare" sia stata
stimata dal Crédit Suisse. La "ricchezza" in titoli di Stato dipende
dal fatto che sino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, il mercato
dei capitali italiani era sostanzialmente "chiuso" e
l'alfabetizzazione finanziaria delle famiglie modesta; quindi, c'erano poche
opportunità di diversificazione degli investimenti.
La propensione al risparmio in generale degli italiani sta
diminuendo:
è passata dal 10% del reddito disponibile delle famiglie nel 2009 all'8% circa
nel 2015. Ciò indica che a fronte della crisi , molte famiglie stanno
diminuendo l'accumulazione di "ricchezza". O la stanno intaccando. È
importante tenere in mente questi dati perché gran parte dei programmi di
riduzione del debito pubblico delineati in questi anni fanno leva
sull'utilizzazione della "ricchezza" delle famiglie. E non tengono
conto del fatto che lo stock di debito è, di per se stesso, un vincolo alla
crescita di valore aggiunto e, quindi, di reddito disponibile, di risparmio e
di accumulazione (o disaccumulazione ) di ricchezza.
Le analisi più recenti affermano che, data la nostra
struttura economica e demografica, se il debito pubblico supera l'85%-90% del
Pil, il macigno agisce come un freno di almeno l'1% l'anno sulla crescita. Il
tasso di crescita "potenziale" del Paese è stimato attorno all'1,5 %
l'anno: ci si condanna alla stagnazione, qualsiasi altra misura si applichi in
materia di mercato del lavoro, liberalizzazioni, privatizzazioni ha poco
effetto. Ridurre gradualmente il fardello con un avanzo primario (entrate
superiori alle spese pubbliche al netto del servizio del debito) tale da
portarlo al 60% del Pil (nei tempi previsti dal "patto euro-plus" e
dall'accordo sull'unione fiscale) implica una manovra di 35-50 miliardi di euro
l'anno per i prossimi 20 anni - ossia condannare almeno una generazione alla
recessione.
Quella dell'Italia pare una malattia congenita che ha le sue
radici in determinanti storico-sociologiche di lungo periodo: in 150 anni di
Unità, per ben 111 anni lo stock di debito pubblico ha superato il 60% del Pil
e per oltre 50 il 100% del Pil. Al fine di ridurre il debito, il primo punto
(in ordine di tempo) della strategia di crescita presentato dal Governo Monti,
e ripreso dal Governo Letta, è il fondo immobiliare che ha presto acquisito,
sulla stampa d'informazione, il nomignolo di "fondo taglia-debito".
In breve, l'obiettivo è "creare ricchezza"
dalla manomorta pubblica (stimata a 1815 miliardi, pari quasi allo stock di
debito pubblico). In pratica, la cessione di una parte (peraltro relativamente
modesta) del patrimonio immobiliare pubblico (che oggi rende poco o nulla allo
Stato e alle pubbliche amministrazioni in generale) e diritti per le emissioni
inquinanti di CO2. Dalla prima fonte si contano di ricavare 35-40 miliardi;
dalla seconda altri 10.
In primo luogo, è pleonastico dire che cercare di
valorizzare il patrimonio pubblico è una buona idea. Ci sono ora pure le
premesse perché l'idea abbia questa volta modalità di applicazione che la
rendano realizzabile entro un lasso di tempo relativamente breve. Lo schema
messo a punto da Andrea Monorchio e Guido
Salerno Aletta, che è anche corredato da una bozza di proposta di legge
d'iniziativa popolare, fa leva non sul patrimonio pubblico, ma su quello
dell'edilizia privata. In breve, i proprietari di casa verrebbero messi di
fronte a un'alternativa: o essere soggetti d'imposta patrimoniale oppure far sì
che un decimo del loro patrimonio edilizio (stimato in 9.000 miliardi di euro)
venga ipotecato dallo Stato avendo in cambio: a) la garanzia dell'esenzione da
imposte presenti e future; b) un interesse al tasso di sconto presso la Bce e
un ammortamento ventennale. In tal modo - tralascio gli aspetti tecnici, alcuni
dei quali molto ingegnosi - lo Stato avrebbe la liquidità per abbattere il debito
pubblico e realizzare politiche di crescita.
Un'alternativa del programma, prevede obbligazioni a cedola
zero (garantite dall'ipoteca sul 10% del valore dell'immobile) che potrebbero
essere particolarmente interessanti per chi vuole costituire un capitale per un
lascito a figli o congiunti o amici. Sono ambiziose, in vario modo, anche le
proposte di La Malfa e Savona (chiare alternative a un'imposta patrimoniale).
Vale, però, la pena integrarle con la proposta del Governo e con gli schemi
Monorchio-Salerno e La Malfa-Savona - la proposta di Giuseppe Guarino, invece,
è essenzialmente una patrimoniale più o meno in maschera al fine di costituire
un "fondo taglia-debito".
Credo occorra partire dalla premesse che se si chiede ai
privati di utilizzare parte dei gioielli di famiglia (la propria casa) per
liberare l'Italia dalla morsa del debito (Monorchio-Salerno Aletta) si debba
chiedere allo Stato di fare altrettanto. Destinare a tale fine una parte del
patrimonio immobiliare pubblico (è difficile che il mercato ne possa assorbire
di più) e delle licenze per CO2 è limitativo. Anche perché tale patrimonio
immobiliare pubblico (ad esempio, la case popolari Ater) non sono certo
gioielli di famiglia. Soprattutto, dato come non possiamo utilizzare le strade
maestre per ridurre il debito pubblico - consolidamento, maxi-inflazione,
super-crescita - occorre guardare a esperienze innovative di riscatto quali
quelle attuate da alcuni Paesi dell'America Latina e dalla Germania. In America
Latina non si trattava di risolvere il nodo del debito pubblico interno
(abbastanza contenuto a differenza di quello sull'estero), ma di affrontare il
peso di un insostenibile debito previdenziale. In Germania, il problema era
come coniugare denazionalizzazioni con la riduzione del debito dei Länder
orientali. In tutti questi casi, per il riscatto sono stati
istituiti fondi specifici quali il Treuhandanstalt (THA)
tedesco e si è utilizzato parte dello stock di ricchezza pubblica e privata.
In Italia sono stati fatti tentativi in parte in tal senso,
quali quelli di un migliore valorizzazione del patrimonio pubblico, e hanno
dato risultati modesti poiché troppo timidi. Le proposte di Giuseppe Guarino,
Giorgio La Malfa, Andrea Monorchio, Paolo Savona, Guido Salerno e altri
sono un segnale importante: persone di culture differenti stanno
metabolizzando l'idea del riscatto, nonostante non abbiamo
dimestichezza con le esperienze dell'America Latina e della Germania. Numerose
proposte guardano solo o principalmente alla ricchezza immobiliare privata
(l'Italia ha la più alta percentuale al mondo - l'80% - di residenti che
abitano in case di loro proprietà). Ciò sarebbe un'imposta patrimoniale in
maschera (e verrebbe letta dai mercati come l'anticamera della bancarotta).
Un fondo per il riscatto del
debito pubblico dovrebbe basarsi su tre pilastri (il suo
"sottostante" nel lessico finanziario): a) parte
del patrimonio immobiliare pubblico; b) parte del patrimonio immobiliare
privato su base volontaria e in cambio di un'esenzione permanente da
eventuali imposte patrimoniali; c) parte dei veri di gioielli di famiglia (Enel,
Eni, Finmeccanica, Poste Italiane, Sace, Terna, Sogin, Inail). Rai,
Ferrovie, Anas, Fincantieri e altre imprese da denazionalizzare non verrebbero,
in una prima fase, incluse poiché sono fardelli da rimettere in sesto o da
liquidare. Con un tale "sottostante" in garanzia, il fondo potrebbe
emettere titoli a lungo termine e a tassi allineati su quelli di riferimento
della Bce per riscattare il debito pubblico e , in via subordinata, finanziare
investimenti a lungo termine di interesse collettivo attualmente accantonati a
ragione delle ristrettezze di bilancio. Il fondo sarebbe un veicolo per
denazionalizzare/privatizzare le società /gli enti le cui azioni sarebbero il
suo "sottostante".
Perché l'operazione funzioni il "sottostante"
dovrebbe essere aggregato (con una cartolarizzazione) e non dovrebbe essere
quotato in Borsa per un certo numero di anni (al fine di costituire una
garanzia solida). Potrebbe essere collocato presso fondi pensione per dare
corpo a un'efficace ed efficiente previdenza integrativa. Ciò richiederebbe una
preventiva riduzione del loro numero da 700 ad una decina con effettiva
portabilità (ossia che gli iscritti possano votare con le gambe e migrare verso
quelli meglio gestiti). Un passo che va comunque fatto se non si vuole che la
previdenza integrativa resti una chimera.
Vale la pena ricordare che le varie proposte per
ridurre il debito sono state confrontate in un seminario Cnel di circa due anni
e mezzo fa e che la Fondazione Astrid ha elaborato un documento complessivo per
il Governo Letta. Non ricordo proposte specifiche del Governo in carica, tranne
l'asserzione che la ricchezza delle famiglie e la crescita ci tireranno fuori
dalla trappola. Invece, a farci uscire dalla gabbia saranno il Fondo monetario
internazionale e la Grecia. Il Fondo detesta le insolvenze, come documentato da
un lavoro del servizio studi dell'istituzione. Il succo dell'analisi è che
le ristrutturazioni del debito sono un male infinitamente minore delle
insolvenze, in quanto queste ultime si ripetono a catena e contagiano il resto
del mondo. Per questa ragione, preme per una ristrutturazione del debito greco.
Nelle nostre preghiere ricordiamoci del Fondo monetario
internazionale.
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