GIUSEPPE PENNISI
BOLOGNA
Negli ultimi 45 minuti del terzo atto, la periferia di una grande città contemporanea si affolla gradualmente e tutta la popolazione si mette in cammino verso la salvezza sino a quando (pochi istanti prima del calar del sipario) il protagonista, appena diventato sacerdote, resta solo ed una voce fuori scena ricorda come nella Redenzione, uomini e donne si congiungono con l’Alto. Nel secondo atto siamo in mondo corrotto dell’inizio del Novecento; qui il nostro eroe ha contezza del peccato e sa sfuggirlo. Nel primo atto, in densa foresta primordiale (Germania medioevale o Amazzonia poco importa), il giovane assiste al Sacramento dell’Eucarestia ma resta ignavo: non comprende nulla.
Questo è Parsifal di Richard Wagner in scena a Bologna sino al 25 gennaio. Coprodotto con il Teatro Reale di Bruxelles ed affidato per regia, drammaturgia, scene, costumi e luci ad un team d’avanguardia italiano (Romeo Castellucci e Piersandra Di Matteo) e per la parte musicale a Roberto Abbado (che debutta nel dirigere Wagner), si temeva uno spettacolo dissacrante. Come altri di Castellucci (ricordiamo le polemiche su Sul concetto di volto nel figlio di Dio) o come le edizioni di Parsifal in scena a Stoccarda (regia di Bieito) o a Londra (Langridge). Invece, pur se alcuni momenti del secondo atto posso destare perplessità per gli espliciti accenni al sadismo non affatto attinenti al testo o alla musica, la produzione è rispettosa dello spirito della «sacra rappresentazione in musica» (così Wagner chiamò il lavoro). Non mostra un Medioevo di cartapesta ma l’eternità atemporale del trinomio 'consapevolezza del peccato-pietàredenzione'. Eccellente l’idea di non mostrare al pubblico la Consacrazione e l’Eucarestia (sempre difficile in teatro): si svolgono dietro un sipario bianco mentre i solisti (e parte del coro) sono sul palcoscenico ed il resto nei palchi e nel loggione, avvolgendo, con effetti stereofonici, gli spettatori. Sotto il profilo musicale, è un Parsifal molto 'italiano', come quello di Pizzi-Ferro a Venezia nel 1983. Abbado tiene meticolosamente i tempi, quali appuntati da Humperdinck (assistente di Wagner) nelle prove del primo allestimento a Bayreuth nel 1882. Il protagonista non né un tenore 'eroico', ma un tenore 'lirico spinto' (l’americano Andrew Richards), la protagonista femminile non un soprano drammatico, ma un contralto (la svedese Anna Larsoon) come vollero Solti e Ferro. Di grande livello Gábor Bretz nel faticosissimo ruolo di Gurnemantz e Detlef Roth in quello di Amfortas. Lucio Gallo è un Klingsor sadico e perverso. Meritano un elogio i cori, da quello del Teatro Comunale diretto da Andrea Faidutti, a quello di voci bianche della scuola Alessandra Galante Garrone diretto da Alhambra Superchi. Debole la coreografia di Cindy Van Acker in alcuni momenti di un secondo atto che varrebbe la pena rivisitare.
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A Bologna la regia di Castellucci esagera ma non tradisce Wagner, bene Roberto Abbado
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