Cosa succederà alle banche
europee
Il corsivo
dell'economista Giuseppe Pennisi
Nei prossimi
dieci-quindici giorni, le principali banche europee (tra cui HSBC, BNP
Parisbas, Societé Génerale, Credit Suisse e UBS) presenteranno i loro risultati
per il 2015. Presidenti, amministratori delegati e direttori generali diranno
che, nonostante le acque procellose ed il cattivo tempo, sono riusciti, con
sforzi eroici, ad aumentare gli utili.
Un rapporto
dell’Economist Intelligence Unit riferisce che, sulla base dei risultati
nel 2015, gli utili netti per l’anno in corso dovrebbero segnare un aumento del
30% rispetto all’anno scorso. È naturalmente una previsione che riguarda,
soprattutto, i prossimi mesi, ossia il futuro. Oscar Wilde amava dire che le
stime sono difficili solamente se riguardano l’avvenire. Sulla base di queste
previsioni si parla di incrementi degli emolumenti dei bravissimi banchieri
europei.
Il rovescio
della medaglia è che il 2015 per le banche europee è stato, sotto molti
aspetti, un anno da dimenticare. Mediamente il valore azionario della banche
del continente vecchio ha subito una contrazione del 28%, mentre quella
sofferta dalle loro consorelle americane (esattamente nelle stesse acque
procellose) è stata dal 7%. Le banche europee si sono mosse lentamente, e
soprattutto tardivamente, nei confronti dei loro crediti inesigibili o quasi;
sono state e sono maggiormente esposte ai mercati emergenti e sono alle prese
con tassi d’interesse negativi. Il Roe (il rendimento sul capitale investito) è
stato appena del 7%.
Il problema
centrale è che anni di stagnazione economica (a cui secondo alcuni non sono del
tutto senza responsabilità la politiche d’integrazione europea) hanno reso
relativamente piccole anche le maggiori banche europee. JPMorganChase ha una
capitalizzazione pari a quattro volte quella della più grande banca francese,
BNP Paribas. La Wells Fargo vale tre volte la maggiore banca dell’eurozona, il
Santander.
Questi dati
suggeriscono non solamente che non è il tempo di darsi troppe pacche sulle
spalle a vicenda, ma di completare l’unione bancaria e l’unione dei mercati dei
capitali – strumenti necessari per rafforzare le banche europee in un contesto
globalizzato.
Indicano
soprattutto che nel prossimo futuro numerose banche dell’Europa continentale
potranno diventare prede appetibili di istituti finanziari americani. E’ utile
ricordare che già adesso il 38% delle esportazioni americane in servizi
finanziari (escludendo le assicurazioni) è alla volta dell’Unione Europea (UE).
Di converso, il 50% circa delle importazioni americane in servizi finanziari
(includendo, però, le assicurazioni) viene dall’UE. In materia di servizi
finanziari – è noto- USA ed UE hanno regole molto differenti, specialmente per
ciò che attiene alla contabilità, agli accantonamenti prudenziali ed alla
vigilanza.
Inoltre,
mentre le famiglie europee sono contraddistinte da un tasso di risparmio
elevato (con la eccezione di quelle di Romania e Bulgaria), quelle americane
hanno un tasso di risparmio appena pari al 5% del reddito disponibile. Di
converso, la redditività degli investimenti è più elevata negli USA (un ROE
attorno al 9%) che nell’UE (circa il 6%). Quindi, non mancano gli appetiti di
acquisire banche europee per incamerare risparmio da investire negli Stati
Uniti. Nessuno, però, ne parla.
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