RIPRESA SENZA PRODUTTIVITA’
Giuseppe
Pennisi
Un
saggio recente (Il Vantaggio delle
Libertà: come costruire la società aperta in Italia’ di Sebastiano Bavetta
e Pietro Navarra, Rubettino) è stato commentato principalmente per l’afflato
liberale proveniente da due economisti siciliani – ordinario all’ateneo di
Palermo il primo, e rettore di quello di Messina il secondo). C’è , però, un
punto ancora più inquietante che merita di essere approfondito. In un capitolo
del libro si sostiene che la riduzione della produttività è fenomeno sì
particolarmente acuto in Italia ma che riguarda tutte le economie ‘mature’
sotto il profilo tecnologico. In Italia – ricordiamolo – tra il 1951 ed il
1973, la produttività è aumentata del 6,7% l’anno ma da allora, dopo una fase di
rallentamento, è in caduta, una caduta che pare a picco e che porta con sé il
decremento del Pil (il crollo dal 2007 è solo in parte imputabile ai mercati
finanziari).
Secondo
scuole di pensiero molto distanti (si pensi ai lavori di Kindleberger e Jánossi
sul ‘miracolo economico’), la determinante principale del forte aumento della
produttività 1951-1973 è da attribuire all’alta qualità di risorse umane che
nel periodo 1935-45 erano state impiegate in occupazioni improduttive (in gran
misure collegate al succedersi di guerre). Sempre secondo questa linea,
esaurita la riserve di risorse umane di alta qualità, poco o nulla si sarebbe
fatto per tenere sempre più alta quelle delle nuove leve. Unitamente ad una
pressione fiscale sempre più forte ed ad un sistema regolatorio sempre più
tentacolare ciò avrebbe determinato la contrazione prima ed il tracollo poi
della produttività in Italia. Indi, una strategia diretta a dare la priorità
alla scuola, all’università, alla ricerca, alla riduzione della pressione
fiscale e della morsa regolatoria ci potrebbe rimettere in marcia.
L’ipotesi
di Bavetta e Navarra aggiunge una determinante importante a questi elementi.
Riprendendo analisi quantitative di economisti americani come Robert Gordon e
Tyler Cowen, i due economisti siciliani sottolineano che nei Paesi Ocse il 70%
della crescita della produttività è avvenuto prima del 1972 perché allora si è
diventati ‘tecnologicamente maturi’. La tecnologia continua ad affinarsi ma i
suoi benefici sono principalmente per gli individui ed hanno scarse esternalità
ed interdipendenze per il resto della collettività. Si pensi alla telefonia
mobile agganciata alla telematica: ai primordi ha ridotto le distanze di spazio
e di tempo per tutti ma da vent’anni produce innovazioni per i singoli (ad
esempio, la vasta gamma di servizi offerti dai smartphone) con scarse
ricadute,però, sul resto della collettività. Quindi, il rendimento marginale
del miglioramento tecnologico è diminuito.
Tale
diminuzione – aggiungo – è particolarmente grave perché avviene in un fase in
cui un piccolo gruppo di Paesi (Nord America, Europa, Australia e Nuova
Zelanda) dopo aver detenuto il monopolio del progresso tecnologico per 200 anni
circa, lo hanno perso. E salvo una guerra mondiale ed il ritorno del
colonialismo, non potranno riacquistarlo più.
Una
ripresa senza produttività non può esserci. In Italia, da un lato, abbiamo
indicazioni che a ragione del nostro assetto istituzionale, nel BelPaese il
fenomeno è più grave che in molti altri Paesi; da un altro dal 1996 ci siamo
tolti gli strumenti per approfondirlo analiticamente (le matrici di contabilità
sociali) e simulare strategie politiche alternative per individuare tecnologie
ad alte interdipendenze ed esternalità. Parafrasando una frase di Einaudi:
deliberiamo senza conoscere – ossia andiamo a tentoni a volte sbattendo.
L’Istat ha un nuovo Presidente: auspichiamo che dia la priorità a strumenti
rimasti fermi al 1994 (sic!):
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