Perché io, anziano
melofilo, plaudo alle scelte del Teatro dell’Opera di Roma
Frequento il Teatro dell’Opera da quando avevo 12
anni, quindi da 60 anni. Negli Anni Cinquanta e Sessanta, con Sovrintendenti
che operavano per lo più a titolo gratuito, il Teatro offriva 20 titoli l’anno
a Piazza Beniamino Gigli e 6-8 l’estate alle Terme di Caracalla. Ogni anno
veniva presentata una novità assoluta di un autore italiano o straniero. Wagner
ed i compositori slavi erano ogni stagione in cartellone. Venivano le migliori
bacchette da tutto il mondo e le migliori voci.
Nel 1955 e nel 1961 il teatro mise in scena due
produzioni della tetralogia wagneriana di cui si parlò sulle riviste musicali
di tutto il mondo. Gli allestimenti scenici prestavano servizio a volte per
decenni; spesso su tele dipinte e utilizzando il palcoscenico ruotante (azionato
ad acqua) in una settimana erano in cartellone quattro differenti titoli. Il 26
dicembre, data dell’inaugurazione della stagione, era un appuntamento per il
quale venivano critici e personalità da mezza Europa, nonostante le difficoltà
dei trasporti dell’epoca.
Indubbiamente, molto è cambiato. In primo luogo, il
cinema e la televisione hanno portato via pubblico all’opera. In secondo, la
mancanza di formazione musicale fa sì che le giovani generazioni non siano
attratte a questa tipologia di spettacolo; è un fenomeno molto italiano perché
i teatri tedeschi, americani ed anche giapponesi, cinesi e coreani straboccano
di giovani. In terzo, la gestione dei teatri ed i comportamenti delle masse
artistiche hanno spesso lasciato a desiderare: non acquisto biglietti se c’è la
prospettiva di scioperi selvaggi. L’anziano melofilo riesce ad assistere a
tre-quattro opere la settimana viaggiando per l’Italia e l’estero e grazie al
canale Classica di Sky, a Rai 5 e alle stagioni del Metropolitan e del Covent
Garden in HD in diretta, o leggermente differita, nei principali cinematografi.
Pensereste che si strappa i capelli per le decisioni
del Consiglio d’ Amministrazione (CdA) del Teatro dell’Opera di Roma Capitale e
della decisione di mettere alla porta coro ed orchestra.
Su Formiche.net del 27 luglio, a
fronte degli “scioperi selvaggi” che hanno danneggiato l’immagine di Roma in
tutto il mondo,ho ricordato che:
- Il Teatro fruisce della sovvenzione pubblica per
spettatore pagante più alta al mondo, circa mille euro (anche senza tenere
conto dei 50 milioni impegnati dal Governo per risanarlo)
- Il complesso orchestrale (oltre 90 che si vorrebbero
portare a 110) è il doppio di teatri come la Deutsche Oper Berlin che ogni anno
fa oltre 220 recite di opere e balletto (rispetto alle 70 del Teatro
dell’Opera)
- Il personale fruisce di indennità inaudite in senso
etimologico in quanto mai udite nel resto del mondo quale la trasferta per
spettacoli alle Terme di Caracalla ed il privilegio di non suonare in due
repliche successive, anche se a diversi giorni di distanza.
- Alcuni tra le maggiori voci e le principali
bacchette si rifiutano di lavorare a Piazza Beniamino Gigli e dintorni dato che
non si hanno certezze sui calendari degli spettacoli.
Cosa fare? Riprendo la proposta che lanciai circa
quindici anni fa su Il Foglio e su Il Messaggero quando
si era alle prese con una situazione analoga; proposta che allora ebbe il
supporto di Franco Mannino e Giuseppe Sinopoli.
Il CdA ha preso una strada differente: per salvare il
Teatro, tenta di modernizzarlo, mettendo di fatto in liquidazione due rami
d’azienda, dopo avere fatto dimagrire la parte amministrativa.
La decisione di esternalizzare i servizi artistici di
coro ed orchestra non solo salva il teatro da un fallimento certo ma lo pone al
passo con la migliore prassi internazionale. I Beliner Philamoniker e la
Dresden Staatkapelle hanno contratti sia con importanti teatri d’opera sia con
organizzazione sinfoniche; i Wiener Philarmiker hanno tre datori di lavori
principali la Staatsoper, il Musikverein e il Festival di Salisburgo. Anche
l’orchestra che abitualmente suona nei due maggiori teatri di Monaco è una
cooperativa che opera su contratto di servizio con il National Theater ed il
Prinzregent Theater. Il modello è diffuso anche in Spagna ed in Francia. A
Parigi, il teatro des Champs Elysées e lo Châtelet producono opera ma si
servono di volta in volta di differenti orchestre, come Les Arts Florissants e
Les Musiciens du Louvre. In Olanda e Belgio risale al Rinascimento e non è mutato.
Negli Stati Uniti credo che solo il Metropolitan House (che lavora tutto
l’anno) ha un’orchestra ‘propria’. Il più ‘nobile’ dei teatri giapponesi, il
Bunka Kaikan, opera nello stesso modo. L’elenco potrebbe continuare.
In Italia, per anni il Teatro Regio di Parma ha
utilizzato una cooperativa di musicisti. Due dei migliori spettacoli visti in
vari teatri italiani e stranieri (‘Il ritorno di Ulisse in Patria’ di
Monteverdi e ‘Rinaldo’ di Hândel) sono stati portati in una decina di teatri da
quel gioiello che è l’Accademia Bizantina diretta da Ottavio Dantone. In questi
giorni l’orchestra milanese ‘I Pomeriggi Musicali’ accompagna in sette teatri
italiani e tre francesi una versione radicale di ‘Don Giovanni’ con la regia di
Graham Vick.
A Roma i professori rimasti a piedi possono
organizzarsi in cooperative, eleggere il loro direttore principale (come
avviene negli esempi citati) e gareggiare per appalti di servizio artistico.
Nella capitale avranno la concorrenza dell’ottantina di orchestrali della Sinfonica
romana che ha di recente chiuso in quanto, dopo undici anni, ha perso il suo
maggiore sponsor; un complesso giovane, coeso e di grande qualità.
Uno dei maggiori studiosi di economia del teatro
lirico, William Baumol, ha sempre auspicato un approccio del genere. Si potrà
forse tornare agli antichi fasti.
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