venerdì 3 ottobre 2014

Perché io, anziano melofilo, plaudo alle scelte del Teatro dell’Opera di Roma in Formiche 3 ottobre



Perché io, anziano melofilo, plaudo alle scelte del Teatro dell’Opera di Roma
03 - 10 - 2014Giuseppe Pennisi
Frequento il Teatro dell’Opera da quando avevo 12 anni, quindi da 60 anni. Negli Anni Cinquanta e Sessanta, con Sovrintendenti che operavano per lo più a titolo gratuito, il Teatro offriva 20 titoli l’anno a Piazza Beniamino Gigli e 6-8 l’estate alle Terme di Caracalla. Ogni anno veniva presentata una novità assoluta di un autore italiano o straniero. Wagner ed i compositori slavi erano ogni stagione in cartellone. Venivano le migliori bacchette da tutto il mondo e le migliori voci.
Nel 1955 e nel 1961 il teatro mise in scena due produzioni della tetralogia wagneriana di cui si parlò sulle riviste musicali di tutto il mondo. Gli allestimenti scenici prestavano servizio a volte per decenni; spesso su tele dipinte e utilizzando il palcoscenico ruotante (azionato ad acqua) in una settimana erano in cartellone quattro differenti titoli. Il 26 dicembre, data dell’inaugurazione della stagione, era un appuntamento per il quale venivano critici e personalità da mezza Europa, nonostante le difficoltà dei trasporti dell’epoca.
Indubbiamente, molto è cambiato. In primo luogo, il cinema e la televisione hanno portato via pubblico all’opera. In secondo, la mancanza di formazione musicale fa sì che le giovani generazioni non siano attratte a questa tipologia di spettacolo; è un fenomeno molto italiano perché i teatri tedeschi, americani ed anche giapponesi, cinesi e coreani straboccano di giovani. In terzo, la gestione dei teatri ed i comportamenti delle masse artistiche hanno spesso lasciato a desiderare: non acquisto biglietti se c’è la prospettiva di scioperi selvaggi. L’anziano melofilo riesce ad assistere a tre-quattro opere la settimana viaggiando per l’Italia e l’estero e grazie al canale Classica di Sky, a Rai 5 e alle stagioni del Metropolitan e del Covent Garden in HD in diretta, o leggermente differita, nei principali cinematografi.
Pensereste che si strappa i capelli per le decisioni del Consiglio d’ Amministrazione (CdA) del Teatro dell’Opera di Roma Capitale e della decisione di mettere alla porta coro ed orchestra.
Su Formiche.net del 27 luglio, a fronte degli “scioperi selvaggi” che hanno danneggiato l’immagine di Roma in tutto il mondo,ho ricordato che:
- Il Teatro fruisce della sovvenzione pubblica per spettatore pagante più alta al mondo, circa mille euro (anche senza tenere conto dei 50 milioni impegnati dal Governo per risanarlo)
- Il complesso orchestrale (oltre 90 che si vorrebbero portare a 110) è il doppio di teatri come la Deutsche Oper Berlin che ogni anno fa oltre 220 recite di opere e balletto (rispetto alle 70 del Teatro dell’Opera)
- Il personale fruisce di indennità inaudite in senso etimologico in quanto mai udite nel resto del mondo quale la trasferta per spettacoli alle Terme di Caracalla ed il privilegio di non suonare in due repliche successive, anche se a diversi giorni di distanza.
- Alcuni tra le maggiori voci e le principali bacchette si rifiutano di lavorare a Piazza Beniamino Gigli e dintorni dato che non si hanno certezze sui calendari degli spettacoli.
Cosa fare? Riprendo la proposta che lanciai circa quindici anni fa su Il Foglio e su Il Messaggero quando si era alle prese con una situazione analoga; proposta che allora ebbe il supporto di Franco Mannino e Giuseppe Sinopoli.
Il CdA ha preso una strada differente: per salvare il Teatro, tenta di modernizzarlo, mettendo di fatto in liquidazione due rami d’azienda, dopo avere fatto dimagrire la parte amministrativa.
La decisione di esternalizzare i servizi artistici di coro ed orchestra non solo salva il teatro da un fallimento certo ma lo pone al passo con la migliore prassi internazionale. I Beliner Philamoniker e la Dresden Staatkapelle hanno contratti sia con importanti teatri d’opera sia con organizzazione sinfoniche; i Wiener Philarmiker hanno tre datori di lavori principali la Staatsoper, il Musikverein e il Festival di Salisburgo. Anche l’orchestra che abitualmente suona nei due maggiori teatri di Monaco è una cooperativa che opera su contratto di servizio con il National Theater ed il Prinzregent Theater. Il modello è diffuso anche in Spagna ed in Francia. A Parigi, il teatro des Champs Elysées e lo Châtelet producono opera ma si servono di volta in volta di differenti orchestre, come Les Arts Florissants e Les Musiciens du Louvre. In Olanda e Belgio risale al Rinascimento e non è mutato. Negli Stati Uniti credo che solo il Metropolitan House (che lavora tutto l’anno) ha un’orchestra ‘propria’. Il più ‘nobile’ dei teatri giapponesi, il Bunka Kaikan, opera nello stesso modo. L’elenco potrebbe continuare.
In Italia, per anni il Teatro Regio di Parma ha utilizzato una cooperativa di musicisti. Due dei migliori spettacoli visti in vari teatri italiani e stranieri (‘Il ritorno di Ulisse in Patria’ di Monteverdi e ‘Rinaldo’ di Hândel) sono stati portati in una decina di teatri da quel gioiello che è l’Accademia Bizantina diretta da Ottavio Dantone. In questi giorni l’orchestra milanese ‘I Pomeriggi Musicali’ accompagna in sette teatri italiani e tre francesi una versione radicale di ‘Don Giovanni’ con la regia di Graham Vick.
A Roma i professori rimasti a piedi possono organizzarsi in cooperative, eleggere il loro direttore principale (come avviene negli esempi citati) e gareggiare per appalti di servizio artistico. Nella capitale avranno la concorrenza dell’ottantina di orchestrali della Sinfonica romana che ha di recente chiuso in quanto, dopo undici anni, ha perso il suo maggiore sponsor; un complesso giovane, coeso e di grande qualità.
Uno dei maggiori studiosi di economia del teatro lirico, William Baumol, ha sempre auspicato un approccio del genere. Si potrà forse tornare agli antichi fasti.

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