OPERA/ Con Jenüfa di Leoš
Janáček, Bologna fa centro
Pubblicazione:
lunedì 20 aprile 2015
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NEWS Musica
Jenüfa di Leoš Janácek - in scena a Bologna
sino al 23 aprile -gareggia con Die Soltaden di Bernd Alois Zimmermann,
visto in gennaio alla Scala, in quanto miglior spettacolo di teatro in musica
della stagione in corso tra quelli presentati in questi primi mesi.
Ambedue
hanno lo stesso regista, il lettone Alvis Hermanis, che solo di recente si è
dedicato alla lirica (dopo due decenni di teatro drammatico) e di cui ho visto
un intellingentissimo Cosi fan tutte alla Komishe Oper di Berlino (ad
onor del vero non ho parimenti apprezzato il suo osannato Il Trovatore presentato
nel 2014 a Salisburgo e riproposto, a grande richiesta, per il Festival estivo
2015. Le regie di Hermanis non solo rendono plausibili opere che numerosi
musicologici e sovrintendenti ritengono non rappresentabili (come Die
Soltaden) ma scavano nei contenuti etici (spesso non visibili ad una prima
superficiale lettura).
E’ il caso
di Cosi fan tutte in scena a Berlino. Lo è ancora di più quella della
sua Jenüfa coprodotta dal Teatro Comunale di Bologna con il
Théâtre de la Monnaie di Bruxelles e con il Bolshoi di Mosca (dove entrerà in
repertorio). Ciò distingue questa edizione da quelle viste, negli ultimi
vent’anni, alla Scala, al San Carlo, al Comunale di Firenze, al Verdi di
Trieste, al Nuovo di Spoleto e nel circuito emiliano negli Anni Settanta del
secolo scorso nel quadro di una tournée di un teatro dei balcani.
Di solito Jenüfa
(che debuttò a Brno in Moravia nel 1904 ma giunse in Italia solamente
decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale) viene presentata come il
drammone verista da cui è tratta. In un villaggio della Moravia all’inizio del
Novecento, la bella Jenufa, figliastra della Sacrestana, è corteggiata
dall’aitante Steva, che, messala incinta, l’abbandona. Ne è innamorato (e
continua ad esserlo pur dopo essere messo a conoscenza dello stato della
ragazza), il fratellastro di Steva, Laça. Per far sì che Laça non desista da
propositi matrimoniali, la Sacrestana fa morire il neonato esponendolo al
freddo. L’infanticidio viene scoperto proprio durante la festa di nozze tra
Jenufa e Laça, il quale si stringe ancora di più alla moglie, aiutandola a
cercare speranza e riscatto nonostante la riprovazione della società che li
circonda.
Per Leos
Janacek, autore tanto del testo quanto della musica, Jenüfa rappresentò,
a 50 anni d’età circa, l’opportunità di scavare nella complessità dell’animo
umano e di innovare profondamente nella scrittura musicale. Furono necessari
dodici anni (e l’entusiasmo dell’intellettuale tedesco Max Brod) perché da un
teatro di provincia (quello di Brno), il lavoro raggiungesse l’opera nazionale
di Praga e, quindi, i maggiori palcoscenici tedeschi e Londra, per essere
considerato uno dei maggiori capolavori del Novecento.
Scava
nell’animo umano principalmente entrando nella psiche più profonda dei tre
protagonisti (la Sacrestana, Jenüfa e Laça); Steva è un immaturo gaglioffo e la
borghesia del villaggio (dal sindaco al prete) un contrappunto di uomini e
donne piccoli piccoli. Lo fa presentando in scena ciò che nessuno (neanche del
più granguignolesco verismo italiano) portando sul palcoscenico il dramma di
una ragazza madre e della matrigna (la Secrestana) che più desidera il suo
bene. La soluzione è nella trascendenza : lo si avverte nello struggente Salve
Regina del secondo atto e ancor più nel sorprendente grande arioso finale.
Tanto più
sorprendente in quanto nei novanta minuti precedenti non c’è stata né un’aria
né un duetto né un concertato. Il libretto è in prosa e i versi e la scrittura
musicale è un mosaico di frammenti emotivi, spesso contraddittori, che si
scompongono e ricompongono in continuazione, fondendosi con il parlato in quanto
ogni nota ed ogni registro è plasmato sulla parola (e viceversa).
Due parole
sulla parte musicale dello spettacolo. In buca l’orchestra è diretta da Juraj
Valcuha con grande rigore ma – come vuole Janácek - ogni orchestrale è un
consumato solista: si pensi alle note dello xilofono con cui inizia l’opera.
Nel cast Angeles Blancas Gulin, di solito in ruoli di giovane donna avvenente
trionfa, truccato da donna anziana, nel difficile ruolo della Sacrestana ,
Andrea Dankova è una Jenüfa di forte piglio drammatico e vocale,
Brenden Gunnell è uno Laça cesellato e con magnifici do maggiore di
petto; Ales Briscein uno Steva , vanesio farabutto . Numerosi gli altri (tra
cui molti giovani italiana) che fanno da contrappunto piccolo borghese.
Geniale la
regia di Hermanis. Questa Jenüfa , con il suo significato
imperniato sul perdono umano e soprattutto divino, è atemporale. Un gigantesco
rosone circolare, sul quale campeggiano i profili di alcune figure femminili
sostituisce il sipario quasi fosse la ruota di un mulino, mossa da una società
matriarcale, arcaica, senza tempo. Il palcoscenico è diviso in due parti: in
basso e quasi sul boccascena i cantanti-attori con danzatori (coreografia di
Alla Sigalova) come basso rilievi di un muro; in alto, su gradoni, il coro
diretto con perizia da Andrea Faidutti. Ma il vero coup de
théâtre è che il primo e terzo atto si svolgono n ella Moravia mitica
delle favole (come immaginate nel 1904 a Vienna) mentre il secondo in una
povera casa morava del 1960 circa con una cucina vetusta, un vecchio frigidaire
ed una televisione in bianco e nero sempre accesa (anche se con l’audio
spento).
© Riproduzione Riservata.
CON ‘JENŰFA’ BOLOGNA FA
CENTRO
Giuseppe
Pennisi
Jenüfa di Leoš Janáček -in scena a Bologna sino
al 23 aprile gareggia con Die Soltaden di Bernd Alois Zimmermann, visto in gennaio alla
Scala, in quanto miglior spettacolo di teatro in musica della stagione in corso
tra quelli presentati in questi primi mesi. Ambedue hanno lo stesso regista, il
lettone Alvis Hermanis, che solo di recente si è dedicato alla lirica (dopo due
decenni di teatro drammatico) e di cui ho visto un intellingentissimo Cosi fan tutte alla Komishe Oper di
Berlino (ad onor del vero non ha parimenti apprezzato il suo osannato Il Trovatore presentato nel 2014 a
Salisburgo e riproposto , a grande richiesta, per il Festival estivo 2015. Le
regie di Hermanis non solo rendono plausibili opera che numerosi musicologici e
sovrintendenti ritengono non rapresentabili (come Die Soltaden) ma scavano nei contenuti etici (spesso non visibili
ad una prima superficiale lettura). E’ il caso di Cosi fan tutte in scena a Berlino. Lo è ancora di più quella della
sua Jenüfa
coprodotta dal Teatro Comunale di Bologna con il Théâtre de la Monnaie di
Bruxelles e con il Bolshoi di Mosca (dove entrerà in repertorio). Ciò distingue questa edizione da quelle
viste, negli ultimi vent’anni, alla Scala, al San Carlo, al Comunale di
Firenze, al Verdi di Trieste, al Nuovo di Spoleto e nel ‘circuito emiliano’
negli Anni Settanta del secolo scorso nel quadro di una tournée di un teatro
dei balcani.
Di solito Jenüfa (che debuttò a Brno in Moravia
nel 1904 ma giunta in Italia solamente decenni dopo la Seconda Guerra
Mondiale) viene presentata come il drammone verista da cui è
tratta. In un villaggio della Moravia all’inizio del Novecento, la
bella Jenufa, figliastra della Sacrestana, è corteggiata dall’aitante Steva,
che, messala incinta, l’abbandona. Ne è
innamorato (e continua ad esserlo pur dopo essere messo a conoscenza
dello stato della ragazza), il fratellastro di Steva, Laça. Per far sì che Laça
non desista da propositi matrimoniali, la Sacrestana fa morire il neonato
esponendolo al freddo. L’infanticidio viene scoperto proprio durante la festa
di nozze tra Jenufa e Laça, il quale si stringe ancora di più alla moglie,
aiutandola a cercare speranza e riscatto nonostante la riprovazione della
società che li circonda.
Per Leos Janacek, autore
tanto del testo quanto della musica, Jenüfa rappresentò, a 50 anni d’età
circa, l’opportunità di scavare nella complessità dell’animo umano e di
innovare profondamente nella scrittura musicale. Furono necessari dodici anni
(e l’entusiasmo dell’intellettuale tedesco Max Brod) perché da un teatro di
provincia (quello di Brno), il lavoro raggiungesse l’opera nazionale di Praga
e, quindi, i maggiori palcoscenici tedeschi e Londra, per essere considerato
uno dei maggiori capolavori del Novecento.
Scava nell’animo
umano principalmente entrando nella psiche più profonda dei tre protagonisti
(la Sacrestana, Jenüfa e Laça); Steva è un immaturo gaglioffo e la borghesia
del villaggio (dal sindaco al prete) un contrappunto di uomini e donne piccoli
piccoli. Lo fa presentando in scena ciò che nessuno (neanche del più
granguignolesco verismo italiano) portando sul palcoscenico il dramma di una ragazza
madre e della matrigna (la Secrestana) che più desidera il suo bene. La
soluzione è nella trascendenza : lo si avverte nello struggente Salve Regina del secondo atto e ancor
più nel sorprendente grande arioso finale. Tanto più sorprendente in quanto nei
novanta minuti precedenti non c’è stata né un’aria né un duetto né un
concertato. Il libretto è in prosa non ed i versi e la scrittura musicala è un
mosaico di frammenti emotivi, spesso
contraddittori, che si scompongono e ricompongono in continuazione , fondendosi
con il parlato in quanto ogni nota ed ogni registro è plasmato sulla parola (e
viceversa).
Due parole sulla
parte musicale dello spettacolo In buca l’orchestra è diretta da Juraj Valčuha con grande rigore ma – come vuole Janáček-
ogni orchestrale è un consumato solista: si pensi alle note dello xilofono con
cui inizia l’opera. Nel cast Angeles
Blancas Gulin, di solito in ruoli di giovane donna avvenente trionfa , truccato
da donna anziana, nel difficile ruolo della Sacrestana , Andrea Dankova è una Jenüfa
di forte piglio drammatico e vocale , Brenden Gunnell è uno Laça
cesellato e con magnifici do maggiore di petto; Ales Briscein uno Steva , vanesio farabutto . Numerosi gli altri
(tra cui molti giovani italiana) che fanno da contrappunto piccolo borghese.
Geniale la regia
di Hermanis. Questa Jenüfa , con il
suo significato imperniato sul perdono umano e soprattutto divino, è
atemporale. Un
gigantesco rosone circolare, sul quale campeggiano i profili di alcune figure
femminili, sostituisce il sipario ,
quasi fosse la ruota di un mulino, mossa da una società matriarcale, arcaica,
senza tempo. Il palcoscenico è diviso in un due parti: in basso e quasi sul
boccascena i cantanti –attori con danzatori (coreografia di Alla Sigalova) come
basso rilievi di un muro; in alto, su gradoni, il coro diretto con perizia da
Andrea Faidutti. Ma il vero coup de
théâtre è che il primo e terzo atto si svolgono n ella Moravia mitica delle
favole (come immaginate nel 1904 a Vienna) mentre il secondo in una povera casa
morava del 1960 circa con una cucina vetusta, un vecchio frigidaire ed una
televisione in bianco e nero sempre accesa (anche se con l’audio spento).
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