lunedì 6 gennaio 2014

Parsifal contro Parsifal, le opere a confronto in Formiche del 5 gennaio



Parsifal contro Parsifal, le opere a confronto
05 - 01 - 2014Giuseppe Pennisi Parsifal contro Parsifal, le opere a confronto
È in atto un confronto-scontro tra due versioni di Parsifal (“sacra rappresentazione scenica”, così la chiamò l’autore Richard Wagner disponendo che si sarebbe potuta allestire unicamente a Bayreuth con le scene, ispirate a luoghi e monumenti italiani, poiché il lavoro venne musicato in gran misura nel nostro Paese).
Il 14 gennaio, la stagione 2014-13 del Teatro Comunale di Bologna viene inaugurata con un allestimento di Romeo Castellucci (e la drammaturgia di Piersandra Di Pietro); Bologna viene considerata la città wagneriana per eccellenza non solo perché fu la prima a mettere in scena un lavoro di Wagner (Lohengrin il primo novembre 1871; Verdi era in un palco, Boito in poltrona), ma anche perché il primo gennaio 1914 anticipò lo spettacolo all’ora di pranzo per poterlo dare prima di altri teatri italiani in quanto era scaduto il divieto posto da Wagner (il lavoro stato già messo in scena al Metropolitan, in quanto gli Stati Uniti non avevano aderito alla convenzione internazionale sui diritti d’autore). Il 18 dicembre in numerose sale cinematografiche italiane si è potuto assistere alla diretta da Londra della nuova produzione dell’opera messa in scena da Stephen Langridge. Castellucci viene dall’avanguardia; quando il suo allestimento ha debuttato ha fatto scalpore. Langridge non viene dall’avanguardia, ma l’edizione internazionale del New York Times ha dedicato un’intera pagina allo spettacolo gridando allo scandalo.
In un saggio pubblicato un anno fa, pongo Parsifal tra le opere più apertamente cristiane di un Wagner settantenne che sin dai suoi primi lavori ha trattato della lotta tra Bene ed il Male. In Parsifal siamo del cuore del mondo del Graal (la coppa dove venne raccolto il sangue di Cristo sulla Croce) venerata e protetta da un ordine di cavalieri puri. Il peccato è più che mai in agguato – Kundry, donna bellissima e sempre giovane, ha riso sul volto di Cristo sul Golgota ed è stata “condannata a non morire” sino a quando non verrà “redenta”, Klingsor si è auto castrato perché non poteva resistere alla tentazione carnale (un requisito per essere cavaliere del Graal) ed ora, minaccia il Tempio, ha ferito l’erede al Regno del Graal, Amfortas, con piaghe che progressivamente impediscono a quest’ultimo di celebrare l’Eucarestia; può essere vinto unicamente da un “puro folle”, per l’appunto l’innocente e selvatico Parsifal, che necessita una lunga iniziazione per “diventare sapiente tramite la pietà” e comprendere il mistero dell’Eucarestia, distruggere il Castello di Klingsor, purificare Kundry (e consentirle di morire serenamente) e Amfortas, prendendone il posto sia nella celebrazione dell’Eucarestia, sia nella guida del Regno del Graal.
La conclusione è, però, “aperta”, forte segno di appartenere alla cultura occidentale (nonostante il lavoro abbia venature buddiste): i Cavalieri del Graal, i loro paggi, i protagonisti ed una voce dell’alto invocano Erlösung dem Erlôser! (Redenzione al Redentore!), una visione quasi più buddista che cristiana, secondo cui il Redentore deve essere continuamente lui stesso “redento” dall’umanità. In Parsifal, infine, il contrasto tra il mondo pagano del peccato e quello cristiano della purificazione e della redenzione è accentuato in quanto, sotto il profilo musicale, il mondo del Graal è diatonico come quello dei Die Meistersinger, mentre quello di Klingsor e di Kundry (nei primi due atti) è cromatico come in Tristan und Isolde.
Alcune esecuzioni degli ultimi anni sono memorabili. Andando a ritroso rispetto alle osservazioni sul significato, delle numerosi edizioni di Parsifal restano impresse quelle a Roma (in versioni da concerto) nel novembre 2008 e quella a Venezia nel marzo 2005. Occorre prendere l’avvio da un aspetto che può sembrare pedante: esistono diari burocratici delle rappresentazioni del 1882 a Bayreuth sotto gli occhi vigili di Wagner e la bacchetta di Levi; tali diari determinano i tempi (un’ora e 45 minuti il primo atto, un’ora e 5 minuti il secondo, un’ora e 10 il terzo). Oggidì sono rarissimi i direttori musicali che seguono queste indicazioni: Levine, Kuhn, Thiellman e pochi altri. Con Toscanini – come è noto – il primo atto di Parsifal durava due ore e venti minuti. Con Boulez poco più di un’ora e mezzo. Kuhn, allora giovanissimo, ha diretto un memorabile Parsifal a Bologna nel 1978 (ripreso “fuori abbonamento” nel 1980 tale e tanta era la richiesta del pubblico).
Per Romeo Castellucci, Parsifal è un lavoro strano ed enigmatico. Con questa opera, scritta alla fine della sua vita e rappresentata per la prima volta al Festspielhaus di Bayreuth il 26 luglio del 1882, Wagner sembra celebrare un ascetismo che lui stesso non aveva mai praticato. Avrebbe allora ragione Nietzsche quando afferma che Wagner si inginocchiò davanti al Crocifisso? E cosa c’entrerebbe una società segreta di cavalieri riunita attorno alla pura venerazione del sangue, nell’attesa incessante di un Salvatore che dovrà rigenerarlo? Quale sarebbe la vera natura dell’opposizione esistente tra le parole Klingsor e Graal? Cosa può rivelare, ancora oggi, la leggenda di Parsifal? In questa opera che rappresenta il suo testamento artistico, Wagner condensa la sua idea etica del mondo e ritorna alle radici dell’amore e della religione – al cuore stesso dell’arte, secondo lui. “Davanti a Parsifal – dice Castellucci – ho cercato di dimenticare tutto quello che si sapeva”.
Mi sono posto nelle condizioni di chi non sa nulla. Allora ho chiuso gli occhi e ho ascoltato una volta, venti volte e poi cento volte questa musica, questa cosa. E poi ancora. Ho dormito. Ho rifatto tutto il Parsifal in una mente di amnesia, dall’inizio alla fine. Un titolo come questo richiede una visione che nasce dal profondo, che si prende tutto, non una strategia illustrativa. In un certo senso posso dire che per essere fedeli bisogna prima dimenticare Parsifal, perderlo, e poi infine ritrovarlo. Nuovo. Ho visto un grande bosco, una foresta che si scioglie come ghiaccio al sole. Ho visto degli uomini che si nascondono nel bosco, non perché cacciatori, ma perché tremanti di paura.
Ho visto due esseri umani che prima si cercano e poi si respingono e poi si ritrovano ancora, perché veramente hanno bisogno uno dell’altro: Kundry e Parsifal. Ho visto la fame di vita di Parsifal trasformarsi nella paura ontologica dell’essere – l’essere nati -, e l’errore di tutto questo. L’errore che diventa erranza. Ho visto una camera bianca, pulita, e un mago cattivo che dirigeva la musica delle affezioni; ho visto il nome tremendo dei veleni che uccidono gli uomini. Ho visto alcune donne legate e sospese in aria come oggetti di pura contemplazione spirituale. Ho visto balenare il sesso femminile della madre come il centro gelido e immobile del dramma. Ho visto una città rovesciata. E poi lui camminava ancora e il cammino era la sua preghiera. Ho visto dei piccioni di città, ma non ho visto nessuna colomba bianca.
Non ho visto nessun calice, nessuna lancia sacra, nessun falso medioevo. Non ho visto il sangue di una razza. Non ho visto nessun uomo-nuovo. Non ho visto un popolo, non una comunità, ma una folla anonima che camminava e in mezzo c’ero anch’io. Non sono riuscito a vedere nessuna croce uncinata, neanche a cercarla in fondo; ma neppure una croce cristiana, se è per questo. Ho visto una quantità di dolore e alla fine – solo alla fine – ho visto affacciarsi l’Aperto. Questo Parsifal comincia nella foresta della montagna e finisce nella città. La città è da sempre il quadro tragico dell’esperienza umana. Rappresenta la comunità al più alto grado e rappresenta la bruttezza della vita comune che coglie l’uomo proprio in mezzo alla folla, quando si accorge che non può comunicarsi veramente: si tratta di una solitudine più densa e profonda che colpisce quando si è in mezzo a una società cui si appartiene, ma da cui ci si sente intimamente e definitivamente separati. Lo sguardo tragico sulla bruttezza della città può trasformare l’orrore nell’epifania di una nuovissima bellezza. Avremo, quindi, un Parsifal laico e socialmente impegnato, ove non laicista.
Anche nella “versione di Langridge” siamo in un Parsifal innovativo. La scena è un cubo di Plexiglass con proiezioni (ad esempio, del peccato sessuale di Amfortas con Kundry) I Cavalieri del Graal, in abiti moderni in grigio scuro con distintivo all’occhiello, sembrano una setta di New Born Christian. Il Graal non è una coppa, ma un bambino semi-nudo leggermente ferito dall’officiante in modo che i Cavalieri possano nutrirsi del suo sangue e del pane benedetto. Quando nel secondo atto il protagonista acquista consapevolezza del peccato e rifiuta di fare sesso con Kundry, viene accecato; ciò spiega il suo lungo peregrinare prima di tornare al Regno del Graal. Riacquista la vista nel “miracolo del Venerdì Santo”. Soprattutto, dopo la “purificazione” Kundry e Amfortas non muoiono ma sembrano avviarsi verso un matrimonio cristiano. Ed è fortemente cristiano il coro finale. Con tanto di voce dall’alto.
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