L’Opera da tre soldi. Il contributo del novantenne Boulez
Boulez ha una personalità
al tempo stesso enigmatica, densa e gioviale. Non lo vedo da alcuni anni, da
quando diresse il trittico di Schönberg, Stravinsky e De Falla al minuscolo ma
perfetto Jeu de Paume di Aix-en-Provence, mentre gli intérmittants – i
lavoratori dello spettacolo e della cultura – protestavano per la riduzione
delle loro indennità di disoccupazione tra un ingaggio e l’altro. Le proteste,
che comportarono la sospensione del festival per quell’anno, erano tali da
minacciare la rappresentazione. Boulez (non certo definibile come un
intellettuale di destra) restò imperturbabile e continuò a dirigere anche dopo
l’irruzione dei manifestanti nella sala. La precisione, la fermezza e il
sentimento con cui diresse Pierrot Lunaire di Schönberg (con Anja Silja come
protagonista) bloccò, quasi per incantesimo, i dimostranti e fece sì che lo
spettacolo continuasse sino alla fine. I suoi tempi erano serrati (noto il Ring
del 1976 a Bayreuth, complessivamente più breve di venti minuti di quello di
Karajan), il suo gesto imperioso, il suo senso della teatralità raramente è
stato eguagliato. Il giorno dopo, in un bistrot, ne conversava e sorrideva: il
potere della musica mostra ancora i propri denti.
Daniel Barenboim ci
coglie meglio di molti altri: Boulez sarà per me sempre un uomo del futuro che,
come tutti veri uomini del futuro, si distinguono dai falsi in quanto conoscono
il passato e ne sono interessati.
Pierra Laurent Aimard
(raggiunto tramite l’eccellente ufficio stampa del Festival) afferma: l’aspetto
straordinario di Boulez è la sua etica musicale, una vera passione di un uomo
il cui interno brucia irresistibilmente di musica e lo si avverte dal secondo
giorno che lo si ascolta.
Simon Rattle aggiunge: ha
cambiato il modo in cui pensiamo e strutturiamo la musica.
Lui stesso afferma:
comporre è vedere opportunità quando altri non vedono nulla.
Gli scaffali delle biblioteche sono pieni di libri sulla sua vita e sulle sue
opere. Iniziò, come molti suoi coetanei, a comporre secondo uno stile seriale
dodecafonico post-weberniano. Con il provocatorio slogan “Schönberg est mort!”,
assieme al tedesco Karlheinz Stockhausen e al belga Henri Poussen, operò
il radicale tentativo di serializzare ogni fattore costitutivo della
composizione, non solo le altezze, ma anche durate, dinamiche, timbri, modi di
attacco ecc., portando alle estreme conseguenze la dodecafonia. Tuttavia – ed è
questo, a mio avviso, un suo contributo essenziale – non restò ancorato a
quella che divenne la Scuola di Darmstadt, una scuola fortemente ideologizzata.
Nel 1970, con il supporto
del presidente Georges Pompidou, fonda l’IRCAM, un istituto per la ricerca e lo
sviluppo della musica contemporanea. Oltre a essere il direttore dell’istituto,
in parallelo aveva presso il prestigiosissimo Collége de France la cattedra di
Invention, technique et langage en musique. L’IRCAM non fu e non è, come
scrivono alcuni, il contrapposto di Darmstadt, ma ne ruppe il monopolio, anche
ideologico.
Una volta abbattute tutte
le pregiudiziali ideologiche che hanno rappresentato al tempo stesso uno
stimolo e un limite per i compositori sino all’inizio degli Anni Ottanta, siamo
un momento di invidiabile libertà stilistica. Questo porta a una grande varietà
di approcci: dal linguaggio tonale al serialismo, tutti gli stili sono
rappresentati nelle partiture arrivate. Le più interessanti sono quelle che
abbandonano ogni rigidità per far confluire in una lingua musicale nuova tutte
quelle tendenze che hanno animato il passato recente.
Con le sue azioni di
rottura, Pierre Boulez ci ha reso tutti più ricchi.
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