Posted by rivistamusica
in Dalla platea
Tag
DE GIOSA Don Checco C. Romeu, F. Paesano, G.
Mastrototaro, S. Grigoli, B. Taddia, V. Nizzardo; Orchestra e Coro del Teatro
San Carlo, direttore Francesco Lanzillotta regia Lorenzo Amato
scene Nicola Rubertelli costumi Giusi Giustino
Napoli, Teatrino di Corte, 28 settembre 2014
Il Palazzo Reale di Napoli ha nel suo seno due gioielli di architettura teatrale: uno grande che esce da una delle sue ali e con i suoi giardini sfiora quasi il mare; ed uno piccolo e prezioso che contiene non più di 400 spettatori, il Teatrino di Corte, a lungo chiuso per restauri ed ora a pieno inserito nella programmazione della stagione della fondazione lirica partenopea con lavori che richiedono un palcoscenico di modeste dimensioni. Don Checco di Nicola De Giosa (a lui Bari ha intitolato una strada ed avrebbe voluto dedicare il Politeama Petruzzelli, dove però troneggia una sua grande statua). De Giosa è stato uno dei numerosi compositori pugliesi (e marchigiani) che diedero corpo a quelle che venne chiamata la scuola napoletana (fatta riscoprire da Riccardo Muti quando dal 2007 al 2011 ha diretto il Festival di Pentecoste a Salisburgo) poiché studiarono a San Pietro a Majella e lavorarono principalmente nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Alcuni musicologi (ad esempio Francesco Degrada) ritengono che una scuola napoletana non sia mai esistita poiché i compositori ad essa attribuita (Pergolesi, Cimarosa, Mercadante, Paisiello, Jommelli) seguivano strade profondamente differenti. Tuttavia, essi avevano in comune il gusto per un’opera comica meno barocca e meno lussureggiante di quella veneziana. De Giosa è comunque esponente tardivo della vera o presunta scuola. Fu allievo di Gaetano Donizetti e Saverio Mercadante (con cui ebbe una clamorosa lite e rottura). Era noto principalmente come maestro concertatore e direttore d’orchestra. Fu direttore musicale non solo del San Carlo, ma anche de La Fenice, del Colón di Buenos Aires e del Teatro dell’Opera del Caro, dove avrebbe dovuto dirigere la prima mondiale di Aida se il programma non fosse stato posposto di un anno a ragione della guerra franco-prussiano. La commedia in musica è del 1850; la prima ebbe un enorme successo e fu seguita da 98 repliche. Si contano un’ottantina di allestimenti da allora al 1880, non solo in Italia ed in Francia, ma anche a Malta ed al Cairo. Re Ferdinando di Borbone era molto legato al lavoro e voleva assistervi ogni volta che si rappresentava. L’edizione presentata a Napoli è coprodotta con il Festival di Valle d’Itria a Martina Franca, dove sarà in scena la prossima estate.
La trama è tipica della tradizione comica partenopea: amore contrastato, trasferimenti, inganni, lieto fine. Può sembrare una raccolta di banalità ma diventa un piccolo capolavoro di genere grazie alla bravura del librettista (Almerindo Spadetta) ed alla partitura di De Giosa. Grazie alla regia piena di brio e di ironia di Lorenzo Amato, il lavoro diventa una veloce ed esilarante presa in giro di un’opera comica tradizionale. Un po’ come, più tardi, Miseria e Nobiltà di Scarpetta sarebbe stata la parodia di una farsa. I tratti di situazioni e personaggi sono volutamente esagerati, anche sotto il profilo musicale (si pensi alla lunga ed elaborata cavatina del protagonista). La partitura è densa di citazioni ironiche; a volta abbastanza esplicite, più spesso di atmosfere, di “sonorità” che agiscono su un piano profondo dell’ascoltatore/spettatore. Il fil rouge ovviamente è l’ironia, a tratti sottile, in altri momenti decisamente critica e canzonatoria.
L’orchestrazione è molto complessa e raffinata e il giovane Francesco Lanzillotta (da poco Direttore Musicale dell’Orchestra Toscanini) la restituisce con eleganza e sapienza: una chicca il valzer con cui inizia la seconda parte. Tra i protagonisti, spiccano Carmen Romeu, in un ruolo più adatto a lei di quelli di recente interpretati a Pesaro, ed il buffo Bruno Taddia. Tutte voci giovani, tra cui particolarmente notevoli quelle del tenore Fabrizio Paesano ed il baritono Giulio Mastrototaro.
Giuseppe Pennisi
Napoli, Teatrino di Corte, 28 settembre 2014
Il Palazzo Reale di Napoli ha nel suo seno due gioielli di architettura teatrale: uno grande che esce da una delle sue ali e con i suoi giardini sfiora quasi il mare; ed uno piccolo e prezioso che contiene non più di 400 spettatori, il Teatrino di Corte, a lungo chiuso per restauri ed ora a pieno inserito nella programmazione della stagione della fondazione lirica partenopea con lavori che richiedono un palcoscenico di modeste dimensioni. Don Checco di Nicola De Giosa (a lui Bari ha intitolato una strada ed avrebbe voluto dedicare il Politeama Petruzzelli, dove però troneggia una sua grande statua). De Giosa è stato uno dei numerosi compositori pugliesi (e marchigiani) che diedero corpo a quelle che venne chiamata la scuola napoletana (fatta riscoprire da Riccardo Muti quando dal 2007 al 2011 ha diretto il Festival di Pentecoste a Salisburgo) poiché studiarono a San Pietro a Majella e lavorarono principalmente nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Alcuni musicologi (ad esempio Francesco Degrada) ritengono che una scuola napoletana non sia mai esistita poiché i compositori ad essa attribuita (Pergolesi, Cimarosa, Mercadante, Paisiello, Jommelli) seguivano strade profondamente differenti. Tuttavia, essi avevano in comune il gusto per un’opera comica meno barocca e meno lussureggiante di quella veneziana. De Giosa è comunque esponente tardivo della vera o presunta scuola. Fu allievo di Gaetano Donizetti e Saverio Mercadante (con cui ebbe una clamorosa lite e rottura). Era noto principalmente come maestro concertatore e direttore d’orchestra. Fu direttore musicale non solo del San Carlo, ma anche de La Fenice, del Colón di Buenos Aires e del Teatro dell’Opera del Caro, dove avrebbe dovuto dirigere la prima mondiale di Aida se il programma non fosse stato posposto di un anno a ragione della guerra franco-prussiano. La commedia in musica è del 1850; la prima ebbe un enorme successo e fu seguita da 98 repliche. Si contano un’ottantina di allestimenti da allora al 1880, non solo in Italia ed in Francia, ma anche a Malta ed al Cairo. Re Ferdinando di Borbone era molto legato al lavoro e voleva assistervi ogni volta che si rappresentava. L’edizione presentata a Napoli è coprodotta con il Festival di Valle d’Itria a Martina Franca, dove sarà in scena la prossima estate.
La trama è tipica della tradizione comica partenopea: amore contrastato, trasferimenti, inganni, lieto fine. Può sembrare una raccolta di banalità ma diventa un piccolo capolavoro di genere grazie alla bravura del librettista (Almerindo Spadetta) ed alla partitura di De Giosa. Grazie alla regia piena di brio e di ironia di Lorenzo Amato, il lavoro diventa una veloce ed esilarante presa in giro di un’opera comica tradizionale. Un po’ come, più tardi, Miseria e Nobiltà di Scarpetta sarebbe stata la parodia di una farsa. I tratti di situazioni e personaggi sono volutamente esagerati, anche sotto il profilo musicale (si pensi alla lunga ed elaborata cavatina del protagonista). La partitura è densa di citazioni ironiche; a volta abbastanza esplicite, più spesso di atmosfere, di “sonorità” che agiscono su un piano profondo dell’ascoltatore/spettatore. Il fil rouge ovviamente è l’ironia, a tratti sottile, in altri momenti decisamente critica e canzonatoria.
L’orchestrazione è molto complessa e raffinata e il giovane Francesco Lanzillotta (da poco Direttore Musicale dell’Orchestra Toscanini) la restituisce con eleganza e sapienza: una chicca il valzer con cui inizia la seconda parte. Tra i protagonisti, spiccano Carmen Romeu, in un ruolo più adatto a lei di quelli di recente interpretati a Pesaro, ed il buffo Bruno Taddia. Tutte voci giovani, tra cui particolarmente notevoli quelle del tenore Fabrizio Paesano ed il baritono Giulio Mastrototaro.
Giuseppe Pennisi
Nessun commento:
Posta un commento