Senza
crescita gli effetti di un differenziale basso saranno vanificati
GIUSEPPE PENNISI
Il 2014 inizia con un dato incoraggiante: il tasso dei Btp va sotto il 4%, con lo spread (differenziale) sui Bund ai nuovi minimi dal 2011. A questo elemento se ne aggiungono altri: la Borsa esulta (ma non è chiaro sino a quando) trascinata dall’operazione Fiat-Chrysler. L’industria (specialmente le piccole e medie imprese) intravedono la fine del tunnel e la finanza pubblica sembra (per ora) in sicurezza.
Il contesto macroeconomico internazionale, tuttavia, è meno favorevole di quel che sembra: nel numero in edicola il 4 dicembre, l’editoriale del prestigioso settimanale «The Economist » avvertiva: «L’ottimismo potrebbe portare con sé una cattiva notizia, perché rischia di fare aumentare i tassi d’interesse e ridurre l’appetito dei politici per le riforme». Il commento si riferiva all’insieme dei Paesi ad alto reddito . Tornando all’Italia, i 20 maggiori istituti econometrici stimano una crescita reale dello 0,4%, superiore, in Europa, solo a Grecia, Slovenia e Cipro (tre Paesi in recessione) e inferiore, a livello mondiale, alla crescita stimata per Bermuda e per quella Repubblica Centrafricana tuttora in guerra guerreggiata. Il rischio è che sia un «0,4%» così labile da passare, al più piccolo fruscio, nuovamente al segno «meno». Nell’ipotesi migliore, gli italiani dovrebbero aspettare sino al 2024 per tornare ai redditi procapite del 2007. Non solo. Negli ultimi 12 mesi i prezzi al consumo sono aumentati appena dell’1,3% e solo dello 0,1% in dicembre . È presto per dire se i saldi di questa stagione ravviveranno la domanda. Per ora, le previsioni sono di un aumento complessivo dei prezzi al consumo dello 0,3% nel 2014. Mancherebbe quella leggera inflazione (durante il negoziato per il trattato di Maastricht la si stimava al 2% l’anno) che fa da lubrificante a un sistema economico.
Rischio di una nuova recessione? In termini tecnici si ha una recessione quando il Pil si contrae per due semestri consecutivi. Oscar Wilde diceva che le previsioni sono difficili se concernono il futuro. Nonostante questa ironica nota di cautela, una nuova recessione non sembra dietro l’angolo. Ma siamo alle prese con un fenomeno forse più grave perché più pervasivo. Lo analizzano due economisti siciliani, Sebastiano Bavetta (Università di Palermo) e Pietro Navarra (Università di Messina) nel saggio appena uscito dal titolo «Il Vantaggio delle Libertà»: gli italiani hanno perso fiducia in se stessi e negli altri, e questa è una spiegazione del tracollo della produttività. A livello teorico, un saggio recente di Jean-Philippe Maty dell’Università dell’Illinois teorizza in «Melancholy Politics» – l’economia e la politica economica della melanconia – che, senza fare scivolare in lunghe e profonde recessioni, il mondo tiene il motore a livello basso.
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Si potrebbe dire che, ove ci fosse un adeguato equilibrio sociale, a un Paese ad alto reddito può non fare male un po’ di malinconia dopo avere gozzovigliato per anni. L’Italia, però, ha gozzovigliato con le risorse delle generazioni future, accumulando un debito pubblico che nel 2014 rischia di sfiorare il 140% del Pil. Si è impegnata, con il Fiscal Compact, a portarlo al 60% del Pil in meno di vent’anni. Senza crescita e senza inflazione, ciò vuol dire un crescente ammontare di beni e servizi reali a cui rinunciare per onorare il patto. Perché se il valore nominale del debito diminuisce, quello «reale» rimane lo stesso ed è più difficile ripagarlo. Rinunce sia private e di mercato (abbigliamento, cinema, cene in pizzeria) sia pubbliche e non di mercato (servizio sanitario, nettezza urbana). Nei periodi storici in cui ciò è avvenuto, le conseguenze politiche non sono mai state buone.
Con prezzi e stipendi in calo è sempre più difficile pagare gli i
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