Aida come l’avrebbe voluta Verdi
23 - 04 - 2015Giuseppe PennisiIl cast vocale vede Csilla Boross / Maria Pia Piscitelli (24, 28, 30, 3) nel ruolo della protagonista, la schiava Aida; interpreti del giovane Radames saranno Fabio Sartori / Yusif Eyvazov (24, 28, 3 maggio) / Dario Di Vietri (giovedì 30); la sanguigna Amneris avrà la voce di Anita Rachvelishvili, al debutto romano, che si alternerà con Raffaella Angeletti (24, 28, 30, 3 maggio); Giovanni Meoni, da poco applaudito nel Rigoletto, e Kiril Manolov (24, 28, 30, 3 maggio) canteranno nel ruolo di Amonasro. Ancora nel cast Roberto Tagliavini (Ramfis) apprezzato dal pubblico capitolino, la scorsa stagione, nel ruolo di Maoemetto II, Luca Dall’Amico (Il Re), Antonello Ceron (Un Messaggero), Simge Büyükedes (Una Sacerdotessa). In scena, con il Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma, la prima ballerina Alessandra Amato, in alternanza con Annalisa Cianci, e Alessio Rezza.
È un allestimento che può non piacere a chi ama i film di Cecil B. DeMille e le messe in scene di Franco Zeffirelli; Alberto Fassini e Peter Stein scene grandiose, danze spettacolari e quant’altro in un Egitto visto come poteva immaginarlo Giuseppe Verdi nella tenuta di Sant’Agata attorno al 1870. Ma Verdi non la pensava proprio così: “Ho letto il programma egiziano. È ben fatto; è splendido di mise en scène, e vi sono due o tre situazioni, se non nuovissime, certamente molto belle. Ma chi l’ha fatto? Vi è là dentro una mano molto esperta, abituata a fare, e che conosce molto bene il teatro”. Così scriveva Verdi in una delle lettere che avviano il progetto di comporre una nuova opera su invito del Viceré d’Egitto, progetto che si concretizzerà con il varo di Aida al Teatro del Cairo, il 24 dicembre 1871, coronato da un enorme successo, destinato a ripetersi nei teatri di tutto il mondo. Pochi sanno il Khedivé d’Egitto Ismāʿīl Pascià era d’origine albanese, come suo nonno Mehmnet Alì, il quale aveva avuto, per così dire, l’Egitto “in dono” da Napoleone, di cui era stato fedele e fidato generale. Al Cairo aveva mantenuto la consuetudine delle “famiglie-bene” di Durazzo: si parlava italiano per non mischiarsi con le varie tribù dell’Albania, ciascuna della quale parlava un dialetto differente. La prassi venne conservata sino agli Anni Cinquanta; infatti il primo Re d’Egitto a padroneggiare l’arabo fu quel Faruk esiliato nella Via Veneto della Dolce Vita.
Ismā’l era un modernizzatore. Amava ripetere l’Egitto non è l’Africa e non ne fa parte. Avviò un vasto programma di riforme interne, sull’esempio di suo nonno, rimodellando il sistema doganale e postale, stimolando il progresso commerciale, creando un’industria saccarifera, facendo edificare palazzi, finanziando generosamente la costruzione e la manutenzione di un importante teatro dell’Opera e di un non meno importante teatro di prosa (dove venivano invitate compagnie prevalentemente italiane e francesi). Dette grande impulso alla crescita urbanistica del Cairo, edificando un’intera nuova città nella sua periferia occidentale, prendendo come esempio Parigi. Alessandria fu anche oggetto delle sue cure. Avviò un vasto progetto ferroviario che vide l’Egitto e il Sudan passare dal nulla a una rete di rilevanza mondiale.
Fu attivo anche nel campo istituzionale .Una delle sue più significative realizzazioni fu la costituzione di un’Assemblea di Deputati nel novembre 1866. Sebbene essa avesse funzioni meramente consultive, i suoi componenti ebbero un’influenza notevole sugli affari politici ed economici governativi, dal momento che in essa era predominante la presenza dei capi-villaggio (omda), che fruivano di un grande seguito sul territorio. Ciò fu palese nel 1876, allorché l’Assemblea convinse Ismāʿīl a reintegrare la legge (da lui promulgata nel 1871 per incrementare gli introiti monetari statali ma più tardi revocata) che permetteva di acquisire proprietà fondiarie e altri privilegi fiscali a chi avesse pagato in anticipo le imposte fondiarie di sei anni.
Il Khedivé era un modernizzatore anche nel commissionare opere. Organizzò una sorta di gara tra quelli che riteneva fossero i tre maggiori compositori su piazza: Verdi, Gounod e Wagner. Il terzo non ricevette neanche l’emissario di Sua Maestà. Gounod attraversava uno dei suoi momenti mistici e propose qualcosa di mistico (aveva fatto diventare cattolico anche Faust) Verdi comprese dall’inizio che ci voleva qualcosa di tradizione egiziano ma non era più nella fase del grand-opéra (come Jérusalem, Les Vêpres Siciliennes oppure Don Carlos) e aveva chiare le dimensioni del Teatro che si stava costruendo al Cairo e le sue attrezzature. Quindi, cercò qualcosa che fosse essenzialmente intimista (con normalmente due o tre personaggi in scena, dando però sfogo ad un grande concertato a metà spettacolo).
Che c’entra tutto questo – mi si chiederà- con il nuovo allestimento di Aida? In effetti, il vostro “chroniqueur”, melomane errante dall’età della pubertà (o giù di lì), ha avuto modo di assistere a una rappresentazione al Teatro dell’Opera del Cairo nel lontano gennaio 1969, in occasione del centenario dell’apertura dell’edificio – un grazioso teatro all’italiana (una replica del Teatro Valle di Roma) con una capacità 700-800 posti con tre ordini di palchi e barcacce, distrutto da un incendio all’inizio degli Anni Settanta. La prima impressione che dava il teatro era il suo carattere intimo (e un’acustica magnifica, ai livelli di quel prodigio che era, prima di un provvido restauro con cui il parquet è stato coperto da moquette, il Massimo Bellini di Catania). Lo stesso palcoscenico era poco profondo e con un boccascena di dimensioni tutt’altro che grandiose; se sulla scena le masse (coro e comparse) potevano essere una cinquantina, il golfo mistico poteva ospitare 50-60 orchestrali al massimo. Vi era, comunque, spazio per le due arpe prevista da Verdi. Era un momento di stretta cooperazione tra la Repubblica Araba Unita guidata da Nasser e la Repubblica Democratica Tedesca: si rappresentava Wozzeck di Berg con la regia di Ruth Berghaus. Indubbiamente, un titolo verdiano sarebbe stato più gradito meglio compresa.
Una visita, anche una sola, al teatro che l’ha commissionata rende immediatamente evidente che l’Aida quale pensata da Verdi era molto differente dai magniloquenti allestimenti correnti. Lo chiarisce la lettura della partitura: un esempio, non si richiedono quattro (o addirittura sei) arpe, ma due (di cui una in scena, in modo in effetti da potere essere suonate da una sola arpista). Aida è, in effetti, un’opera intimista (anche se le scene a due o tre personaggi sono incastonate in momenti corali). Pure Verdi aveva immaginato una tomba dove far concludere il dramma. Così l’ Aida comincia e finisce in un clima tenebroso, sepolcrale. Le foto mostrano un’opera dove in molti quadri prevale un blu profondo, cobalto. La scena unica è essenziale e corredata da giochi di luce, come faceva Adolphe Appia per i lavori di Wagner.
È la prima delle tre ultime opere di Verdi, che non aveva ancora assistito al Lohengrin di Wagner, ma aveva già superato il melodramma e si era posto su un sentiero non molto differente dal musikdrama wagneriano: flusso orchestrale ininterrotto nelle sette scene (ma divise in “numeri”), equilibrio mirabile tra golfo mistico e voci, integrazione completa dei ballabili nelle singole scene, impiego del declamato, e utilizzazione di motivi conduttori in forma non mnemonica, ma sintattica (si pensi alle “riprese” del notturno d’archi ascoltato inizialmente nel preludio e ripetuto, con varie modificazioni, in più momenti dell’opera).
Una quindicina d’anni fa, la Fondazione Toscanini porta in giro un’Aida quasi come la avrebbe voluta Verdi; il “quasi” è d’obbligo a motivo di alcuni tagli ai ballabili (per ragioni di economia e di trasportabilità). L’allestimento era nato da un’idea geniale di quel diavolaccio di Franco Zeffirelli (autore di regia e scene; i bei costumi erano di Anna Anni). Scene dipinte di un Egitto vagamente art déco, una recitazione accuratissima da parte di un cast giovane (se ne alternano tre) scelto tramite una selezione internazionale, cinquanta brillanti (e giovani) orchestrali, danze ridotte al minimo. Non era un Aida iconografica: puntava sul dramma d’amore e gelosia (con un Amneris principessina capricciosa e impudente) più sul contesto politico-spettacolare. Quella lettura faceva sì che si comprendesse ciascuna parola (anzi ciascuna intonazione) di un libretto meno banale di quanto presentato nella vulgata su Verdi.
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