Ecco la vera
disputa fra Padoan e Katainen
28 - 10 - 2014Giuseppe Pennisi
Indubbiamente, per i lettori in senso lato non è
facile comprendere il significato dello scambio di lettere tra il ministro
dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan ed il Commissario
Europeo Jyrki Katainen sulla Legge di stabilità. Così come è
stato arduo capire cosa fossero le richieste spesso ripetute di una “maggiore
flessibilità” come “scambio politico” per le “riforme di struttura”.
Una responsabilità di non poco conto la hanno i media.
In primo luogo la televisione: i talk show trattano
principalmente di economia e di politica economica ma sono quasi sempre
affidati a conduttori che masticano poco della prima e nulla della seconda.
Hanno la scusa – dicono – di avere poco tempo; forse sono solo poco preparati e
peggio organizzati. In secondo luogo, anche la stampa su carta non ha colto il
punto essenziale. Lo hanno fatto molto meglio i giornalisti francesi; forse il
fatto che Oltralpe si richieda una laurea per l’accesso alla professione, e che
il trattamento dell’economia viene affidato a giornalisti che hanno sudato
sulla materia in università ha un certo peso.
In effetti, l’utilizzazione di “riserve” o di aumenti
dell’Iva per restare entro il vincolo di un indebitamento netto della pubblica
amministrazione non superiore al 3% del Pil sono i temi su cui viene posto
l’accento. Il nodo del problema, invece, è la differente percezione tra i
servizi della Commissione Europea e numerosi economisti italiani (e non solo)
di quale è l’output gap dell’Italia.
L’output gap è la differenza tra il
prodotto potenziale di beni e servizi e quello effettivo. Una lettura attenta
del Trattato di Maastricht e dello stesso Fiscal Compact indica che le
“circostanze straordinarie” (che consentono deroghe ai parametri) si verificano
quando, per un lasso lungo di tempo, c’è un output significativo.
E’, quindi, necessario stimare tale gap ed avere metodi di
stima convergenti per potere collaborare efficacemente.
Prima della crisi, nel 2008, la Commissione Europea,
il Fondo monetario, l’Ocse e le altre maggiori istituzioni internazionali
(esiste a riguardo un ottimo documento del servizio studi della Banca centrale
europea) stimavano attorno all’1,3% la crescita potenziale del Pil dell’Italia.
Per avere un termine di paragone i “piani triennali” predisposti all’inizio
degli Anni Ottanta la ponevano sul 2-2.5%, spiegando eloquentemente che è
quello che ci si poteva aspettare da un Paese con una popolazione anziana, un
apparato produttivo non modernizzato eccetto che in certe nicchie specifiche,
ed un’amministrazione pubblica tutt’altro che efficiente. Le stime
econometriche che giungevano ad un potenziale di crescita dell’1,3% tenevano
conto dell’evoluzione avvenuta negli ultimi trent’anni (non positiva né sotto
l’aspetto demografico né sotto quello dell’apparato produttivo), nonché dal
peso del debito che incide comunque sulla crescita.
Nel 2010 il servizio studi della Banca d’Italia ha
pubblicato un ottimo lavoro di Antonio Bassanetti, Michele Caivano ed
Alberto Locarno (il “Temi di Discussione” n. 771) che esaminava il periodo
1999-2005 (ossia pre-crisi) con vari metodi e poneva l’output gap tra
lo 0,5% e lo 0,7% del Pil. Se la crescita potenziale è lo 1,3%, quella
effettiva si poneva attorno tra lo 0,8% e lo 0,6%. Di recente, l’Ocse ha
stimato l’output gap dell’Italia a -5 punti percentuali del Pil;
una chiara giustificazione di ‘circostanze straordinarie’ tale da giustificare
un disavanzo dei conti pubblici ben superiore al 3% del Pil.
Non è affatto chiaro quale metodo venga ora utilizzato
a Bruxelles per stimare l’output potenziale dell’Italia. Se come
nei manuali degli anni Settanta si impiega il tasso di disoccupazione che non
accelera l’inflazione, si arriverebbe paradossalmente che la situazione
potenzialmente ottimale sarebbe quella di crescita zero e un tasso di
disoccupazione del 12% delle forze di lavoro.
Il problema è solo apparentemente tecnico, come ha
scritto la stampa francese rispetto al loro output gap. E’ molto
politico.
Il governo dovrebbe chiedere a Bruxelles di scoprire
le carte, mostrare i “suoi” numeri e spiegare come ad essi si è arrivati.
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