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OEconomicus
di Giuseppe Pennisi
Tutti gli Stati dell’area euro hanno
drasticamente tagliato i loro
bilanci in conto capitale, ossia gli
investimenti pubblici. In media,
l’investimento pubblico è passato
dall’8% della spesa complessiva
delle Pubbliche amministrazioni
a meno del 4%. In effetti, è più
facile ritardare i programmi che
comportano investimento in capitale
fisico che operare su spese
correnti, come gli stipendi per il
pubblico impiego oppure i trasferimenti
alle famiglie. Lo ha fatto
anche la Germania. Secondo la
Camera di commercio federale,
per evitare un arresto delle attività,
specialmente nei trasporti
– basta viaggiare sulle autostrade
per avvertirlo – occorre investire
80 miliardi di euro l’anno per i
prossimi cinque anni. Il confronto
con la piccola Austria è drammatico:
un tasso d’investimento
aggregato (infrastrutture, industria,
commercio) pari al 17% del Pil in
Germania rispetto al 27% in Austria
(e a una media Ue del 21%).
Il ministro dell’Economia, Sigmar
Gabriel, ha invitato gli esperti
stranieri a fornire suggerimenti.
Da un lato, le modifiche di politica
economica (energia, previdenza,
norme lavoristiche) scoraggiano le
imprese che “emigrano” in vicini
Paesi neocomunitari. Dall’altro,
(capitolo poco noto in Italia), i
Länder hanno una ragnatela di
regole che – per ragioni campanilistiche
– hanno in gran misura
neutralizzato le leggi Schroeder-
Merkel per incoraggiare l’aumento
delle dimensioni industriali.
Nel breve periodo gli investimenti
pubblici attivano la capacità produttiva
non utilizzata – in un’eurozona
con un tasso di disoccupazione
dell’11,5% di forza lavoro ce
ne è moltissima – senza innescare
inflazione. Nel medio periodo migliorano
la produttività dei fattori
produttivi. È in quest’ottica che il
neopresidente della Com missione
europea, Jean Claude Juncker, ha
pro posto un programma speciale
di 300 miliardi di euro (aggiuntivo
ai fondi europei già in es sere) su
tre anni per rilanciare i programmi
di lungo periodo. Un anno fa
è stato completato l’aumento di
capitale della Banca europea per
gli investimenti (Bei). Non ci sono,
quindi, dif ficoltà a finanziare il programma,
anche tramite obbligazioni
targate Bei.
Il 4 luglio le banche di sviluppo
dei Paesi del G20 si sono riunite a
Roma per definire scambi frequenti
di strategia e di prassi. Da luglio,
il club delle maggiori banche di
sviluppo non solo europee (il
Long term investors club – Ltic) è
presieduto dall’Italia. Anche se gli
storici dell’economia ritengono che
la Vnesheconombank, creata in
Russia nel 1917, sia la più antica
banca di sviluppo, l’Italia è uno dei
Paesi dell’Europa occidentale con
più lunga e più varia tradizione.
Uno studio recente di Amadeo
Lepore analizza la storia della
Cassa per il Mezzogiorno e rafforza
le conclusioni a cui erano giunti
una quindicina di anni fa Alfredo
Del Monte e Adriano Giannola:
la Cassa ha funzionato, sino alla
metà degli anni Settanta, come
le migliori banche di sviluppo. È
stata spesso elogiata dalla stessa
Banca mondiale che ha incanalato
i propri finanziamenti all’Italia (sino
al 1964) non tramite i ministeri
ma tramite la Cassa. Un libro di
Giovanni Farese e Paolo Savona,
fresco di stampa, riguarda il ruolo
personale del presidente della
Banca mondiale, Eugene Black,
perché la Cassa diventasse il modello
per il resto d’Europa e del
mondo. Sappiamo che interessi
particolaristici miopi hanno portato
al declino e crollo della Cassa a
partire della seconda metà degli
anni Settanta. Tuttavia, come
documentato in due ricchi volumi
di Marcello De Cecco e di Gianni
Toniolo, nell’ultimo decennio la
Cassa depositi e prestiti è stata
gradualmente trasformata da una
direzione generale del ministero
del Tesoro a una delle più grandi,
più importanti e più prestigiose
banche di sviluppo europee.
In base a queste esperienze, sia
positive sia negative, possiamo –
anzi dobbiamo – fornire indicazioni
alle altre banche di sviluppo in vista
di una strategia coordinata per
tornare a crescere.
Crisi e banche di sviluppo.
Lezioni italiane
OEconomicus
di Giuseppe Pennisi
Tutti gli Stati dell’area euro hanno
drasticamente tagliato i loro
bilanci in conto capitale, ossia gli
investimenti pubblici. In media,
l’investimento pubblico è passato
dall’8% della spesa complessiva
delle Pubbliche amministrazioni
a meno del 4%. In effetti, è più
facile ritardare i programmi che
comportano investimento in capitale
fisico che operare su spese
correnti, come gli stipendi per il
pubblico impiego oppure i trasferimenti
alle famiglie. Lo ha fatto
anche la Germania. Secondo la
Camera di commercio federale,
per evitare un arresto delle attività,
specialmente nei trasporti
– basta viaggiare sulle autostrade
per avvertirlo – occorre investire
80 miliardi di euro l’anno per i
prossimi cinque anni. Il confronto
con la piccola Austria è drammatico:
un tasso d’investimento
aggregato (infrastrutture, industria,
commercio) pari al 17% del Pil in
Germania rispetto al 27% in Austria
(e a una media Ue del 21%).
Il ministro dell’Economia, Sigmar
Gabriel, ha invitato gli esperti
stranieri a fornire suggerimenti.
Da un lato, le modifiche di politica
economica (energia, previdenza,
norme lavoristiche) scoraggiano le
imprese che “emigrano” in vicini
Paesi neocomunitari. Dall’altro,
(capitolo poco noto in Italia), i
Länder hanno una ragnatela di
regole che – per ragioni campanilistiche
– hanno in gran misura
neutralizzato le leggi Schroeder-
Merkel per incoraggiare l’aumento
delle dimensioni industriali.
Nel breve periodo gli investimenti
pubblici attivano la capacità produttiva
non utilizzata – in un’eurozona
con un tasso di disoccupazione
dell’11,5% di forza lavoro ce
ne è moltissima – senza innescare
inflazione. Nel medio periodo migliorano
la produttività dei fattori
produttivi. È in quest’ottica che il
neopresidente della Com missione
europea, Jean Claude Juncker, ha
pro posto un programma speciale
di 300 miliardi di euro (aggiuntivo
ai fondi europei già in es sere) su
tre anni per rilanciare i programmi
di lungo periodo. Un anno fa
è stato completato l’aumento di
capitale della Banca europea per
gli investimenti (Bei). Non ci sono,
quindi, dif ficoltà a finanziare il programma,
anche tramite obbligazioni
targate Bei.
Il 4 luglio le banche di sviluppo
dei Paesi del G20 si sono riunite a
Roma per definire scambi frequenti
di strategia e di prassi. Da luglio,
il club delle maggiori banche di
sviluppo non solo europee (il
Long term investors club – Ltic) è
presieduto dall’Italia. Anche se gli
storici dell’economia ritengono che
la Vnesheconombank, creata in
Russia nel 1917, sia la più antica
banca di sviluppo, l’Italia è uno dei
Paesi dell’Europa occidentale con
più lunga e più varia tradizione.
Uno studio recente di Amadeo
Lepore analizza la storia della
Cassa per il Mezzogiorno e rafforza
le conclusioni a cui erano giunti
una quindicina di anni fa Alfredo
Del Monte e Adriano Giannola:
la Cassa ha funzionato, sino alla
metà degli anni Settanta, come
le migliori banche di sviluppo. È
stata spesso elogiata dalla stessa
Banca mondiale che ha incanalato
i propri finanziamenti all’Italia (sino
al 1964) non tramite i ministeri
ma tramite la Cassa. Un libro di
Giovanni Farese e Paolo Savona,
fresco di stampa, riguarda il ruolo
personale del presidente della
Banca mondiale, Eugene Black,
perché la Cassa diventasse il modello
per il resto d’Europa e del
mondo. Sappiamo che interessi
particolaristici miopi hanno portato
al declino e crollo della Cassa a
partire della seconda metà degli
anni Settanta. Tuttavia, come
documentato in due ricchi volumi
di Marcello De Cecco e di Gianni
Toniolo, nell’ultimo decennio la
Cassa depositi e prestiti è stata
gradualmente trasformata da una
direzione generale del ministero
del Tesoro a una delle più grandi,
più importanti e più prestigiose
banche di sviluppo europee.
In base a queste esperienze, sia
positive sia negative, possiamo –
anzi dobbiamo – fornire indicazioni
alle altre banche di sviluppo in vista
di una strategia coordinata per
tornare a crescere.
Crisi e banche di sviluppo.
Lezioni italiane
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