venerdì 24 gennaio 2014

Arriva l’Unione bancaria Ecco perché (in Italia) sono i piccoli a rischiare in Avvenire del 24 gennaio



Arriva l’Unione bancaria Ecco perché (in Italia) sono i piccoli a rischiare


GIUSEPPE PENNISI
N
on si deve temere di dare l’impressione di essere classificati tra gli euroscettici al pari di quegli e­conomisti che, anche prendendo spunto dalle più recenti dichiarazioni di Mario Draghi, suggeriscono di uscire dall’Eurozona; proprio oggi si terrà a Roma un convegno su 'Il Tramonto dell’Euro'. Ci sono, infatti, do­mande legittime da porsi su come stanno evolvendo le po­litiche dell’area dell’euro. Occorre, ad esempio, chiedersi se l’unione bancaria (come si sta configurando adesso, non come venne delineata più di un anno fa) 'conviene' alle banche italiane, specialmente agli istituti di medie dimensioni quali le popolari, il credito cooperativo e gli intermediari a carattere regionale o locale. In gran mi­sura sono questi i principali intermediari nei confronti di quelle piccole e medie imprese, che, in gran parte del Paese, sono la dorsale nel manifatturiero, asse portante del nostro export.

Non solamente si tratta di un interrogativo lecito (e in gran misura doveroso) ma è proprio il tema che viene svisce­rato dai nostri partner prima di sedersi al tavolo dei ne­goziati. In Italia, pare esserci un silenzio assordante su que­sto argomento. Oppure un «dibattito proibito», come a­ma dire Jean Paul Fitoussi, il quale conosce bene il nostro Paese anche per avere insegnato per tanti anni all’Istitu­to Universitario Europeo a Fiesole. L’unione bancaria quale si profila oggi ha le seguenti ca­ratteristiche: a) vigilanza affidata alla Banca centrale eu­ropea unicamente per i grandi istituti, ma «nazionale» (e con differenti assetti istituzionali da Stato a Stato) per i medi e piccoli istituti; b) garanzie tramite fondi inter­bancari nazionali per conti correnti sino a 100mila eu­ro; c) procedure di liquidazioni per banche in situazione difficile basate sul
bail in (in breve a carico di azionisti e di alcune categorie di obbligazionisti) e di un fondo co­mune di 55-65 miliardi di dollari finanziato su contri­buti delle banche nell’arco di dieci anni secondo un cro­noprogramma ancora da definire.

Quali le implicazioni per le banche di medie e e piccole dimensioni? Uno studio in uscita di Elisabetta Gualan­di e Stefano Cosma dell’Università di Modena e Reggio Emilia analizza con cura gli effetti della crisi del debito sovrano sulle varie tipologie degli istituti italiani di cre­dito, non solo i maggiori su cui sono spesso puntati gli occhi della stampa, e dei governi. Il quadro è inquietan­te: «è a rischio la sostenibilità del modello tradizionale d’intermediazione con la conseguenza che gli istituti de­vono modificarlo», proprio mentre il finanziamento del fondo comune europeo ed il
bail in possono aumentare i loro costi. Tra gli esempi che si possono citare viene alla mente quello della Banca Marche, sino a poco tempo fa era un importante mecenate del sociale e della cultura nel territorio, e ora è in difficoltà che ne fanno temere pu­re la liquidazione a causa di problematiche scoppiate a ragione delle diramazioni della crisi sull’economia rea­le del suo territorio di operatività. Un documento anco­ra interno alla Bce (ne sono autori Frank Betz, Silviu O­prica e Tuomas Peltonen) propone uno strumento pre­ventivo per anticipare le crisi prima che sia troppo tardi. Questo lavoro e quello di Gualandi e Cosma dovrebbero essere oggetto di dibattiti approfonditi non solo tra eco­nomisti ed esperti coinvolti nel negoziato, ma rivolti ad un pubblico più vasto. Poiché si stanno prendendo deci­sioni dense di implicazioni anche a livello locale.

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