Giuseppe Pennisi, presidente
del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna
Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica
Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.
Il Documento di Economia e Finanza (modificato in
seguito a scambi di veduti con le autorità europee) è all’esame delle Camere.
C’è stata, sulla stampa e nel dibattito pubblico, molta attenzione sugli
aspetti macro-economici e una certa disattenzione su liberalizzazioni e
privatizzazioni. In effetti da anni il programma che le prevede sembra
bloccato. Il Governo Monti non riuscì a privatizzare neanche il Touring Club,
pur avendoci provato: le Camere vennero sciolte e si andò al voto prima che l’iter
parlamentare venisse espletato.
Un programma a breve termine (12-18 mesi) per l’Italia
è stato delineato nel discorso dell’allora presidente del Consiglio Letta alle
Camere, nel quale si precisava che nel 2014 la cessione di quote societarie
avrebbe dovuto far entrare nelle Casse dello Stato una cifra complessiva tra i
10 e i 12 miliardi di euro. Le prime dismissioni avrebbero riguardato una
partecipazione di controllo di Poste Italiane e Enav (deliberata il 24 gennaio
2014 dal Consiglio dei Ministri) a cui avrebbero fatto seguito quelle di Sace e
Grandi Stazioni (partecipata al 59,99% dalle Ferrovie dello Stato Italiane)
nonché di quote non di maggioranza di Stm, Fincantieri, Cdp Reti ed Eni. A
queste indicazioni, occorre aggiungere la privatizzazione per almeno 500
milioni l’anno di patrimonio immobiliare. Secondo un’analisi effettuata
dall’Università Bocconi), l’ipotesi di ricavi dalla cessione di quote
societarie dello Stato può potenzialmente raggiungere i 90 miliardi di euro
(ovviamente su un arco pluriennale); ciò non tiene conto di circa 6000 Spa,
Srl, Fondazioni ed altro partecipato da un numero analogo di enti locali.
Glocus e l’Istituto Bruno Leoni hanno tracciato un
percorso possibile per attuare un programma di denazionalizzazioni più
ambizioso di quello sino ad ora annunciato dal Governo. Dopo tre anni di
virtuale stasi nel programma di privatizzazioni si stava creando il clima e
ponendo le basi per un rilancio della nazionalizzazione del patrimonio pubblico
– quanto meno di quello ‘statale’ – sia delle partecipazioni societarie sia
delle proprietà immobiliari. La caduta del Governo Letta ha provocato una
frenata se non un vero e proprio arresto del programma.
Nel Def si prevede la cessione delle quote di
minoranza in Poste Italiane, Enav e l’intera cessione della quota di SHT,
holding di controllo della società operativa STMicroelectronics. Gli advisors
sono al lavoro. È presto per effettuare stime. In una prima versione, si
sarebbero dovute cedere anche quote di Enel e di Eni – come dichiarato dal Ministro
dell’Economia e delle Finanze – ma lo stesso presidente del Consiglio ha
precisato in un’intervista al ‘Corriere della Sera’ che, per il momento, non se
parla: Enel ed Eni apportano utili considerevoli alla pubblica amministrazione
e i mercati sono tali che si potrebbe pensare ad una ‘svendita’. A mio avviso,
anche il modesto programma delineato prende l’avvia da un’ottica ristretta ove
non errata: fare cassa per ridurre lo stock di debito pubblico. Un obiettivo
lodevole ma occorrerebbe uno schema molto più vasto (almeno 3-400 miliardi) di
quanto preconizzato. Inoltre, lo scopo primario dovrebbe essere quello di
ridurre la sfera pubblica e i lacci che comporta per l’economia italiana.
È uscito in questi giorni un saggio di un giovane
professore aggregato della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma
III. Si chiama Cosimo Magazzino e si è dato un compito difficile: studiare –
non a chiacchiere, ma sulla base di dati quantitativi – il nesso tra le
dimensioni della macchina pubblica e la crescita dell’economia italiana dalla
nascita del Regno d’Italia alla vigilia della crisi più recente. Il lavoro,
“Government Size and Economic Growth in Italy: an Empirical Analysis Based on
new Data (1861-2008)”, è apparso sull’ultimo fascicolo dell’International
Journal of Empirical Finance (pp.38-54) e ha suscitato notevole interesse
presso la Commissione Europea, la Banca centrale europea, l’Ocse ed il Fondo
monetario; ossia coloro che, per dovere più che per diletto, studiano le nostre
politiche ed i nostri conti. La conclusione è che in Italia non c’è una
relazione lineare tra la dimensione del settore pubblico (misurata in termini
di spesa pubblica in percentuale del Pil) e la crescita economica. In generale,
negli ultimi vent’anni dell’analisi il nesso è una “curva a U invertita”: ciò
vuol dire, in parole povere, che “riduzioni delle spese possono sveltire la
dinamica del Pil”. Dallo studio si evince anche che negli anni del Regno
Sabaudo, il “pareggio di bilancio” raggiunto per breve periodo ha rallentato
l’aumento del prodotto nazionale.
Occorre tenerne conto ed aprire un dibattito, non
passarlo sotto silenzio come si è fatto con l’Appello Politico agli Italiani
dell’Osservatorio Internazionale Cardinal Van Thuan sulla Dottrina Sociale
della Chiesa, pubblicato alcuni mesi fa dall’Editore Cantagallo. Pochi
conoscono questo Osservatorio, intitolato all’expresidente del Pontificio
Consiglio Justitia et Pax. Un’alta personalità ecclesiastica vietnamita che non
lasciò i suoi fedeli alla caduta di Saigon e venne imprigionato in isolamento
per diversi anni (nella sua cella un altoparlante suonava musica marziale 24
ore su 24). San Giovanni XXIII lo volle al suo fianco quando venne finalmente
liberato perché contribuisse alla pace ed alla giustizia nelle aree più lontane
del mondo. Il dicastero da lui diretto produsse, tra l’altro, il Catechismo
sulla Dottrina Sociale della Chiesa. L’Osservatorio, composto da personalità di
alto livello, ha redatto l’Appello perché vede nell’Italia un Paese smarrito,
con un popolo alla ricerca di speranza. Le sue proposte sono articolate. Il
volume (86 pagine) inizia con la visione di un popolo che ritorna a credere in
sé stesso e delinea un nuovo patto costituzionale sostanziale. Contiene
naturalmente proposte puntuali di politica istituzionale ed economica: da una
legge elettorale per evitare un eccessivo premio di maggioranza a una riforma
della giustizia che dia certezze a libertà di educazione, da un nuovo patto di
solidarietà e di produzione a una politica di privatizzazioni che prenda
l’avvio con quella della Rai.
Privatizzare la Rai vuol dire dare azioni Rai a tutti
gli italiani. Seguendo quale metodo? Quello dell’età anagrafica: quanto più si
è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo,
Carrà e quant’altro), avendo dunque titolo a un risarcimento con azioni da
impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo
– ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma a essere
destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta
dell’interessato, il quale però manterrebbe tutti i diritti (elezione degli
organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti)
di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno).
Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: il pareggio di
bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce
sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa
societaria in vigore, se l’indebitamento superasse certi parametri la
liquidazione diventerebbe obbligatoria. E il “servizio pubblico”? Nell’età
della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le
Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti
di informazione e contro-informazione pullulano, tanto generalisti quanto
specializzati.
Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il “Partito
Rai” vorrebbe tornare a tempi leninisti, come la protagonista del film
“Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo,
pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali
palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura
dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In
alternativa, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor,
quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora
si potrebbero adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti
televisivi culturali, come già avviene con successo nel settore del cinema.
Quella della Rai è ‘la madre di tutte le
privatizzazioni’ per il ruolo che ha l’informazione nel mercato dei beni e dei
servizi. Se un tempo la statalizzazione della Rai poteva essere giustificata
come monopolio tecnico da forze politiche non democratiche, il passaggio
dall’analogico al digitale terrestre ha reso questo argomento risibile. Lo ha
ribadito lo stesso Romano Prodi in un convegno a Bologna nel corso del quale ha
ricordato i tentativi fatti nel 1997, falliti a ragione dell’opposizione del
“Partito Rai”. In nessun Paese, neanche nelle dittature dell’Asia centrale,
esiste una radio-tv di Stato con 15 canali; la stessa BBC (che ha governance
ben differente da quella della Rai ed un pubblico mondiale dato che opera in
inglese) ha soltanto cinque canali e pochissima pubblicità.
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