GIUSEPPE PENNISI
Non si deve temere di dare l’impressione di essere classificati tra gli euroscettici al pari di quegli economisti che, anche prendendo spunto dalle più recenti dichiarazioni di Mario Draghi, suggeriscono di uscire dall’Eurozona; proprio oggi si terrà a Roma un convegno su 'Il Tramonto dell’Euro'. Ci sono, infatti, domande legittime da porsi su come stanno evolvendo le politiche dell’area dell’euro. Occorre, ad esempio, chiedersi se l’unione bancaria (come si sta configurando adesso, non come venne delineata più di un anno fa) 'conviene' alle banche italiane, specialmente agli istituti di medie dimensioni quali le popolari, il credito cooperativo e gli intermediari a carattere regionale o locale. In gran misura sono questi i principali intermediari nei confronti di quelle piccole e medie imprese, che, in gran parte del Paese, sono la dorsale nel manifatturiero, asse portante del nostro export.
Non solamente si tratta di un interrogativo lecito (e in gran misura doveroso) ma è proprio il tema che viene sviscerato dai nostri partner prima di sedersi al tavolo dei negoziati. In Italia, pare esserci un silenzio assordante su questo argomento. Oppure un «dibattito proibito», come ama dire Jean Paul Fitoussi, il quale conosce bene il nostro Paese anche per avere insegnato per tanti anni all’Istituto Universitario Europeo a Fiesole. L’unione bancaria quale si profila oggi ha le seguenti caratteristiche: a) vigilanza affidata alla Banca centrale europea unicamente per i grandi istituti, ma «nazionale» (e con differenti assetti istituzionali da Stato a Stato) per i medi e piccoli istituti; b) garanzie tramite fondi interbancari nazionali per conti correnti sino a 100mila euro; c) procedure di liquidazioni per banche in situazione difficile basate sul bail in (in breve a carico di azionisti e di alcune categorie di obbligazionisti) e di un fondo comune di 55-65 miliardi di dollari finanziato su contributi delle banche nell’arco di dieci anni secondo un cronoprogramma ancora da definire.
Quali le implicazioni per le banche di medie e e piccole dimensioni? Uno studio in uscita di Elisabetta Gualandi e Stefano Cosma dell’Università di Modena e Reggio Emilia analizza con cura gli effetti della crisi del debito sovrano sulle varie tipologie degli istituti italiani di credito, non solo i maggiori su cui sono spesso puntati gli occhi della stampa, e dei governi. Il quadro è inquietante: «è a rischio la sostenibilità del modello tradizionale d’intermediazione con la conseguenza che gli istituti devono modificarlo», proprio mentre il finanziamento del fondo comune europeo ed il bail in possono aumentare i loro costi. Tra gli esempi che si possono citare viene alla mente quello della Banca Marche, sino a poco tempo fa era un importante mecenate del sociale e della cultura nel territorio, e ora è in difficoltà che ne fanno temere pure la liquidazione a causa di problematiche scoppiate a ragione delle diramazioni della crisi sull’economia reale del suo territorio di operatività. Un documento ancora interno alla Bce (ne sono autori Frank Betz, Silviu Oprica e Tuomas Peltonen) propone uno strumento preventivo per anticipare le crisi prima che sia troppo tardi. Questo lavoro e quello di Gualandi e Cosma dovrebbero essere oggetto di dibattiti approfonditi non solo tra economisti ed esperti coinvolti nel negoziato, ma rivolti ad un pubblico più vasto. Poiché si stanno prendendo decisioni dense di implicazioni anche a livello locale.
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