GEO-FINANZA/
Gli accordi che svelano il nostro "buco"
Pubblicazione: lunedì 24 novembre 2014
Matteo Renzi (Infophoto)
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NEWS Economia e Finanza
L’Italia è alle prese con una nuova sfida, ma a Roma e
a Milano pare non accorgersene nessuno. Se ne parla in cenacoli come quelli
dello Iai, dell’Ispi, della Fondazione Ugo La Malfa, dell’Istituto Bruni Leoni,
ma non si è sentita voce istituzionale. Neanche un tweet dal Presidente del
Consiglio, Matteo Renzi o dai Ministri preposti (Affari esteri e Sviluppo economico)
o da enti sempre sul punto di essere chiusi o riformati, come l’Ice. Proprio a
quest’ultimo, la nuova sfida darebbe spunto per una nuova e più forte ragione
di vita.
In breve, la globalizzazione che sembrava sgretolarsi
dopo la crisi del 2008 è tornata alla grande. Questa è la conclusione a cui
giungono Pankaj Ghemawat della Stern School della New York University e Steven
Altman della Business School dell’Iese. Hanno compilato il Global Connectedness
Index della Dhl sulla base di dati di 140 paesi che rappresentano il 99% del
Pil e il 95% della popolazione mondiale. Utilizzano una vasta congerie di
indicatori per misurare l’ampiezza e la profondità dell’integrazione
internazionale: flussi commerciali, movimenti di capitale, migrazioni, rapidità
e diffusione delle informazioni.
Secondo lo studio, dopo un arresto nel 2008-2009, la
globalizzazione ha ripreso, più in profondità che in ampiezza. L’eurozona
è rimasta un po’ all’angolo (e l’Italia in particolare è tra i fanalini di
coda). Soprattutto, dopo una fase della globalizzazione pilotata dal mondo
“avanzato” occidentale, adesso le imprese dei grandi paesi occidentali stanno
rispondendo stancamente, e con un colpevole ritardo, alla tendenza, con il
rischio di trovarsi spiazzate sui mercati più dinamici. Nel 2013, ad esempio, i
Paesi in via di sviluppo emergenti hanno rappresentato (con il 36% della
popolazione mondiale) il 17% degli utili delle cento maggiori imprese
internazionali. L’anno scorso i paesi che hanno “globalizzato” di più
(abbattendo barriere) sono quelli dell’America Latina e dei Caraibi.
Particolarmente veloce, la globalizzazione delle informazioni, in accelerazione
dal 2010.
Tra gli indicatori di integrazione internazionale,
mentre i flussi finanziari sono in ripresa, preoccupa il commercio. Nel lontano
autunno 2000, nell’ambito della Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio)
si aprì a Doha un negoziato multilaterale che avrebbe dovuto rimuovere le
ultime restanti restrizioni agli scambi internazionali, particolarmente nei
comparti dell’agricoltura e dei servizi. Sinora il negoziato non ha portato a
nulla di concreto. È nel frattempo scaduta “l’autorizzazione” data dal
Congresso americano al Presidente di presentarne i risultati per una ratifica
in blocco.
C’è stato un pullulare di accordi bilaterali che hanno
reso il commercio internazionale un vero e proprio labirinto. Su proposta della
Casa Bianca sono iniziati negoziati per due vaste aree di “partnership”
economica e commerciale - attraverso l’Atlantico e il Pacifico. Queste due
trattative stanno proseguendo. Purtroppo, l’Italia pare schierata con la
Francia in materia di “eccezioni culturali” (un termine nobile per indicare
meno nobili protezioni dell’audiovisivo), dimenticando che un commercio più
libero è la premessa per un mondo più libero. Speriamo che cambi idea e linea.
Anche e sopratutto perché il 13 novembre, gli Stati
Uniti e l’India hanno raggiunto, dopo anni di trattative che bloccavano il
negoziato multilaterale, un accordo sul commercio agricolo (in particolare
sugli stoccaggi delle derrate alimentare) a cui si lavorava sin dal Kennedy
Round degli anni Sessanta del secolo scorso. Non è questa la sede per
analizzare i dettagli tecnici di un accordo, i cui lineamenti erano già stati
posti alla riunione ministeriale Wto in dicembre 2013 a Bali. Secondo stime
dell’ufficio del Rappresentante speciale del Presidente Usa per i negoziati
commerciali - se sbloccato questo nodo la trattativa multilaterale si riapre -,
l’accordo potrebbe portare a 21 milioni di nuovi occupati e aggiungere mille
miliardi di dollari al Pil dell’economia mondiale. I Paesi in via di sviluppo
dovrebbero fare uno sforzo in investimenti, anche infrastrutturali, per gli
stoccaggi.
Occorre a questo punto chiedersi quale è la posizione
del Governo italiano in sede di Unione europea (la Commissione europea negozia
per tutti in base al Trattato di Roma) e se siamo pronti a rimuovere la nostra
pregiudiziale sulla “eccezione culturale”. Si gradisce risposta.
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