Parsifal contro Parsifal, le
opere a confronto
È in atto un
confronto-scontro tra due versioni di Parsifal (“sacra rappresentazione
scenica”, così la chiamò l’autore Richard Wagner disponendo che si sarebbe
potuta allestire unicamente a Bayreuth con le scene, ispirate a luoghi e
monumenti italiani, poiché il lavoro venne musicato in gran misura nel nostro
Paese).
Il 14
gennaio, la
stagione 2014-13 del Teatro Comunale di Bologna viene inaugurata con un
allestimento di Romeo Castellucci (e la drammaturgia di Piersandra Di Pietro);
Bologna viene considerata la città wagneriana per eccellenza non solo perché fu
la prima a mettere in scena un lavoro di Wagner (Lohengrin il primo novembre
1871; Verdi era in un palco, Boito in poltrona), ma anche perché il primo
gennaio 1914 anticipò lo spettacolo all’ora di pranzo per poterlo dare prima di
altri teatri italiani in quanto era scaduto il divieto posto da Wagner (il
lavoro stato già messo in scena al Metropolitan, in quanto gli Stati Uniti non
avevano aderito alla convenzione internazionale sui diritti d’autore). Il 18
dicembre in numerose sale cinematografiche italiane si è potuto assistere alla
diretta da Londra della nuova produzione dell’opera messa in scena da Stephen
Langridge. Castellucci viene dall’avanguardia; quando il suo allestimento ha
debuttato ha fatto scalpore. Langridge non viene dall’avanguardia, ma
l’edizione internazionale del New York Times ha dedicato un’intera pagina allo
spettacolo gridando allo scandalo.
In un saggio
pubblicato un anno fa, pongo
Parsifal tra le opere più apertamente cristiane di un Wagner settantenne che
sin dai suoi primi lavori ha trattato della lotta tra Bene ed il Male. In
Parsifal siamo del cuore del mondo del Graal (la coppa dove venne raccolto il
sangue di Cristo sulla Croce) venerata e protetta da un ordine di cavalieri
puri. Il peccato è più che mai in agguato – Kundry, donna bellissima e sempre
giovane, ha riso sul volto di Cristo sul Golgota ed è stata “condannata a non
morire” sino a quando non verrà “redenta”, Klingsor si è auto castrato perché
non poteva resistere alla tentazione carnale (un requisito per essere cavaliere
del Graal) ed ora, minaccia il Tempio, ha ferito l’erede al Regno del Graal,
Amfortas, con piaghe che progressivamente impediscono a quest’ultimo di
celebrare l’Eucarestia; può essere vinto unicamente da un “puro folle”, per
l’appunto l’innocente e selvatico Parsifal, che necessita una lunga iniziazione
per “diventare sapiente tramite la pietà” e comprendere il mistero
dell’Eucarestia, distruggere il Castello di Klingsor, purificare Kundry (e
consentirle di morire serenamente) e Amfortas, prendendone il posto sia nella
celebrazione dell’Eucarestia, sia nella guida del Regno del Graal.
La
conclusione è, però,
“aperta”, forte segno di appartenere alla cultura occidentale (nonostante il
lavoro abbia venature buddiste): i Cavalieri del Graal, i loro paggi, i
protagonisti ed una voce dell’alto invocano Erlösung dem Erlôser! (Redenzione
al Redentore!), una visione quasi più buddista che cristiana, secondo cui il
Redentore deve essere continuamente lui stesso “redento” dall’umanità. In
Parsifal, infine, il contrasto tra il mondo pagano del peccato e quello
cristiano della purificazione e della redenzione è accentuato in quanto, sotto
il profilo musicale, il mondo del Graal è diatonico come quello dei Die
Meistersinger, mentre quello di Klingsor e di Kundry (nei primi due atti) è
cromatico come in Tristan und Isolde.
Alcune
esecuzioni degli ultimi
anni sono memorabili. Andando a ritroso rispetto alle osservazioni sul
significato, delle numerosi edizioni di Parsifal restano impresse quelle a Roma
(in versioni da concerto) nel novembre 2008 e quella a Venezia nel marzo 2005.
Occorre prendere l’avvio da un aspetto che può sembrare pedante: esistono diari
burocratici delle rappresentazioni del 1882 a Bayreuth sotto gli occhi vigili
di Wagner e la bacchetta di Levi; tali diari determinano i tempi (un’ora e 45
minuti il primo atto, un’ora e 5 minuti il secondo, un’ora e 10 il terzo).
Oggidì sono rarissimi i direttori musicali che seguono queste indicazioni:
Levine, Kuhn, Thiellman e pochi altri. Con Toscanini – come è noto – il primo
atto di Parsifal durava due ore e venti minuti. Con Boulez poco più di un’ora e
mezzo. Kuhn, allora giovanissimo, ha diretto un memorabile Parsifal a Bologna
nel 1978 (ripreso “fuori abbonamento” nel 1980 tale e tanta era la richiesta
del pubblico).
Per Romeo
Castellucci, Parsifal è
un lavoro strano ed enigmatico. Con questa opera, scritta alla fine della sua
vita e rappresentata per la prima volta al Festspielhaus di Bayreuth il 26
luglio del 1882, Wagner sembra celebrare un ascetismo che lui stesso non aveva
mai praticato. Avrebbe allora ragione Nietzsche quando afferma che Wagner si
inginocchiò davanti al Crocifisso? E cosa c’entrerebbe una società segreta di
cavalieri riunita attorno alla pura venerazione del sangue, nell’attesa
incessante di un Salvatore che dovrà rigenerarlo? Quale sarebbe la vera natura
dell’opposizione esistente tra le parole Klingsor e Graal? Cosa può rivelare,
ancora oggi, la leggenda di Parsifal? In questa opera che rappresenta il suo
testamento artistico, Wagner condensa la sua idea etica del mondo e ritorna
alle radici dell’amore e della religione – al cuore stesso dell’arte, secondo
lui. “Davanti a Parsifal – dice Castellucci – ho cercato di dimenticare tutto
quello che si sapeva”.
Mi sono
posto nelle condizioni di chi non sa nulla. Allora ho chiuso gli occhi e ho ascoltato una volta,
venti volte e poi cento volte questa musica, questa cosa. E poi ancora. Ho
dormito. Ho rifatto tutto il Parsifal in una mente di amnesia, dall’inizio alla
fine. Un titolo come questo richiede una visione che nasce dal profondo, che si
prende tutto, non una strategia illustrativa. In un certo senso posso dire che
per essere fedeli bisogna prima dimenticare Parsifal, perderlo, e poi infine
ritrovarlo. Nuovo. Ho visto un grande bosco, una foresta che si scioglie come
ghiaccio al sole. Ho visto degli uomini che si nascondono nel bosco, non perché
cacciatori, ma perché tremanti di paura.
Ho visto due
esseri umani che prima
si cercano e poi si respingono e poi si ritrovano ancora, perché veramente
hanno bisogno uno dell’altro: Kundry e Parsifal. Ho visto la fame di vita di
Parsifal trasformarsi nella paura ontologica dell’essere – l’essere nati -, e
l’errore di tutto questo. L’errore che diventa erranza. Ho visto una camera
bianca, pulita, e un mago cattivo che dirigeva la musica delle affezioni; ho
visto il nome tremendo dei veleni che uccidono gli uomini. Ho visto alcune
donne legate e sospese in aria come oggetti di pura contemplazione spirituale.
Ho visto balenare il sesso femminile della madre come il centro gelido e
immobile del dramma. Ho visto una città rovesciata. E poi lui camminava ancora
e il cammino era la sua preghiera. Ho visto dei piccioni di città, ma non ho
visto nessuna colomba bianca.
Non ho visto
nessun calice, nessuna
lancia sacra, nessun falso medioevo. Non ho visto il sangue di una razza. Non
ho visto nessun uomo-nuovo. Non ho visto un popolo, non una comunità, ma una
folla anonima che camminava e in mezzo c’ero anch’io. Non sono riuscito a
vedere nessuna croce uncinata, neanche a cercarla in fondo; ma neppure una
croce cristiana, se è per questo. Ho visto una quantità di dolore e alla fine –
solo alla fine – ho visto affacciarsi l’Aperto. Questo Parsifal comincia nella
foresta della montagna e finisce nella città. La città è da sempre il quadro
tragico dell’esperienza umana. Rappresenta la comunità al più alto grado e
rappresenta la bruttezza della vita comune che coglie l’uomo proprio in mezzo
alla folla, quando si accorge che non può comunicarsi veramente: si tratta di una
solitudine più densa e profonda che colpisce quando si è in mezzo a una società
cui si appartiene, ma da cui ci si sente intimamente e definitivamente
separati. Lo sguardo tragico sulla bruttezza della città può trasformare
l’orrore nell’epifania di una nuovissima bellezza. Avremo, quindi, un Parsifal
laico e socialmente impegnato, ove non laicista.
Anche nella
“versione di Langridge” siamo in un Parsifal innovativo. La scena è un cubo di Plexiglass con
proiezioni (ad esempio, del peccato sessuale di Amfortas con Kundry) I
Cavalieri del Graal, in abiti moderni in grigio scuro con distintivo
all’occhiello, sembrano una setta di New Born Christian. Il Graal non è una
coppa, ma un bambino semi-nudo leggermente ferito dall’officiante in modo che i
Cavalieri possano nutrirsi del suo sangue e del pane benedetto. Quando nel
secondo atto il protagonista acquista consapevolezza del peccato e rifiuta di
fare sesso con Kundry, viene accecato; ciò spiega il suo lungo peregrinare
prima di tornare al Regno del Graal. Riacquista la vista nel “miracolo del
Venerdì Santo”. Soprattutto, dopo la “purificazione” Kundry e Amfortas non
muoiono ma sembrano avviarsi verso un matrimonio cristiano. Ed è fortemente
cristiano il coro finale. Con tanto di voce dall’alto.
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