OPERA/ Simon torna in Laguna
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Boccanegra a La Fenice
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Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi torna a Venezia, dove nel 1857 cominciò
il suo complicato ed accidentato viaggio. Alla prima fu, tutto sommato, un
fiasco. Esiti leggermente più incoraggianti ebbe la ripresa, con alcune
modifiche a libretto e partitura, che girò per l’Italia centrale nel 1858-59.
Il primo successo fu alla Scala, profondamente rielaborato nel testo e nella
musica (con il supporto di Arrigo Boito) nel 1881. Restò, però, un ‘figlio’
amatissimo da Verdi ma poco apprezzato. A La Fenice, da dove aveva spiccato il
volo, è tornato nel 1885 per sole tre recite. Dal 1950 ce ne sono state sei
produzioni, di cui una, quella del 1961, che ha trionfato in una tournée del
teatro in Giappone.
Delle vicissitudini di Simon Boccanegra, abbiamo trattato
su IlSussidiario.net del 2 novembre in occasione delle
rappresentazioni alla Scala. Quindi, in questa recensione ci soffermiamo sulle
specifiche dello spettacolo de La Fenice. Occorre precisare che Simon
è il primo titolo di una doppia inaugurazione di quella che è riconosciuta
anche all’estero come la migliore fondazione lirica italiana in termini di
produttività (numero di recite) e bilanci. Andato in scena il 22 novembre, in
questa tornata di repliche resta in programma sino al 6 dicembre, ma dato che
La Fenice è un teatro di semi-repertorio vi tornerà nelle prossime stagioni. Il
23 novembre la doppia inaugurazione è stata completata con la ripresa de La
Traviata con la regia di Robert Carsen che dieci anni fa riaprì il teatro
ricostruito (dopo l’incendio) e che da allora se ne programmano una diecina di
repliche ogni anno. Nel 2014-15 sono in cartellone 35 recite de La
Traviata a ragione della grande richiesta di pubblico straniero che verrà
all’Expo di Milano. Ne tratteremo in un altro articolo.
La produzione di Simon a La Fenice va vista sotto tre
punti di vista: drammaturgia, concertazione e direzione orchestrale e voci. Per
‘drammaturgia’ si intende non solo regia e scene (Andrea De Rosa), costumi
(Alessandro Lai), luci e proiezioni (Pasquale Mari) ma l’intera lettura
drammatica del testo.
Nel prologo, i protagonisti sono giovani , sui venticinque anni di
età, con l’eccezione di Fiesco che sfiora la cinquantina. Nei successivi tre
atti, dopo un quarto di secolo dalle vicende del prologo, Boccanegra e Paolo
Albiani sono cinquantenni ancora in grado di desiderare donne. Fiesco / Grimaldi
è sui settanta anni (e guarda la vita con distacco e serenità), mentre Gabriele
Adorno e Maria/Amelia non hanno ancora trent’anni. Non è essere pedanti, ma
avere finalmente portato l’età dei protagonisti – alla Scala abbiamo visto due
baritoni di 73 e circa 80 anni alternarsi del ruolo di Boccanegra – rende
l’intreccio (tra la vicenda privata e quella politica) molto più credibile. A
La Fenice è chiaro l’intrigo che porta un giovane a lasciare il tanto amato
mare per entrare nella vita pubblica.
In secondo luogo, l’ambientazione. La Fenice, costruita in laguna,
non dispone né i mezzi tecnici né le risorse finanziarie de La Scala ed altri
teatri. Tuttavia, De Rosa ed i suoi colleghi hanno perfettamente carpito e reso
(molto meglio di altri) il senso di Simon Boccanegra: il desiderio del
ritorno al mare da dove è venuto (nel prologo). Il mare è sempre presente nelle
cinque scene dell’opera. E con esso la costa ligure. Abili giochi di luce ne
mostrano le onde, i colori del tramonto e dell’alba. Un unico elemento scenico
diventa di volta in volta il Palazzo dei Fieschi, la villa dei Grimaldi, la
sala del Gran Consiglio, i saloni del Palazzo Ducale, gli spalti del porto di
Genova. Senza mai perdere di vista quel mare da cui Simone è stato indotto a
partite e dove agogna tornare.
Ciò non vuole dire che vengano propinate cartoline
illustrate. Simon Boccanegra , nelle due tre versioni, è
opera cupa (specialmente in quella del 1858-59 di cui esiste , che io sappia,
una unica registrazione fuori commercio della BBC eseguita nel 2001). E sono
cupi i costumi (tranne quello di Amelia/Maria che anche per questo con la sua
invocazione alla pace si stacca dagli altri). Sono grigio-neri sia i plebei sia
gli aristocratici sia i Guelfi sia i Ghibellini di questo Medioevo immaginario
ma così vicino a noi.
Alcuni hanno trovato discutibile nel finale l’apparizione di Maria
(morta nel prologo); ha una sua forte logica drammaturgica che Simon desideri
di terminare la propria avventura terrena tra le braccia della donna da lui amatissima.
Veniamo alla concertazione, Myung-Whun Chung coglie appieno
l’ambiguità della partitura , bifronte in quanto rivolta da un lato verso il
passato del melodramma tradizionale e dall’altro verso l’avvenire del musikdrama .
Lo avvertiamo sin dal suggestivo preludio in mi maggiore, per introdurre un
lavoro in cui dominano le tonalità minori. La tinta è , in generale,
‘tenebrosa’ con grandi squarci melodici e teneri (i due duetti del primo atto).
L’equilibrio tra buca e palcoscenico è perfetto (anche a ragione delle
dimensioni de La Fenice). La concertazione è serrata (l’opposto di quella
dilatata di Barenboim) . Con accento sui chiaro-scuri; magnifici i violincelli
ed i fiati, principalmente i fagotti.
Tra le voci alcune vecchie conoscenze ascoltate in Simon negli
ultimi anni. Giacomo Prestìa è ormai il Fiesco/Grimaldi di riferimento sia in
Italia sia all’estero così come Julian Kim è uno dei rari Paolo Albiani in
grado di mostrare come il personaggio sia complesso quanto quello di Jago
in Otello. Francesco Meli, che ricordo come tenore lirico di
coloratura in un Così fan tutte a Parma una diecina di anni
fa, sta gestendo molto bene la propria vocalità, ora leggermente brunita e
spessita: anche grazie alla sua prestanza fisica è un Gabriele Adorno da manuale.
Maria Agresta ha cantato più volte la parte anche con Muti a Roma e Salisburgo:
è quella che Verdi chiamava ‘soprano assoluto’ in grado di transitare
agevolmente dal lirico dei duetti del primo atto alla vocalità drammatica del
quadro del Gran Consiglio e del resto dell’opera. La sera della prima ha avuto
qualche incertezza nel primo atto.
Il protagonista eponimo è Simone Piazzola . Non ha ancora
trent’anni e, credo, sia al debutto nel ruolo. Ci offre un Simone imponente (possente,
dice Gabriele Adorno) credibilissimo nella sua sofferta maturazione dai
venticinque anni ai cinquanta anni. Imponente nel grande arioso della scena del
Gran Consiglio: Tiene con precisione la zona medio acuta senza svettare
le registro sino al dolcissimo diminuendo (e pianissimo) finale.
Grande successo. Ovazioni. E lacrime.
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